Dialogo con Daniel Calabrese
Aldo Micillo – Mi ha interessato molto l’incontro che avete fatto lunedì scorso a Casa della Poesia a Baronissi, quindi ti ringrazio di questa chiacchierata che mi concedi. Per cominciare, mi piacerebbe sapere un po’ di più della tua storia. I tuoi avi venivano dall’Italia…
DANIEL – Sì, i miei antenati venivano dalla Basilicata, dal paese di Noepoli. L’anno scorso gli ho fatto visita per la prima volta… Un’emozione indescrivibile. Questa è la mia quarta volta in Italia. Ma dalla prima che camminai in una strada di Roma, sentii che ero a casa mia: tutto mi risultava familiare! Questo è un mistero, no? Si, questo è un mistero… Io dico sempre che la poesia è un’amplificazione dei nostri sensi, di quanto percepiamo con essi. È un’espansione della coscienza che va oltre il sensoriale. Con i cinque sensi percepiamo la realtà. Con la poesia percepiamo qualcosa in più. Le persone parlano di un “sesto senso” nell’avvertire informazioni che non sono rapportabili alle percezioni corporee: da dove vengono queste informazioni? Questo si può coltivare, attraverso stati amplificati di coscienza: non dico “alterati”, ma “amplificati”. Alcuni lo hanno sperimentato con droghe, altri con meditazioni: la poesia è un processo simile. È un po’ come ciò che succedeva in quella strada la prima volta a Roma: mi conduceva, mi dava una direzione che non potevo altrimenti conoscere. Io riuscivo ad orientarmi grazie a questo strano senso che mi guidava. Così considero la poesia.
L’anno scorso, quindi, sono andato a Noepoli. Da lì veniva il mio bisnonno, Vincenzo Calabrese. È stato molto emozionante. Io ero il primo dei discendenti che ritornava. Era come se si chiudesse un cerchio. Credo molto nel tempo circolare. A partire da quel momento, sono cambiate molte cose nella mia vita. Molti indizi mi inducevano a credere che quello fosse un circolo che si stesse chiudendo…
A.M. – Hai già accennato alla tua poesia. Intanto: come hai iniziato a scrivere?
DANIEL – Ho incominciato a scrivere un po’ tardi. Ho sempre avuto un’attrazione per l’arte. Quando ero molto giovane, adolescente, terminata la scuola, fui reclutato dall’esercito argentino per la guerra nelle Isole Malvine. Si trattava della leva obbligatoria. Questo era negli anni ’80 ed ero appena un adolescente all’epoca…
A.M. – Quanti anni hai ora?
DANIEL – Ne ho 56.
A.M. – Complimenti, non li dimostri… Ti hanno poi inviato in guerra?
DANIEL – Beh, mi hanno reclutato obbligatoriamente, mi hanno dato un fucile che sparava storto…
A.M. – Sparava storto?
DANIEL – Sì! Se volevo centrare un bersaglio, dovevo mirare un po’ più a sinistra! In ogni caso non fui costretto a sparare se non nelle esercitazioni, mai in combattimento…
A.M. – …C’è l’addetta al bar… Intanto prendiamo un bicchiere di vino?
DANIEL – Si, grazie.
A.M. – Bianco o rosso?
DANIEL – Rosso, grazie.
Beh, ne abbiamo parlato un po’ scherzando, ma in quegli anni io ero poco più che un bambino, con molte aspettative nella vita. Avevo letto di guerre che erano durate molti anni e la possibilità di perdere la mia giovinezza mi ha afflitto. A 18 anni non avevo paura di morire. Mi preoccupava di più l’idea di uccidere che quella di morire. Eh sì, anche soffrivo per mia madre. Le comunicazioni non erano come quelle di oggi: mi inviarono nell’area delle operazioni di guerra ed io non ho saputo nulla di mia madre, né lei di me, finché non sono tornato. In quel momento c’era una dittatura in Argentina che, per mantenersi al potere, poiché era molto impopolare, dichiarò questa guerra. Il presidente era il generale Galtieri… Un nome italiano, come altri nella Giunta Militare: Massera, Viola, Bignone…
A.M. – …Era il periodo dei Desaparecidos…
DANIEL – Il periodo dei Desaparecidos fu soprattutto nella seconda metà degli anni settanta. Nell’82 presero le Malvine per guadagnare l’appoggio popolare, poiché era una richiesta storica della popolazione: le isole erano state usurpate dal Regno Unito e l’Argentina aveva sempre chiesto di riaverne la sovranità, ma questo non le era stato concesso.
La guerra fortunatamente fu breve. Ho vergogna a parlare agli italiani di guerra, poiché voi avete vissuto guerre di proporzioni bibliche. Quella delle Malvine è stata una piccola guerra, però da un punto di vista personale anche fu una tragedia: per le nostre vite, per le nostre madri, per le famiglie di ognuno di noi. Ho avuto la fortuna, in questa breve guerra, come ti ho detto, di non uccidere nessuno, e che nessuno mi abbia sparato, ma eravamo sempre in uno stato di allerta, come se il giorno dopo si fosse sul punto d’entrare in combattimento, come se da un giorno all’altro ci avrebbero mandati in prima linea. In questo periodo ne sto scrivendo un libro, poiché in me questa esperienza è ancora molto viva. Per ora penso che potrà intitolarsi “Compás de espera” (“Battuta d’arresto”)…
A.M. – Quando hai incominciato a scrivere?
DANIEL – Al ritorno del conflitto delle Malvine c’è stato un primo intento di scrittura, che riguardava quanto vissuto su quelle isole. Ne uscì un libro intitolato “Casus bellum” che, fortunatamente, è sparito nel tempo. Lo mandai, all’epoca, ad un concorso e, ovviamente, non vinse. Però non ho dimenticato la questione. Intanto mi iscrissi all’università, dove intrapresi vari percorsi di studi, sebbene nessuno si adattava alla mia ricerca personale. Lasciai quindi l’università e mi dedicai alla letteratura. Leggevo molto. In seguito, negli anni ’90, andai a lavorare in Cile, per una casa editrice…
A.M. – Che cosa leggevi?
DANIEL – Beh, a parte la letteratura universale, mi influenzarono molto gli autori di quello che è chiamato il “boom latino-americano”: Cortázar, Onetti, García Márquez, Vargas LLosa, Roa Bastos, etc. Quello che tutti cominciavano a leggere in quegli anni…
A.M. – Borges?
DANIEL – Sì, certo. Ma Borges non mi ha motivato a scrivere. Ricordo una boutade di Susan Sontag che diceva che gli scrittori potevano essere divisi in “mariti e amanti”. In quel gioco, per me Borges era chiaramente un “marito”. Intendo dire che c’è un tipo di letteratura che ti stimola a scrivere, che suscita altra creazione letteraria… Poi ci sono opere che sono così monumentali e complete, che sono poetiche chiuse, concluse in sé, come quella di Jorge Luis Borges: dopo aver letto Borges, ne rimango schiacciato dalla grandiosità. Non potrei scrivere stimolato da quella lettura.
A.M. – Quali altri autori leggevi?
DANIEL – Alejo Carpentier, Manuel Scorza, gli scrittori del realismo magico. Insomma tutti quegli autori latinoamericani che andavano per la maggiore in quel periodo e che mi spronavano a creare, che mi “espandevano” questo mondo… Io dico che la letteratura “apre” e che la poesia “espande”. Lo dico in rapporto alla nostra vita quotidiana, che altrimenti tende a chiudersi nella sua meccanicità. Quindi da qui approdai, in poco tempo, alla poesia. Mi avvicinai alla letteratura attraverso la narrativa, pur non scrivendo in prosa. Leggevo molta narrativa, ma con autori che erano al limite della poesia, per esempio Julio Cortázar. Sono stato introdotto alla poesia con i grandi autori ispanoamericani, come Vicente Huidobro del Cile, César Vallejo del Perù, Alejandra Pizarnik e Juan Gelman dell’Argentina. Quest’ultimo è un autore tradotto anche in italiano…
A.M. – Però perché sì alla poesia e no ai racconti e ai romanzi?
DANIEL – Chissà, forse per pigrizia… ahahah. Mi sembra che io sia più adatto per la poesia… Incominciai a scrivere giusto nella transizione tra la macchina da scrivere e il computer.…
A.M. – Come descriveresti la differenza tra scrivere una poesia e scrivere un testo in prosa?
DANIEL – Io credo che la prosa sia “una tecnica” di scrittura, del linguaggio, mentre la poesia sta prima della scrittura. La poesia la considero non dentro ma prima del linguaggio. La poesia può esprimersi in altre forme oltre alla letteratura…
A.M. – E cos’è questa cosa prima del linguaggio? È Possibile pensare prima del linguaggio, senza il linguaggio? Come si può conseguire? Per immagini?
DANIEL – Si, per immagini. Immagini sensoriali. È quanto ti dicevo prima a proposito di questa quantità maggiore di informazioni che sembrano stare molto oltre ciò che si percepisce sensorialmente…
A.M. – è un “sentire” quindi?
DANIEL – Si, è un sentire… Dante diceva: “povero me che le parole non giungono ad esprimere tutto ciò che sento…”. Già Dante lo diceva…
A.M. – Sembra che anche i Veda siano stati scritti sotto l’influsso di una bevanda estratta da una pianta sacra…
DANIEL – Per me la poesia non è un genere letterario… Già Aristotele, nella sua “Poetica”, distingue tra i testi scritti in versi ma che non contengono poesia e altri testi che non sono scritti in versi ma contengono poesia.
A.M. – Come accedi a questo mondo che sta “prima del linguaggio”, dove c’è la poesia?
DANIEL – è qualcosa che capita. Come mi è successo quella prima volta che venni in Italia e tutto mi risultava familiare ed io mi orientavano bene nelle strade. Per questo io ho cominciato a scrivere poesia: perché sentivo che c’erano cose che non si potevano pensare in altro modo. Ma questo mondo prima del linguaggio è come l’orizzonte: quanto più lo cerchi più si allontana…
A.M. – Allora è meglio non cercarlo?
DANIEL – Sì! Meglio non cercarlo: la poesia, quando c’è, si manifesta! È lo stesso per chi crea. È lo stesso per chi scrive ed anche per chi ascolta e per chi legge! Se non c’è “poesia” le parole entrano da un lato ed escono dall’altro… La buona poesia ti fa venire la pelle d’oca, e ti indica che c’è qualcosa in più…
A.M. – Sembra quasi che la poesia abbia una sua vita autonoma, una sua indipendenza e che il poeta sia quello che riesce ad ascoltarla e riportarla sulla carta: è un po’ così?
DANIEL – Il poeta non è un semplice amanuense della divinità. Tantomeno è un passivo che riceve soltanto. Quello che penso è che occorre aprirsi, occorre aprire tutti i sensi, per giungere a quello che è ignoto e che lì si manifesta… La realtà, e questo lo ha dimostrato la scienza, è molto di più di quello che possiamo captare con i cinque sensi. Un cane ha una capacità di udito maggiore della nostra. Noi abbiamo una coscienza, e quando si lavora in meditazione o si segue una dottrina, soprattutto quelle orientali, lo si può avvertire… Ci sono gli scritti dei Lama: pur non essendo mai usciti dai monasteri, i monaci erano capaci di conoscere e scrivere di luoghi remoti nel mondo, attraverso dei viaggi astrali. Per me ciò che concerne la letteratura è l’espansione della coscienza: ed è questo ciò che produce la poesia.
A.M. – Quando scrivi?
DANIEL – Scrivo molto frammentariamente, prendo note… Molte volte mi dimentico di quello che scrivo. Se rivedo quegli appunti, posso non riconoscerli… Scrivo in uno stato di coscienza amplificato… L’essere in meditazione è lo stato ideale per la poesia: lo “stato alfa”. Come quando ci si sta svegliando: è lì che ci arrivano la maggior parte delle soluzioni ai problemi. È quasi come in una dimensione di dormiveglia. È lì che avviene maggiormente l’espansione della coscienza di cui parlavo poc’anzi. È uno stato di maggior “lucidità” di quando si è “svegli”… Per questo credo che la poesia sia uno stato di lucidità! Ma uno stato di lucidità non necessariamente molto “cosciente”: ed in tal caso uso il termine “cosciente” nel senso che intendiamo quando siamo svegli, nel quotidiano, durante il giorno… Dunque, è per questo che mi dimentico di quello che scrivo: a volte me ne dimentico, e poi lo recupero. Prendo molte note. Una nota può essere, molte volte, il germe di una poesia. Una poesia può essere potenzialmente in una nota.
A.M. – Le note quindi sono come intuizioni che ricevi? Hai con te un taccuino dove segni queste intuizioni?
DANIEL – Sì, così scrivo…
A.M. – Sei influenzato nel pensare a chi può leggere?
DANIEL – No, questo mi sembrerebbe essere un po’ crudele con me stesso. È come una censura aprioristica per l’artista. Per questo io ho scelto la poesia: perché essa non ha un grande pubblico, salvo rarissime eccezioni, quindi ti dà libertà, non è commerciale. Se tu stai scrivendo un romanzo devi assicurarti che il pubblico ti possa comprendere, si possa identificare e che comprerà il tuo libro. Nella poesia non c’è questa premessa: quasi nessuno compra libri di poesie! E allora perché autocensurarsi? Credo, quindi che non mi lasci influenzare da un ipotetico lettore.
A.M. – Ci sono degli argomenti tabù, argomenti di cui preferisci non parlare, come la politica o il sesso?
DANIEL – No, credo di no. E questo anche grazie alla mia formazione di editore: lavorando in una casa editrice, ho imparato ad apprezzare contenuti e stili molto differenti dai miei, che non sono quelli che io preferisco per la mia scrittura…
A.M. – C’è una rete di letterati che, in qualche modo, ti influenza? Ti influenza che cosa pensano di te i colleghi? C’è anche una moda “elitaria” nello scrivere? Per esempio: in questo periodo si è portati a scrivere di certi argomenti o in un certo modo… E quindi, se vuoi essere riconosciuto come appartenente a quel gruppo di poeti, di letterati, devi scrivere in quel modo?
DANIEL – Esiste una rete e quando non sei in contatto con questa rete, puoi isolarti da una serie di eventi che chi vi è dentro promuove. D’altro canto, quando aderisci ad un gruppo, cominciano a coinvolgerti tanto, al punto che devi fare i conti con l’appartenenza a tale gruppo. Se poi invece vedono che scrivi bene, sei serio ma non appartieni a nessun gruppo in particolare, provano a tirarti dentro a dinamiche tipo: sei amico, sei nemico, ecc. Sembra un po’ come la mafia, no?
A.M. – è come se uno stia sempre a guardare un po’ l’altro che cosa fa…. C’è questo? E tu che posizione prendi?
DANIEL – Io credo che ciò possa essere una vanità del momento. Quello che è importante è l’opera. Quanto essa vale. Mi interessa anche che il poeta sia una buona persona, poiché si va incontro ad una contraddizione laddove da un lato si lavori con l’essenza “più sottile” della parola, dall’altro, quando si tratta di occupare uno spazio, si spintoni, sgomiti, ci si piazzi lì… Per me è incomprensibile! Se stai scrivendo poesie come puoi fare le scarpe all’altro o invidiare un altro perché gli hanno dato un premio, o perché lo hanno pubblicato in una buona casa editrice?
A.M. – Il poeta ha uno spazio personale ed ha uno spazio pubblico: deve attraversare quest’ultimo per arrivare alla gente, no? Oppure, se si chiude nel solo spazio personale…
DANIEL – Io credo che si dovrebbe evitare… A me non interessa entrare in critiche gratuite su altri poeti. A volte è capitato che alcuni amici mi abbiano richiamato e mi abbiano detto: come puoi essere amico di quell’altro. Nella letteratura non si dovrebbe ragionare così, essere nemico dei nemici dei tuoi amici… Questa cosa mi infastidisce. La moda letteraria mi infastidisce. Negli anni ’90, nel Rio de la Plata, in Argentina e in Uruguay, si impose la moda dell’Oggettivismo ed anche di quello che era chiamato il Neobarocco: tutti scrivevano allo stesso modo! Se tu non leggevi il nome dell’autore, non potevi identificare a chi apparteneva un testo, poiché tutti scrivevano in maniera simile. Io provo ad essere sincero con me stesso. Per molti anni non sono stato tanto riconosciuto, negli ultimi dieci anni molto di più. Rimane ferma l’idea che l’opera, che la sensibilità con cui si fa l’opera restino la cosa più importante.
A.M. – Cosa c’è dietro le tue poesie, c’è un’idea dell’uomo, del mondo? Ed è qualcosa che tu hai sistematizzato già prima, come una tua concezione alla quale tenti di essere coerente oppure si palesa nel momento stesso in cui scrivi? E qual è questa idea?
DANIEL – Sì, ho una mia concezione. Potrei definirla: una metafisica dell’illusione, montata su un linguaggio accessibile e che esprime un’idea di tempo circolare, in cui le cose quotidiane hanno un significato superiore a quello della semplice esistenza. è rinvenibile anche nel mio libro di poesie, edito qui in Italia: “Ruta Dos”. Aggiungo che mi interessa molto la relazione con gli altri esseri: animali, alberi… E la comunicazione con esseri animati e anche inanimati, cosa che potrebbe sembrare una contraddizione, ma solo apparentemente …
A.M. – Mi sembra che questo sia qualcosa che appartenga molto alla cultura del Centro e del Sud America…
DANIEL – A mio avviso, la visione del poeta deve essere opposta alla generalità, alla classificazione generale… Ci sono alcune popolazioni aborigene, in Africa centrale, che non dicono (indica l’albero di fronte) “questo è un pino”. Questo non è un pino, è troppo generale definirlo così, poiché può essere un pino giovane, un pino contorto, eccetera. Hanno differenti parole per nominare ognuno di questi casi, poiché lo identificano nella sua particolarità e non nella sua generalità. Questo mi sembra meraviglioso. Credo che ciò appartenga molto anche alla poesia. Nel libro che ho pubblicato in Italia, “Ruta dos”, ci sono molte immagini poetiche che ruotano intorno a questo tema. La ruta 2 (strada 2) esiste nella realtà: è un’autostrada che passa a fianco al mio paese natale: Dolores. Questa cittadina si trova ai margini, sulle rive di questa autostrada, che è come un fiume: tutto viene e va via lungo il suo corso. Poi c’è anche il numero “due”: lo metto in evidenza, poiché indica ciò che permette il dialogo, come opposizione: il “due” è ciò che si oppone affinché avvenga il divenire. Anche simbolicamente sta per un punto di vista alternativo, uno sguardo altro, un altro modo di vedere che è, giustamente, un’alternativa alla massificazione che questa cultura capitalistica ha creato, cultura che ragiona per classificazioni generali, quadri sinottici, e così via. Sfortunatamente questa è la base dell’educazione di oggi.
A.M. – Quindi che cos’è che ha tralasciato di importante questa cultura “ufficiale”, capitalista, di massa, di mercato, questa cultura dei mass-media, che invece tu vuoi valorizzare nella tua opera?
DANIEL – Ciò che a me preoccupa è quello che questa cultura scarta…
A.M. – E cosa scarta?
DANIEL – Per esempio, ascolta… questo è il verso di un uccello! Lo senti lì tra i rami?
A.M. – Sì… Bello… E vale la pena scrivere poesie per questo? Questo è ciò che tu dici a cui dobbiamo dare valore e che la cultura ufficiale dei mass-media non valorizza?
DANIEL – Questa massificazione vede le cose come “utili” o “non utili”, a seconda che ti permettano di produrre o meno altre cose: una cultura degli oggetti, non dell’esperienza, una cultura delle cose, non del vissuto. L’esperienza è qualcosa che arricchisce, ma non in senso materialista. Magari la cultura capitalista vede questo pino come legna, e non considera affatto l’uccello che ora sta pigolando….
A.M. – Cosa deve succedere per andare oltre questa cultura, oltre i valori che essa promulga come prioritari?
DANIEL – Cosa deve succedere affinché questo cambi? Beh, io credo nell’educazione. Ma l’educazione è lenta… Secondo gli scienziati ambientalisti siamo molto vicini alla fine del mondo come lo conosciamo. Questo mondo con tanta diversità sta giungendo alla fine in dieci, dodici anni. Non so se riusciremo a salvarlo, benché esista la tecnologia per farlo. Allo stesso tempo, il capitalismo è un’arma a doppia lama: da un lato distrugge e dall’altro genera la capacità di ricostruire. è la natura umana, a metà cammino tra angelo e demonio, tra il denso e il sottile. Ma sono una persona ottimista. Ho speranza nell’educazione, che pure è un prodotto di questa cultura, educazione che possa aprirsi all’insegnamento poetico, dove un momento possa essere valorizzato come e più di un oggetto…
A.M. – Quali sono gli aspetti a cui dai priorità quando scrivi?
DANIEL – Ci sono due autori fondamentali della poesia ispanoamericana, Vicente Huidobro, cileno e César Vallejo, peruviano, che ruppero con quanto vigeva nel mondo letterario in quel momento storico: tagliarono con il modernismo in letteratura, crearono una rottura. Generarono un’avanguardia. Ma quando le avanguardie si convertono in canone? Quando tutti incominciano a ripetere lo stesso modello. Dovevi scrivere, a quel tempo, come scriveva l’argentino Juan Gelman, per esempio o il cileno Nicanor Parra o Pablo Neruda, anche cileno. Essi, in quest’epoca, trascinarono generazioni di poeti che volevano scrivere come loro. Ci sono simili rotture nella storia letteraria. Io penso che il nocciolo della questione non sia rompere il classico con nuovi modi di fare versi. Ora possiamo far convivere tutte le forme che vengono da tempi e luoghi diversi. Grazie ad Internet si può conoscere la poesia antica e contemporanea di altre lingue e avere una veduta più ampia. Quindi quello che è importante è distinguersi attraverso la propria opera, non per l’appartenenza ad un manifesto avanguardistico o meno.
A.M. – Ora che non c’è un canone, come si può dire che questa è buona poesia e quest’altra non lo è?
DANIEL – Oppure: questo è nuovo e questo è vecchio…
A.M. – Si, infatti… e come puoi decidere se un certo autore scrive buone poesie, se non c’è un riferimento, un canone oggettivo esterno?
DANIEL – Bene: stiamo sempre lavorando con il linguaggio. La realizzazione è importante, quasi quanto il concepimento. A volte ci può essere un buon impianto concettuale, ma se si dovesse trascriverlo in poesia si rischierebbe di cadere in luoghi comuni e cose del genere, in definitiva si fallirebbe, non creando una buona poesia. Invece a volte ci può essere un’ottima ispirazione, ci può essere un’intenzione poetica tanto buona da resistere ad una scrittura sconnessa, non perfetta. Ci possono essere, a volte, immagini così forti, che non importa se la scrittura del verso non sia del tutto meticolosa, insomma è necessario un equilibrio tra creazione ed esecuzione della poesia.
A.M. – Lo scrivere è più un fatto di “sentire” o di tecnica? Prima si scriveva in endecasillabi, oppure in rima, o con schemi di rime alternate, mentre ora…
DANIEL – Sì, io vedo questo come una “polizia” della poesia, perché va contro ciò che il poeta sente, contro l’essenza. Trovo insensato cambiare una parola che ha una sillaba in più, ma di forte espressione poetica, perché non si incastra nell’endecasillabo. Molti poeti lo hanno fatto…. Ci sono molti poeti che hanno sacrificato il senso per rispettare la metrica, affinché il verso fosse perfetto, affinché la musicalità del verso fosse splendida. Questa non mi sembra una buona cosa. Io preferisco un verso imperfetto che però trasmetta la “poesia”, la forza poetica, alla musicalità del verso.
A.M. – Balli il tango?
DANIEL – È molto difficile! Mi piace molto l’espressione musicale. In Argentina dicono che il tango è un sentimento che si balla.
A.M. – Giochi a calcio?
DANIEL – Sì!
A.M. – In che ruolo giochi?
DANIEL – Gioco come ala sinistra.
A.M. – Tu ti senti argentino o argentino che vive in Cile o di che paese ti senti?
DANIEL – Sono molti anni che vivo in Cile ed ho ottenuto la mia residenza permanente, ma non ho mai chiesto la nazionalità in Cile. Ho una figlia lì, ed è cilena. Le nazionalità dividono le persone. Questo non mi piace, sebbene accetti chi desideri riconoscersi nella sua nazionalità… Potrei dire di essere Argentino, ma l’Argentina è molto varia: ci sono aree molto diverse l’una dall’altra. Una cosa è l’Argentina dell’interno, un’altra è quella Rioplatense. Ci sono identità culturali molto diverse… Diciamo che io mi sento Rioplatense… Per dirti: mi risulta molto più vicino un Uruguaiano sull’altra riva del Río de la Plata che un Argentino delle province del nord-ovest, confinante con l’altipiano boliviano… I confini sono solo divisioni politiche…
A.M. – In cosa ti senti Rioplatense? Nel tuo modo di vedere il mondo, nel modo di fare la corte ad una donna…
DANIEL – … nel modo di parlare, di prendere il matè, nel modo in cui si vive il calcio… Il tango non lo ballo ma mi piace molto… Non so, è molto vicino alla cultura italiana: parliamo con le mani, c’è molta fratellanza…
A.M. – Questo si ritrova nella tua poesia? Questa tua cultura di origine, anche se trasfigurata?
DANIEL – Credo che la si possa riscontrare più nel sentimento poetico, più nei contenuti che nella forma. Si, in aspetti come quello della morte ad esempio: la maniera di vivere la morte. Oppure la madre, l’educazione sentimentale…
A.M. – Prima dicevamo che in Europa c’è un atteggiamento culturale che privilegia il metafisico, mentre in Centro e Sud America si incontra maggiormente la tematica del rapporto con la natura, con gli esseri animati ed inanimati…
DANIEL – Nel Río de la Plata si avverte una certa insofferenza per questo, per questa visione che ha l’Europa riguardo alla nostra letteratura. C’è un libro dello scrittore uruguaiano Juan Carlos Onetti che anticipa l’Esistenzialismo (“El pozo“), anticipa Albert Camus. Onetti, cognome che indica discendenze italiane. Un altro scrittore argentino di discendenza italiana, Ernesto Sabato, diceva che nella grande letteratura (e stiamo parlando degli anni ’50) purtroppo gli europei si aspettano da noi, dagli argentini, il lato pittoresco: storie di cavalcate nella pianura e cose simili. Non si aspettano una letteratura con accento metafisico. Cosa che in effetti esiste davvero, ed anche a livelli notevoli: Borges, Sabato, il citato uruguaiano Onetti. Come dicevo, io ho un altro modo di approcciare la poesia, ma certamente esiste una letteratura metafisica sudamericana, argentina…
A.M. – Oggi la cultura in Europa sembra maggiormente influenzata da influssi mitteleuropei, anglosassoni e solo limitatamente da quelli mediterranei, del Sud Europa. Sembra, quindi, oltremodo interessante quello che succede sul versante ispanoamericano…
DANIEL – Un dialogo da Sud a Sud…
A.M. – …E, per certi versi, proseguirei questa linea ideale, che procede quasi orizzontale dall’America ispanoamericana al Mediterraneo, anche verso Est, verso il medio oriente e, chissà, oltre…
DANIEL – La poesia argentina differiva dal resto della poesia ispano-americana, che aveva un’eredità spagnola molto marcata, dapprima attraverso il contatto con le avanguardie europee, e in seguito, dagli anni ’50, con poeti americani contemporanei che la influenzarono molto.
A.M. – E tu sei stato influenzato dai poeti della beat generation?
DANIEL – Non così tanto, ma è diventato naturale l’inserimento del discorso colloquiale nella mia poesia.
A.M. – D’altra parte il titolo del tuo libro stampato in Italia, “Ruta Dos”, ricorda la famosa Route 66 e comunque il titolo stesso del libro di Jack Kerouac “On the road”, “Sulla strada”… C’è anche la tua poesia: “Le differenze tra mio padre e Kerouac”…
DANIEL – Certo… In generale anche altre opere furono molto influenti in particolare in Argentina, come per esempio l’“Antologia di Spoon River”, di Edgar Lee Masters.
A.M. – Questo mi ricorda alcune tue poesie, come “L’affogato”… La poesia sfiora ed esplora la spiritualità? E in che modo? Oppure, se no, qual è il suo specifico?
DANIEL – È una religione senza Dio.
A.M. – Qual è il campo più proprio della poesia che la differenzia dalla metafisica o dalla religione o da una stessa spiritualità, magari intesa nel senso più sudamericano (più del “sentire” di cui accennavi prima: lo spirito degli esseri viventi, la vita in ciò che ci circonda, il verso dell’uccello di prima…)? C’è un’influenza o una convergenza e, allo stesso tempo, c’è una indipendenza da parte della poesia, qualcosa che la specifica diversamente?
DANIEL – C’è una religiosità, una spiritualità… La poesia è una scrittura spirituale! Non dogmatica. Assolutamente individuale. Viene quando si vive l’essenza delle cose, che si possono comunicare attraverso lo spirituale. Come sapere se una pianta ti riceve bene o ti riceve male? C’è una comunicazione: questa comunicazione non avviene attraverso il linguaggio, come per gli animali, che ci sono più vicini. Non è una lingua parlata ma un linguaggio spirituale. Il tuo cane può sentire se sei triste o se sei allegro. E se hai ricevuto una cattiva notizia, subito viene e si accuccia accanto a te: come l’ha saputo? C’è un dialogo spirituale e questo, credo, è ciò che l’arte può recuperare. Questo dialogo spirituale tra le specie, le cose e noi è la poesia!
venerdì 19 aprile 2019 – La Locanda del Mare, Paestum
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