Secondo la Teoria del Mondo Piccolo tra due qualsiasi oggetti, punti o persone vi sono non più di sei gradi di separazione. Così ipotizzava nel 1929 lo scrittore ungherese Frigyes Karinthy nel racconto uscito anonimo Catene. Sette poesie, sei gradi e un solo racconto tessuto a quattordici mani: questa la nostra rubrica in Potlatch.
1.
Non è per lodarmi
ma io non ho splendore.
Sono un referente per la ruggine
più che un referente per la folgore.
Lavoro arduamente per fare quello che è disnecessario.
Ciò che serve non ha conferma,
quel che non serve, ce l’ha.
Non sarò più un povero diavolo che soffre di nobiltà.
Solo le cose striscianti mi celestano.
Ho una mania per fannullare.
Le violette m’immensano.
Manoel de Barros, in (a cura di Giorgio Sica) Il libro sul nulla, Oedipus, 2014.
GS
2.
Ricordo
Ricordo una chiesa antica,
romita,
nell’ora in cui l’aria s’arancia
e si scheggia ogni voce
sotto l’arcata del cielo.
Eri stanca,
e ci sedemmo sopra un gradino
come due mendicanti.
Invece il sangue ferveva
di meraviglia, a vedere
ogni uccello mutarsi in stella
nel cielo.
Giorgio Caproni, Ricordo, in (a cura di Luca Zuliani) L’opera in versi, Milano, Mondadori, 1998.
Manoel Wenceslau Leite de Barros, poeta brasiliano appartenente formalmente al Modernismo, è stato il cantore delle piccole cose, del nulla. Ruggine e “cose striscianti”, insetti e animali, i fiumi, le paludi. Tutto il piccolo, tutto il “niente” diventa il fulcro di una esplorazione poetica in cui le mancanze sono più interessanti delle presenze (non a caso de Barros viene considerato un post-modernista ante litteram), la parola per propria natura imperfetta è il mezzo ottimale per mostrare questa alternanza di vuoti e pieni che è la vita. Impossibile non pensare alla poesia delle piccole cose che abbiamo studiato in Pascoli, impossibile non pensare a Giorgio Caproni, fra i maggiori poeti italiani del Novecento, che una volta scrisse: “Mi lega l’erba. Il bosco. / Il fiume. Anche se il fiume è appena / un rumore ed un fresco / dietro le foglie. / La sera / siedo su questo sasso, e aspetto.” Il grillotalpa in cerca d’altro buio, che ricorre in questa poesia, è fratello spirituale del poeta.
In “Ricordo”, d’altra parte, Caproni prosegue il proprio cantare delle cose minime. Lungi dall’essere schiacciati dalle cose grandi, dal cielo, due innamorati siedono “come mendicanti” sui gradini di una chiesa, con il sangue che ferve di meraviglia. In questo breve testo, come d’altronde nel componimento di Barros che comincia con “Non è per lodarmi / ma io non ho splendore”, Caproni lavora sui contrasti, mettendo in conflitto dialettico costante il grande e il piccolo, la chiesa e il cielo, la tensione spirituale e la semplicità materiale. In Caproni ogni uccello muta in stella, riempiendo in un certo senso il vuoto della volta celeste; in de Barros le violette si sublimano, immensano. In queste pochissime righe, tutta l’essenza del Novecento. MC
3.
L’isola
Ricordi il mirto, fitto tra le boscaglie,
bianchissimo e odoroso, scendere per i dirupi
sopra quel mare? e le capre
tenaci brucare il timo, l’enigma
dello sguardo che si posa
dovunque e sempre assente?
più non so il luogo dell’imbarco
come salimmo nel battello
quali erano le carte per il viaggio.
Scendevi alta per lo stradino polveroso
antica come le ragazze
che portarono i panni alle fontane
la tua carne era bruna come la loro.
Férmati nella radura dove il vento
ha disseccato e sparso i rosmarini
qui potremmo vederle se aspettiamo
immobili alle euforbie quando imbruna
vanno alla bella fonte degli aneti
giocano lì nell’acqua e tra le erbe
e mai s’è udito un pianto
sono felici.
Tu eri come loro, solo una volta
quando uscivi dal mare, ti sei seduta
nei gradini del tempio, un’ombra appena
trascorse di dolore nella faccia.
Seppi così che il tempo era finito
che tra li dei si vive
un giorno solo.
E riprendemmo il mare
normali rotte.
Qualcun altro s’imbarca, attende il turno
né l’isola sprofonda
come vorrei.
Umberto Piersanti, L’Isola, in I luoghi persi, Torino, Einaudi, 1999.
A un certo punto, anni fa, sono inciampata in questa poesia di Piersanti. Il titolo, la vicinanza, il richiamo diretto, ma soprattutto alcune strofe. Si è come stampata a secco dentro me. E leggendo Caproni: ricordo, ricordi. Caproni mi ha trasportato in un sud caldo e dimenticato, come si possono dimenticare le isole fuori stagione o troppo lontane. La connessione è stata immediata. Piccoli indizi mi portano lontano da queste città, questi paesi, questi agglomerati che mi contengono – o mi costringono. Mi portano in luoghi selvatici, foresti, mi fanno sentire forestiera e forse proprio per questo perfettamente a casa, perfettamente libera. Stare dentro al luogo, senza realmente appartenervi. Mi pungo tra le boscaglie e scivolano i piedi per i dirupi polverosi, ma voglio vederlo, il mare. E mi siedo due volte – sopra un gradino come mendicante, sopra il gradino del tempio. Si confondono dolore e meraviglia, inizio e fine. Nelle parole di Piersanti ripercorro il viaggio, sempre breve, verso casa. Il desiderio che ogni volta l’isola sprofondi, insieme al mio allontanarmi. La certezza inquieta di quel “e riprendemmo il mare \ normali rotte”.
(Umberto Piersanti nasce a Urbino nel 1941. Debutta nel mondo della letteratura a ventisei anni. La poesia “L’isola” è presente nella raccolta “I luoghi persi”, prima edizione Einaudi, 1994 – riedito nel 2022 da Crocetti). CA
4.
TORNANDO A CASA
Quando guidiamo al buio
sulla lunga strada verso Provincetown,
quando ci sentiamo sfatti,
quando gli edifici e i pini cembri perdono
il loro aspetto familiare,
ci immagino elevarci dall’auto in corsa.
Ci immagino guardare ogni cosa da un altro luogo
—la cima di una delle pallide dune, o le profonde
e sconosciute regioni del mare.
E ciò che vediamo è il mondo che non ci apprezza,
ma che noi apprezziamo.
E ciò che vediamo è la nostra vita muoversi allo stesso modo,
lungo i confini bui di ogni cosa,
fari che spazzano via l’oscurità,
credere in un migliaio di cose fragili e impossibili da verificare.
Mettersi in guardia dal dolore,
frenare per la felicità,
prendere tutte le svolte giuste
fino alle martellanti barriere del mare,
le onde che si arricciano,
le strade strette, le case,
il passato, il futuro,
la porta d’ingresso che appartiene
a te e a me.
Mary Oliver, Coming Home, in Dream Work, New York, Atlantic Monthly Press, 1986.
Coming Home di Mary Oliver è il penultimo componimento nella raccolta Dream Work, pubblicata nel 1986 per Atlantic Monthly Press.
C., una mia collega di lavoro, me l’aveva regalata dopo che un giorno le avevo raccontato dell’improvvisa dipartita di un amico. In pausa pranzo ha velocemente approntato una dedica, e poi me l’ha messo tra le mani, come se mi avesse appena prescritto del conforto liquido. Nei giorni successivi ci ho trovato dentro la promessa della vita, di una natura pungente e straordinaria, di specchi d’acqua dentro i quali calarsi; di precetti, pochi, come coordinate costanti nella brusca navigazione esistenziale. Della squisita resilienza che ci raccoglie, ancora una volta, di fronte alle sconfitte.
In Coming Home il punto di vista si frammenta e si diversifica. Nel componimento Oliver immagina il suo corpo e quello della sua partner di guida –presumibilmente la fotografa Molly Malone Cook, a cui resterà legata fino alla sua morte—svettare dall’auto in corsa, e cogliere in un unico sguardo tutto quanto il loro mondo contiene.
È importante come la sua intuizione poetica, piena di empatia e dolcezza verso un mondo imperfetto (che non ci apprezza) non sia il frutto di un fenomeno di spersonalizzazione. È il corpo, nella sua verità esperienziale ad offrire l’opportunità fenomenale di una comprensione totalizzante, in un volo a planare che traccia un percorso di ri-conoscenza di ciò che ci appartiene singolarmente.
Oliver realizza una infilata a perdifiato e pluribus unum, in cui la vita osservata dall’alto (la cima delle dune pallide) o, al contrario dalle profondità silenti del mare, è inchiodata alla sua essenza: il candore e la pervicacia con cui ci aggrappiamo alla fragilità; l’illusione di poter rifuggire il dolore. La panoramica si restringe gradualmente, mentre la poetessa ricalca con esattezza il viaggio verso casa. Il mare mugghia in lontananza, la macchina rallenta lungo le stradicciole su cui si innestano le solite case, finché l’occhio infine non ne individua una soltanto, l’unica che possa interessarci. Il passaggio è mirabile, pieno della fattualità succinta, quasi generica— nello stile schietto, senza orpelli—di vita condivisa. Lo sa bene Umberto Piersanti, che, al contrario, applica a ciò che l’occhio della mente incornicia, la dolorosa minuzia dell’imperfetto. Anche lui e la sua accompagnatrice sono in viaggio. Non verso casa, tuttavia. RDP
5.
Voci da un cimitero
Questi fiori sono io, povera Fanny Hurd,
Silenziosi visitatori,
Esile fanciulla qui sepolta.
Un tempo leggiadra mi libravo come un usignolo
Sovra l’erba sussurante, mentre, ora, ondeggio,
Il sembiante di una margheritina, vegliano la mia tomba,
Tutto il giorno allegramente,
Tutta la notte misteriosamente!
— Sono il Baccelliere Browning,
Assorti visitatori;
Le mie ossa furono chiuse tra queste impenetrabili assi di quercia;
Quivi trascorsi ben oltre cent’anni,
Nell’umida impresa di mutarmi da grave bara
A particella danzante nel verde aere,
Tutto il giorno allegramente,
Tutta la notte misteriosamente!
— Io, Thomas Voss, queste bacche succose e lucide,
Silenziosi visitatori,
Sono, il mio nome sprofondato nel brumoso oblio;
Dal denso buio del sepolcro mi sono insinuato
Tra il muschio che ricopre la zolla di terra in cui ero costretto
Per introdurmi nelle fibre di questo tasso e divenire un rubicondo grappolo
Tutto il giorno allegramente,
Tutta la notte misteriosamente!
— Madonna Gertrude, di aristocratico lignaggio, superba,
Assorti visitatori,
Sono io – io questo lauro che ombreggia il vostro capo;
Silenziosamente ho percorso le sue venature
Facendomi linfa arborea; e le mie foglie, ora, risplendono
Come un tempo il mio raso sopraffino,
Tutto il giorno allegramente,
Tutta la notte misteriosamente!
— Io, materializzata in un etereo convolvolo,
Silenziosi visitatori,
Sono Eve Greensleeves, in passato
Baciata da uomini di ogni meridiano,
Vegliata dal sole e dalle stelle, in un aere di bragia o nella brezza,
Come adesso dalle lucciole e dalle api,
Tutto il giorno allegramente,
Tutta la notte misteriosamente!
— Sono Audeley Grey, un vecchio nobiluomo di campagna,
Assorti visitatori,
Che condusse la propria vita nell’indifferenza e nel dispregio si ritirò,
Finchè m’inerpicai, novella edera smeraldina,
Oramai insensibile alla sofferenza dell’esistere,
E in quel sembiante giubilo eternamente,
Tutto il giorno allegramente,
Tutta la notte misteriosamente!
— E così queste maschere sussurrano ad ogni
Silenzioso visitatore,
Che ivi indugi, e quell’ impercettibile discorrere
Offre a chi riesca a udirlo magno insegnamento,
Mentre quegli accenti mormoranti sembrano diffondersi
Ovunque intorno, in un luminoso brusio
Tutto il giorno allegramente,
Tutta la notte misteriosamente!
Thomas Hardy, Voices from things growing in a churchyard, (London 2001).
‘Coming Home’ di Mary Oliver evoca un viaggio verso casa. La macchina avanza nell’oscurità notturna e l’ambiente sembra estraneo ai nostri occhi stanchi. La nostra mente si solleva in alto e sprofonda in basso, vedendo il nostro mondo e il percorso della nostra vita da un’altra prospettiva. Benché il mondo non si curi di noi che lo abitiamo, alla fine del viaggio troviamo comunque la porta di casa nostra, ‘the doorway that belongs to you and me’.
‘Coming Home’ è una variante borghese del ritorno di Odisseo in patria. L’immagine finale è confortante, sicuramente molto più confortante di quella di Odisseo, che dopo lungo girovagare in mare tornò a Itaca e trovò casa sua occupata dagli spasimanti della moglie Penelope. Nella sua splendida poesia ‘Itaca’ Costantino Kavafis (1863-1933) interpreta l’Odissea come viaggio della vita: la meta non è importante, è la strada che conta:
Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.[1]
Della poesia di Mary Oliver mi piacciono soprattutto il sentimento di estraniazione, il librarsi nell’aria notturna, e la prospettiva la vertigine della prospettiva macroscopica. Tutto questo mi riporta alla mia infanzia, quando la sera tardi tornavamo a casa in macchina. Io, la più piccola, seduta sul sedile posteriore in mezzo ai miei fratelli, tutti stanchi e taciturni. Mi ricordo il ritmo dei lampioni infiniti che sfilavano davanti al finestrino e delle piccole strisce di pioggia che cadevano oblique e illuminate. Non avevo idea di dove fossi e di quanti anni luce sarebbe ancora durato il nostro viaggio. E non importava nemmeno, perché eravamo lì, tutti insieme in macchina, come una navicella nell’oceano della notte. E così, invece di vedere la vita umana dal cielo scuro e immenso, entravo nell’infinitamente piccolo di un mondo microscopico.
Perciò associo il macrocosmo di Mary Oliver al microcosmo che Thomas Hardy fa vivere in ‘Voci da un cimitero’ (‘Voices from things growing in a church yard’). In questi versi i morti sono diventati piante e fiori che prendono la parola. Hardy mostra che tutto perisce e tutto ritorna in una continua metamorfosi. La sua poesia si riallaccia sia alla lunga tradizione filosofica degli atomisti come Democrito e Lucrezio, sia alla ricca tradizione degli epigrammi funerari dalla Grecia arcaica alla Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters. Per fortuna i morti del cimitero di Hardy del 1921 non mancano di una certa leggerezza, la stessa che si ritrova nella versione musicata da Gerald Finzi e cantata dal baritono Roderick Williams nel 2006 ( https://www.youtube.com/watch?v=jsQiJ6TC4l8). EVO
6.
La casa dei doganieri
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Eugenio Montale, La casa dei doganieri, in Le occasioni, Torino, Einaudi, 1939.
Sono storie di fantasmi quelle contenute nei versi di Thomas Hardy, di morti con voci tonanti ancora pieni di passione, rimpianto e voglia di riscatto che sembra di vederli ergersi sulle tombe, tutti bardati esattamente come in vita, con gli attributi dei loro mestieri, a rammentare a chi passa quanto e come fugga l’esistenza. La regìa del poeta procede per carrellate talmente vivide e fauve da bruciare ogni distanza, e perfino l’Oltretomba in salsa Pixar di Coco pare adesso a chi scrive accostamento per niente eretico e ultima, psichedelica variazione sul tema di quanto doloroso sia, per un morto, non esser più ricordato.
Basta la prima voce, «Questi fiori sono io, povera Fanny Hurd,/ Silenziosi visitatori,/ Esile fanciulla qui sepolta», a vincere la tentazione di ritirar giù Edgar Lee Master e a riportarmi invece, per contrasto e ancora una volta, a una donna di cui anche il nome scompare sempre nel corpo dei versi: è l’Annetta-Arletta di Montale, la donna morta giovane, la “sommersa” che solo la voce del poeta può far affiorare e un luogo ben preciso accogliere.
La casa dei Doganieri, che Montale scrisse nel 1930, è forse la più celebre e citata de Le Occasioni.
Il risaputo sostrato biografico conta poco: che la casa sia quella delle vacanze estive del poeta; che Annetta degli Uberti sia una ragazza conosciuta d’estate a Monterosso o che resti donna immaginaria, come Dora Markus di cui Montale aveva visto soltanto la foto delle gambe e ascoltato la leggenda diffusa da Bobi Bazlen; che Montale si limitasse a dir di lei che «morì giovane e non ci fu nulla tra noi»; tutto questo appartiene al gioco del depistaggio tanto caro ai grandi poeti.
Ciò che qui interessa è che Annetta-Arletta, al centro di un intero ciclo della produzione montaliana, importante al punto da apparire anche molto dopo Le Occasioni, insieme prima e ultima donna, non ricorda, non sa più. Non è suo alcun «impercettibile discorrere» e, se un «magno insegnamento» c’è, questo ci arriva dall’io lirico montaliano ed è lontano da ogni consolazione, dall’irrequieto ma in fondo pacificante fluire della morte nella vita. Nessun «brumoso oblio» ma solo assenza irriducibile. Non c’è «linfa arborea» né «novella edera smeraldina» in cui si rinnovi panicamente il passato; l’anima di chi non c’è più è muta, il Varco è un’illusione, Montale fruga un vuoto tombale – «né qui respiri nell’oscurità».
La residuale fiducia del “rurale” Hardy nella circolarità cosmica di presente e passato, vita e morte, si scontra con la dichiarazione di resa montaliana. Il ricordo non può nulla, il superpotere letterario per eccellenza è sconfessato in un procedere parallelo e in senso contrario a Proust. Ma se niente rivive davvero nella memoria, questa è pure tutto ciò che abbiamo.
Se Annetta non ricorda il tempo in cui sostò nella casa, se il poeta non sa più «chi va e chi resta», è proprio l’essenza vibratile di queste immagini, la definizione lancinante dell’incertezza e il ritmo salmodiante e percussivo della Casa dei doganieri ad affermare, nell’unica forma possibile, il miracolo di una congiunzione tra qui e l’Altrove.
È possibile sopravvivere davvero alla persona amata?
È quel che ci piace pensare, fuori dagli schemi più consolidati della critica montaliana.
È-POSSIBILE-SOPRAVVIVERE-DAVVERO-ALLA-PERSONA-AMATA?
È quel che vogliamo vedere, entro lo spazio scenico di quella sofferta, insistita domanda che è tutta la Poesia. Perché la possibilità dell’incontro tra passato e presente, di una corrispondenza di affetti fuori dal Tempo e contro di esso, non è ribadita da una risposta affermativa ma in fondo, come l’amore, dalla domanda stessa. FM
7.
La casa esposta
Quando sono finite le siepi
Sversano la foto delle siepi.
Teste, fai il sigillo autentico,
cola cera. (Dal sole).
Argomento e destinazione.
Ma al muro dei due arsi
sotto il camminamento a castello
che curva le edere, potus, l’olivo largo
abbracciabile poco, ricorda la traccia all’olfatto
di umido, la gabbia-finestra di croci
come la osservava dal vetro verde grasso
essendo ancora pochi gli anni del corpo
gli anni del principio
– lì la cucina ingrandisce ricordata
ma la spende la polvere, la raggia.
stamattina entra, ha ritorno con le lingue
di memoria. Nel nero di mura, nel viola
che forza o sfiora serrature poi travi
orizzontali di ferro, a vuoto. Sente
Allora sarà bello quando noi
che qui abbiamo abitato (amato)
saremo tutti nomi morti
saremo tutti dai nostri stessi
semi – gli ultimi esiti pieni –
perfettamente finiti, senza resti
in nessuno che abbia
– sia pure irriflessa – parola
Marco Giovenale, La casa esposta, Le Lettere, Firenze, 2007.
La casa di Monterosso da cui i finanzieri sorvegliavano il traffico marino era già abbandonata quando/al tempo in cui/nel tempo in cui Eugenio Montale, da fanciullo, la frequentava; fu demolita quando il poeta aveva sei anni (lo racconta egli stesso in una lettera del ’71 ad Alfonso Leone): la giovane villeggiante – destinataria della lirica – non può ricordarla perché, molto più giovane di lui, non ebbe mai l’occasione di vederla.
Questa memoria montaliana mi ha riportata alla raccolta di un contemporaneo: Marco Giovenale scrive di e fotografa di una casa esposta, abitata, lasciata e ritratta, mentre si dissolve.
“La parola esatta, la cosa qualunque carica di significato” (Contini, Esercizi di lettura, Torino, Einaudi, 1974, p. 88) è in Montale la bussola che va impazzita all’avventura, il calcolo dei dadi che più non torna, la banderuola affumicata che gira senza pietà, èin Giovenale il camminamento, il potus, l’olivo largo, la cucina ingrandita dal vuoto, le mura annerite, la polvere, la raggia.
Se Montale cerca un frutto che possa contenere i suoi motivi senza rivelarli [Intenzioni (intervista immaginaria) in E. Montale, Sulla Poesia, pp. 566 sgg.] tale frutto è anche negli oggetti ritratti da Giovenale. Difficile non pensare, quindi, all’ objective correlative (the complete adequacy of the external to the emotion) presentato da Eliot, in altro contesto – l’Amleto e i suoi problemi – nel suo Bosco Sacro: è, questo, un intertesto arbitrario, che pure si poggia sulla familiarità tra il primo Eliot e il primo Montale, così come sulla citazione che il poeta romano riporta dal secondo movimento dei Quattro Quartetti – quello delle case che sorgono cadono crollano vengono ampliate vengono demolite distrutte restaurate (tr. it. A. Tonelli). Nondimeno, lo stesso Giovenale indica, fra le proprie letture fondamentali, the Waste Land e descrive la propria po(i)etica riferendosi a moti di attrazione/repulsione verso i percorsi di Montale (cfr. https://www.soniaciuffetelli.name/interviste/intervista-a-marco-giovenale/).
Così, per tornare alle case dei nostri testi, ritroviamo il fiume eracliteo delle cose per sempre mutate da quando erano pochi gli anni del corpo/gli anni del principio (gli anni del bambino che guardava). L’oggetto ha ritorno con le lingue di memoria e dalla memoria fugge – s’allontana/la casa – ma gli esiti sono differenti: se in Montale la dissoluzione crea nient’altro che sconforto (ce lo dicono i suoi oggetti), in Giovenale viene, dopo il dolore, la rassicurante mitezza del vuoto – allora sarà bello quando noi […] saremo tutti nomi morti – l’indicibilità del ricordo, da ostacolo per il mondo a venire, diviene, al futuro, apertura. MN
Hanno partecipato: Giorgio Sica, Manuel Crispo, Chiara Arturo, Rossella di Pietro, Emilie M. van Opstall, Francesca Magni, Manuela Naddeo.
In copertina disnecessario di Stefano Pellone.
Testi in lingua originale:
1.
Não é por me gavar
Mas eu não tenho esplendor.
Sou referente pra ferrugem
Mais do que referente pra fulgor.
Trabalho arduamente para fazer o que é desnecessário.
O que presta não tem confirmação,
o que não presta, tem.
Não serei mais um pobre diabo que sofre de nobrezas.
Só as coisas rasteiras me celestam.
Eu tenho cacoete pra vadio.
As violetas me imensam.
4.
Coming Home
When we are driving in the dark,
on the long road to Provincetown,
when we are weary,
when the buildings and the scrub pines lose their familiar look,
I imagine us rising from the speeding car.
I imagine us seeing everything from another place–
the top of one of the pale dunes, or the deep and nameless
fields of the sea.
And what we see is a world that cannot cherish us,
but which we cherish.
And what we see is our life moving like that
along the dark edges of everything,
headlights sweeping the blackness,
believing in a thousand fragile and unprovable things.
Looking out for sorrow,
slowing down for happiness,
making all the right turns
right down to the thumping barriers to the sea,
the swirling waves,
the narrow streets, the houses,
the past, the future,
the doorway that belongs
to you and me.
5.
Voices from Things Growing in a Churchyard
These flowers are I, poor Fanny Hurd,
Sir or Madam,
A little girl here sepultured.
Once I flit-fluttered like a bird
Above the grass, as now I wave
In daisy shapes above my grave,
All day cheerily,
All night eerily!
– I am one Bachelor Bowring, ‘Gent’,
Sir or Madam;
In shingled oak my bones were pent;
Hence more than a hundred years I spent
In my feat of change from a coffin-thrall
To a dancer in green as leaves on a wall.
All day cheerily,
All night eerily!
– I, these berries of juice and gloss,
Sir or Madam,
Am clean forgotten as Thomas Voss;
Thin-urned, I have burrowed away from the moss
That covers my sod, and have entered this yew,
And turned to clusters ruddy of view,
All day cheerily,
All night eerily!
– The Lady Gertrude, proud, high-bred,
Sir or Madam,
Am I — this laurel that shades your head;
Into its veins I have stilly sped,
And made them of me; and my leaves now shine,
As did my satins superfine,
All day cheerily,
All night eerily!
– I, who as innocent withwind climb,
Sir or Madam.
Am one Eve Greensleeves, in olden time
Kissed by men from many a clime,
Beneath sun, stars, in blaze, in breeze,
As now by glowworms and by bees,
All day cheerily,
All night eerily!
– I’m old Squire Audeley Grey, who grew,
Sir or Madam,
Aweary of life, and in scorn withdrew;
Till anon I clambered up anew
As ivy-green, when my ache was stayed,
And in that attire I have longtime gayed
All day cheerily,
All night eerily!
– And so these maskers breathe to each
Sir or Madam
Who lingers there, and their lively speech
Affords an interpreter much to teach,
As their murmurous accents seem to come
Thence hitheraround in a radiant hum,
All day cheerily,
All night eerily!
Thomas Hardy, Voices from Things Growing in a Churchyard’, da Thomas Hardy. Poems Selected by Tom Paulin (London 2001).
[1] Traduzione F.M. Pontani, Costantino Kavafis. Poesie, Milano 1991.
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