Meridel Le Sueur (1900 – 1996) è una scrittrice statunitense associata ai movimenti di proletari degli anni Trenta e Quaranta. Ha attraversato tutto il secolo con impegno radicale e rivoluzionario. È una vera leggenda della controcultura, della resistenza politica e del femminismo negli Stati Uniti.
1.
La casa poggiava bassa sulla prateria. Le altre case erano al buio, ma la luce della piccola baracca si poteva vedere a molte miglia di distanza. Un uomo su una Ford che scendeva giù dalle montagne la vide e valutò che doveva essere a circa quattro miglia da Folsom. La signora Pfaffer si alzò e guardò fuori dalla finestra attraverso la vasta distesa di buio che divideva la sua casa da quella dei Livingston.
«Qualcuno deve essere malato,» disse. «Vieni a letto,» disse suo marito, ma lei restò lì scossa da brividi leggeri, fissando il tenue raggio di luce che proveniva da quella finestra solitaria, oltre il buio, da quella casa che si ergeva così bassa sulla terra nera della notte.
In quella casa una bambina stava morendo. Il dottore era in piedi vicino al letto.
«Sono arrivato troppo tardi,» disse, «difterite.»
«Troppo tardi,» disse la madre, «oh no.»
Il dottore la guardò, strano trovare una donna come lei in una capanna in un allevamento di polli. Si poteva intuire che un tempo doveva essere stata di estrema bellezza. Parlava con un accento inglese. Sì – inglese. Era piccola con i capelli rossi che ora volgevano al grigio e la sua piccola faccia inglese da giovane doveva essere stata di grande bellezza. Era ancora delicata ma segnata dalla sofferenza. La pelle avvizzita e un pò sfiorita ma con quella bellezza che avrebbe ugualmente stupito gli uomini anche fra un migliaio di anni quando avrebbero dissotterrato le sue ossa.
Ora era in piedi accanto al letto della bambina serrandosi le mani mentre guardava il viso condannato e il corpo perduto.
La bambina aveva forse tre anni e i capelli neri, gli stessi caratteri delicati della madre ma con in più uno strano tocco selvaggio, un’audacia adeguata ai volti del nuovo mondo.
Il padre stava ai piedi del letto e non guardava la bambina ma la madre. Era un americano e il suo viso a cui il dolore attuale non era familiare guardava con folle ansietà la faccia di sua moglie china sulla bambina morente.
La sua testa si muoveva lentamente come se stesse seguendo qualcosa, e il dottore capì che stava guardando e seguendo il lento tortuoso respiro della bambina. La sua testa si sollevava quando il respiro entrava e teneva sospesa in aria la mano fino a quando il respiro fuoriusciva e allora era lei a trattenere il respiro nel momento di terribile attesa fino a quando il lento movimento riprendeva. Sembrava che forzasse l’entrata dell’aria con la forza della sua volontà. Il viso pallido era fisso e attento mentre era chino sulla bambina, le mani tese.
«Respira,» sussurrava, e la bambina sembrava obbedirle ma il dottore che le teneva il polso sentiva come era flebile il battito e quanto lentamente la vita fluiva via, come se la bambina fosse rinchiusa in un vacuum doloroso e loro stavano lì a guardarla soffocare.
Poggiò il polso e la mano sul copriletto. La donna sollevò i suoi grandi occhi con terrore.
«É meglio che vieni via, Ellen,» disse il marito all’improvviso, anche lui terrorizzato, vedendo che il dottore lasciava la mano e si girava. «Vieni via, Ellen,» disse a voce alta, guardando le sue mani enormi che stringevano il letto. Ma la donna non si mosse, così lui le si avvicinò, le afferrò la manica e poi le strinse il braccio, pensando di portarla fuori dalla stanza, ma lei con forza inaspettata si divincolò da lui.
«Lasciami stare,» disse fra i denti con tanta forza che i due uomini nella stanza sollevarono la testa. Guardando fisso suo marito disse di nuovo, «Lasciami sola,» e c’era un tale straordinario e terribile effetto di odio nei suoi occhi e in quelle parole aggrappate ai denti che l’uomo si allontanò da lei come se lei avesse sollevato la mano e lo avesse spinto via.
La donna dimenticò i due uomini nella stanza e guardò la bambina, aveva davanti agli occhi l’immagine di quando gliela avevano portata per la prima volta, dopo un giorno e una notte di terribile dolore; rivedeva i piedini paffuti, la testina ammaccata, le mani che afferravano alla cieca, la bocca che cercava avida. Aveva aspettato quella bambina per tutti gli anni della sua vita; ed era nata solo quando non la aspettava più, pensando che fosse ormai troppo tardi. E poi, dalla disperazione era venuta la meraviglia, il segno, la bambina. E dopo la meraviglia, la meraviglia ogni giorno, ogni momento, ogni ora, ogni lasso di tempo; chinarsi, sollevarsi, fare la spesa, cucinare, tutto diventava fertile perché una bambina stava crescendo nel tempo e nello spazio fino alla maturità, stava crescendo velocemente, strato su strato di tenera carne, e alla fine, meraviglia delle meraviglie, intelligenza che fioriva dagli occhi splendenti, parole dalle labbra, tanto che era sembrato che la vita feconda fosse per sempre trionfante, la morte conquistata e la caducità sconfitta…
Ed ora, tutto questo veniva spazzato via nello spazio di una notte, la bella carne generata giaceva debole, la brillante intelligenza tagliata via, le nuove parole che sgorgavano ricadevano nelle tenebre per sempre. Come il mondo avrebbe potuto ancora avere senso senza le labbra che chiedevano che cosa è questo e questo, e questo? E perché? E cosa? E dove? Come avrebbe potuto tornare il mattino senza un grido nella casa e senza piedini che camminano vanitosi sul pavimento? Come sarebbero state governate le capre e la mucca riportata indietro dal pascolo? Come avrebbero potuto spuntare ora i fiori dal terreno? E la pioggia cadere dal cielo disfatto dal tuono?
La donna rimase a guardare il volto della strana bambina che era venuta misteriosamente e ora misteriosamente era riportata indietro.
Ora la bocca era dischiusa.
Il dottore toccò la donna e lei sobbalzò come un uccellino spaventato e tremò.
«É finita.»
La donna si allontanò, accigliata. Guardò il dottore senza alcuna espressione, senza vederlo, l’orrore non era ancora nato in quegli occhi aperti in modo innaturale. Poi si chinò sulla bambina e spinse via i capelli dalla fronte paffuta.
«Respira,» sussurrò, «respira, tesoro.» Poi un qualche messaggio di morte arrivò alle sue mani e lei diede un piccolo grido come un uccello caduto dal cielo si voltò e cominciò a correre in circolo nella stanza battendo contro le pareti. Il marito sporse le mani rosse per prenderla ma lei le evitò.
«Piano, piano, Ellen,» disse stendendo le sue enormi mani ma senza avvicinarsi.
Si affannava contro le pareti ruvide attraverso le quali soffiava il vento. Sollevò impotente le mani verso il volto. Cominciò a fare brevi corse intorno alla stanza, intorno al letto. Il dottore tese le mani ma sembrava si stesse proteggendo dalla visione di lei. Lei si fermò accanto al letto, chinando il volto cosicché le sue lacrime caddero sul corpo gelato.
«Chi si prenderà cura di lei?» disse a bassa voce rivolta al dottore come se si stesse occupando di un problema pratico. «Certo saprete che ho fatto tutto per lei sin da quando è nata. Non so chi si prenderà cura di lei ora… deve essere accudita…»
«É meglio che si stenda un pò,» disse il dottore.
Ma la donna era eccitata dal dolore come se la bambina stesse per partire per un lungo viaggio per il quale lei doveva prepararla.
«Bisogna che le metta il suo bel cappotto nuovo,» disse vivacemente, con tono pratico, «le sto facendo un cappotto nuovo da uno di John. É veramente carino…» Il suo delicato accento inglese suonava così strano nella piccola casa. Il dottore la guardò e decise che era meglio lasciarla sola. Cominciò a raccogliere le sue cose e deporle nella sua borsa nera.
Allora, all’improvviso la donna emise un lungo grido e corse fuori dalla porta, attraversò l’altra stanza e la sentirono correre fuori dalla casa che rimase in silenzio.
«Cosa devo fare?» disse il marito. Poi le corse dietro e il dottore non sapeva se era uscito fuori o stava semplicemente aspettando alla porta. Stette in ascolto ma non sentì nulla. Guardò la bambina sul letto e poi finì di preparare la borsa. Si mise il cappotto, diede un ultimo sguardo alla stanza deserta e uscì. Il marito stava sulla porta e guardava fuori le pianure buie che giacevano sotto le innumerevoli stelle, e là lontano all’orizzonte c’erano le montagne, una crescita più densa della densa terra nera sotto le stelle luminose. Stava lì immobile, con le sue enormi mani che gli cadevano ai lati.
Il dottore si fermò accanto a lui mentre si abbottonava il cappotto, «Sarà a posto quando tornerà,» disse, «É meglio che resti qui. L’aria le farà bene. Sii gentile con lei. Queste cose sono piuttosto dure per una donna. E non è più giovane e probabilmente non ne avrà un’altro.»
L’uomo abbassò la testa come se fosse colpa sua, «Ha quarant’anni,» disse.
«Beh, è abbastanza vecchia per questo genere di cose,» disse il dottore. «Buonanotte. Manderò qualcuno dalla città. Me ne occuperò io. Buonanotte. Buonanotte.» L’uomo non si mosse e il dottore dovette passargli accanto; questo lo faceva sentire in qualche modo a disagio, dover passare così vicino a quell’enorme uomo che stava lì intontito, in una tale sofferenza muta. «Dannazione,» imprecò sbattendo la portiera della sua macchina, «ho fatto tutto quello che potevo.» Si allontanò schiacciando nervosamente i freni. Mentre avanzava lentamente sulle ruvide strade sconnesse guidando attraverso il buio si sentì male e debole all’improvviso ma non riusciva a pensare a nulla che avesse mangiato che avesse potuto fargli male.
Il marito, che stava fermo sulla porta, vide le luci della macchina del dottore che illuminavano le stie dei polli, il capanno delle capre e le capre che si muovevano con difficoltà e l’uomo era dolorosamente consapevole che erano le capre della bambina morta e dolorosamente nella sua mente si formò l’immagine di lei che giocava con loro, restando solenne a guardarle mentre le mungevano. Ma l’immagine era offuscata e lui non sopportava il dolore di richiamarla più chiaramente. La macchina del dottore risuonò lontano nel buio.
Restò in profonda immobilità scrutando nella spessa oscurità cercando Ellen, e immaginò di vederla correre nei campi dove il grano stava cominciando a germogliare; pensò di vederla nel pascolo fra le querce mentre faceva spostare le bestie; oppure eccola mentre scendeva lungo la strada che portava alla montagna; ma sapeva di non vederla da nessuna parte, che lei gli era estranea e che lui non la vedeva mai, neanche quando gli stava di fronte e parlava del prezzo delle uova, o preparava il cibo sulla tavola e lo aveva fatto talmente tante volte fin da quando anni fa l’aveva sposata, quando aveva temuto il riso lieve e i capelli ammassati sul fragile volto vivace, e lei era per lui come le stelle lontane, al di là della sua comprensione. Per lui lei era il buio e nessun luogo ed ora era corsa via e lo aveva lasciato solo impacciato dal dolore, senza una parola, senza un gesto.
Che maniera di manifestare il dolore correre via, trovarsi i piedi veloci per correre, il respiro svelto. Perché lui restava radicato al suolo per sempre con le mani penzoloni, i piedi di argilla affondati nella terra, la lingua inspessita che non riusciva ad articolare alcun suono, morta, gelata all’origine, come se avesse condiviso la morte nella sua bocca.
La follia del silenzio, della vasta terra che giaceva ammutolita senza dare risposta, della domanda sempre posta, della terra nera che si solleva e delle stelle che brillano timidamente e le stelle e la terra per sempre senza risposta, quella follia toccò anche lui, che stava in piedi sotto la vasta volta celeste, ritto sulla muta, muta terra che tratteneva la morte da tutti… e cominciò a correre sui campi arati gridando, «Ellen, Ellen!» e cadde inciampando sulle zolle, la faccia affondata nella terra umida tanto da sentirne il sapore in bocca, e con la terra nera in bocca soffocato dalla rabbia e dalla cecità.
Si alzò e avanzò incespicando, serrando rabbiosamente le mani, la testa bassa come se stesse cozzando contro l’oscurità.
«Ellen, Ellen,» chiamava e imprecava, si fermava e urlava bestemmie al cielo, e ad un tratto si fermò e guardando dietro di sé sul poggio vide la luce accesa nella casa che gli sembrò essere un’altra stella e restando così pieno di rabbia e di impotenza si convinse pian piano che quella che era la casa che aveva costruito con le sue stesse mani e nella quale giaceva morta la sua bambina a cui aveva dato vita nel buio al di là di se stesso e ora aveva perso nelle tenebre sempre al di là. La fragile casa sulla terra nero notte sembrava una cosa talmente mortale con la sua fioca luce tremolante che con dolore, muto e profetico, sprofondò a terra tremando e piangendo.
Ellen veniva attraverso i campi scuri, turbata da una pazzia delicata, torcendosi le mani ora in silenzio, calpestando la terra nera che doveva prendere la sua bambina, si accorse di lui accovacciato per terra che singhiozzava, con i grandi fianchi e le spalle che erano sollevati dalle convulsioni che lo scuotevano, e si fermò e indietreggiò dapprima, poi riconoscendo le braccia familiari e la testa china si avvicinò meravigliata di vederlo così commosso, lui che raramente aveva dato voce alla gioia o al dolore. Ora lei stava in piedi sovrastandolo meravigliata guardando lui che sembrava essere parte della terra, e lei non sapeva che fare.
Non una parola lui le aveva detto, né alla nascita della bambina, né prima né dopo, ed ora per lui essere squassato da questi terribili singhiozzi, sollevarsi come la terra in spaventose convulsioni vulcaniche, era orribile.
Lei stava per andarsene, ma proprio allora lui le afferrò la gonna, cercando di sollevarsi fino alla sua altezza e lei meravigliandosi gli pose le mani sulla testa ostinata e lasciò che le sue enormi mani che gli erano sempre state estranee la toccassero. E nel dolore lei lo conobbe.
Rimase ferma mormorando, le sue mani sulla sua testa; e lui si sollevò sulle ginocchia, con le braccia intorno a lei premendo intorno ai suoi fianchi e lei sentì il doloroso peso di lui premerle contro tanto da riuscire a mala pena a stare in piedi. Era come un vento nero che la spingeva e lei stava ferma aggrappata a lui.
La debole luce della casa veniva fuori dalla porta che era stata lasciata aperta e lei continuò a piangere accarezzando quella grande testa.
2.
Dopo quell’evento, i vicini, guardando fuori dalle finestre o sollevando la testa dalla mungitura di una mucca, mentre zappavano il giardino, vedevano da lontano una figurina delicata che camminava sui prati come se si affrettasse a un qualche appuntamento. La vedevano laggiù sui campi, o mentre attraversava un boschetto, e allora gli animali non si alzavano e scappavano al suo passaggio, ma restavano placidamente a guardarla, o, al più si alzavano e la seguivano gentilmente come per farle compagnia.
Qualche volta la incontravano lungo la strada e lei si fermava, parlando vivacemente con loro, e solo una persona particolarmente osservatrice riusciva a scoprire nel suo discorso allegro una vivacità innaturale, una gaiezza che portava l’ombra della pazzia. Ma quello che li spaventava di più e sembrava tutt’altro che momentaneamente innaturale era ciò di cui lei parlava. Per quanto ci provassero non riuscivano mai a spostare la conversazione su qualche altro soggetto. E così cominciarono ad evitarla come la peste ed erano così imbarazzati quando, incontrandola faccia a faccia, erano costretti a rivolgerle la parola. Perché sempre, col bel tempo o col freddo, non aveva che un unico argomento di conversazione, un solo tema, una canzone, una sola opera; solo la bambina morta.
Ora, è legge scritta o non scritta che i vivi non parlino dei morti, almeno non liberamente, non con piacere, non come se fossero ancora nella terra dei vivi, non con gli stessi termini almeno. Perché essi sono per sempre separati dal mistero, dal tempo, dalla disperazione. E i vivi devono vivere e non possono essere perseguitati per sempre dai morti. Questo almeno è il ragionamento dell’umanità, ed è un buon ragionamento, perché è sorprendente che con la morte in così stretta sovrapposizione con la vita, così imminente, così disastrosa, la vita sia addirittura possibile.
Ed era qualcosa di simile alla pazzia in Ellen Livingston che faceva sì che volesse legare a sé la memoria della morte, e camminare allegramente nei campi, giorno e notte, conservando la memoria della bambina morta, tenendola fra i vivi con la forza della sua stessa forza, spingendola nel vivace mondo dei vivi dalle ombre della morte, sfidando la putrefazione e la disperazione, ricreando la vita con quella forza e impulso dell’immaginazione, con quel vigore puro dell’immaginazione vivente che è lo stupore dell’uomo.
Per qualche antico vigore era capace di sopportare la stretta alchimia della morte e di non scacciarla via per essere dimenticata, per essere imbalsamata in una memoria imperfetta. La bambina era stata la punta massima della sua vita e la memoria era più vivida della scura realtà della maggior parte della vita.
Lei camminava nei campi, lungo il sentiero del sole, riscaldandosi come il grano che germogliava dal terreno ogni giorno ed ora era alto due piedi. Quando la bambina morì stava appena spuntando in verdi germogli. Temeva di veder le stagioni passare, il grano mietuto, perché sembrava predire il passare in qualche modo di quella vivacità quando l’anno sarebbe rotolato via così lontano che lei non avrebbe più potuto contare indietro e dire «Fu giusto un anno fa. Un anno fa e dovetti lasciare i suoi vestiti, un anno fa mi chiese che cosa fosse il tuono…»
Camminava lungo la strada raccogliendo fiori, prendendo i piccoli fiori blu che crescono vicino al terreno. Erano caldi quando li toccava e la confortava sapere che le cose che vengono dalla buia terra potessero essere calde.
Parlava alla bambina, raccontandole del grano, di come nascesse dalla terra e di come lei non avesse dimenticato nulla sebbene il grano fosse ora alto due piedi.
Le donne dicevano che per girovagare nei campi trascurava il suo lavoro. Ma in realtà lei non trascurava nulla. Sbrigava le sue faccende la mattina presto, persino con un certo entusiasmo, come se stesse recandosi ad un magnifico appuntamento. Poi si affrettava fuori parlando e sussurrando a se stessa, si precipitava fuori attraverso la strada, nei campi dove poteva essere sola, tessendo nell’aria i suoi indimenticabili sogni di quella bambina, legandola a sé per sempre così che non avrebbe mai, mai potuto dimenticare il suo unico, breve tempo di creazione, quando la vita era fertile e gli anni producevano carne e forme. Tesseva attentamente in quel disegno ogni gesto conosciuto e ricordato, dal primo movimento che aveva sentito dentro di sé della bambina sconosciuta al primo suono e pianto. Li tesseva tutt’intorno a lei in qualche sogno tangibile che diventava più reale fino a che vedeva il mondo grigio della casa, di John, delle capre, attraverso le sue maglie e attraverso qualche tessuto vivace. E camminava in questo allegro dolore tessendolo tutt’intorno a lei.
John era spaventato da questo suo voler insistere a tener in vita la bambina. Era troppo doloroso per lui pensare alla bambina e allora, semplicemente non ci pensava. Quando per la prima volta lei gli aveva voluto parlare della bambina era rimasta stupita nell’incontrare questa cospirazione di silenzio tutt’intorno a lei, la bocca chiusa, lo sguardo basso. Di notte quando si era avvicinata a suo marito pensando ora di condividere con lui questa ricca memoria e lui aveva detto, «No, no, Ellen. Non parliamo di questo. Dimentichiamo,» si era allontanata da lui per sempre. Dimenticare. Questa era una cosa che lei non avrebbe mai potuto fare. Non avrebbe alleviato il suo dolore neanche un pò. In mancanza della bambina avrebbe abbracciato il dolore.
Il suo volto brillava di una strana trance che incuteva paura a John, che la vedeva muoversi in cucina la sera dopo che aveva passato il giorno a girovagare nella vivida luce primaverile dei campi. Si sedeva al tavolo e la guardava.
«Ellen, Ellen,» la chiamava e lei era immersa nel suo sogno in cui la voce allegra della bambina la trafiggeva e quella di suo marito si alzava lontano come un tuono distante e lei non vi poneva attenzione. «Ellen, Ellen!» Lei sobbalzò e aggrottò le ciglia cercando di vederlo.
«Ellen, non dovresti fare così,» disse con l’ansia che lo rendeva severo.
Lei si fermò con le mani sollevate.
«John,» disse entrando nella stanza, si guardarono, «Vorrei… lo so che detesti andarci, ma vorrei che tu ci andassi. Lo vorrei tanto.»
Lui sapeva dove.
«John, vorrei che andassi e riempissi un pò la tomba.»
«Buon Dio,» disse lui seppellendosi la testa fra le mani, «non parlare così.»
«Ma si è scoperta un poco e la pioggia penetrerà, e a Ellen non piaceva la pioggia. Lo sai.» Aveva di nuovo quel tono pratico come se dovesse sistemare le cose, metterle in ordine.
Lui si passò le mani tra i capelli e si sedette ripiegato su stesso. Lei stava ferma in piedi davanti a lui, le mani sollevate in quel modo così indifeso. La stanza era silenziosa ed entrambi pensarono che certamente la bambina sarebbe arrivata di corsa dalla camera da letto. Tutt’a un tratto lui seppe che lei stava in ascolto della bambina e un brivido di orrore nero gli percorse la spina dorsale e si alzò e attraversò la stanza con passi pesanti, le passò accanto, e uscì dalla cucina sbattendo la porta dietro di lui..
Lei restò ferma per un momento, le mani sollevate, in ascolto. Poi ritornò in cucina e finì di lavare i piatti, e cominciò a pensare al modo per convincerlo ad andare a colmare la tomba dove era un pò franata.
La bambina diventò una specie di enorme segreto racchiuso in lei e sentì tutta l’eccitazione provata dalle donne che condividono un segreto, così qualche volta doveva andare lungo la strada assolata fino dalla signora Pfaffer.
Le donne sedute sotto il pergolato di rose la guardavano alzando gli occhi dal loro lavoro di cucito, sospettose dei suoi modi, caute, come se lei fosse venuta da un altro mondo. Lei si sedeva un po’ fuori dal pergolato, le mani incrociate in grembo, sedendo appena sul bordo della sedia come se avesse delle notizie importanti.
«Bene, come sta Mrs. Livingston?» chiedevano mordendosi le labbra, sapendo fin troppo bene come stava.
Ma lei era venuta per una cosa precisa. «Sapete, questo è proprio il tipo di giornata che a Ellen piaceva tanto.»
«Già.» Le donne guardarono per terra, lasciando cadere il lavoro sul grembo, pigramente per un momento, un tributo al dolore.
Ellen Livingston alzò gli occhi verso il pergolato di rose e il terrore del tempo la spaventò, il terrore del luogo mortale, e il terrore dell’assenza immortale. «Ricorda come le piaceva il suo pergolato di rose? Voleva sempre che ne facessimo uno anche noi. Ma per qualche ragione non l’abbiamo mai fatto.»
Mrs. Pfaffer morse il filo fra i denti serrati, «Non penso che dovrebbe parlare in quel modo Ellen Livingston. É ai vivi che deve la sua attenzione, non ai morti.»
Mrs. Livingston si adombrò, guardando a terra, due macchie rosse le colorarono le guance. Si alzò.
«Devo andare,» disse guardandosi intorno vagamente.
Mrs. Pfaffer era dispiaciuta di aver parlato. Eppure, qualcuno doveva parlare. «Perché?, è presto, noi pensavamo di restare tutto il pomeriggio.»
«Devo andare,» disse la donna, stando in piedi di fronte a loro, e loro distolsero lo sguardo da lei che sembrava avere su di sé una luminosità che apparteneva ad un mondo diverso dal loro, come se lei facesse parte in qualche strano modo di un altro mondo, quello della morte, e stesse diventando più strana e più luminosa dei viventi.
Vedendo i loro occhi abbassati lontani da lei, si girò e senza una parola andò via da sola lungo la strada e loro lasciarono il lavoro di cucito e la guardarono, fissandola sotto il pergolato, guardandola camminare veloce con piede leggero lungo la strada illuminata, affrettarsi come se stesse partendo per un bel viaggio per passione o per amore.
«Diamine, sembra quasi felice. Non riesco a capire,» dissero, «guardate come se ne va da sola. Beh, sembra splendere come un dollaro…»
Le donne si guardarono l’un l’altra e schioccarono la lingua, «Tch, tch, mi dispiace, mi dispiace…»
Lei si affrettò verso casa, un pensiero le si affacciava alla mente… Entrò nella casa buia e cominciò a preparare dei dolci per cena ed era molto brava a fare pasticcini leggerissimi come quelli che si fanno nelle cucine inglesi, tanto friabili e sorprendenti e sapeva che a John piacevano moltissimo e lei non ne aveva preparati da molto tempo. Così fece cuocere molti strani tipi di tartine e le riempì di frutta che aveva conservato nei barattoli quando il chiacchierio della bambina riempiva la cucina. Ora aprì i barattoli in silenzio, e c’era solo la frutta che aveva conservato, non il tempo, né le parole, né la bellezza.
John fu contento quando tornò a casa e sentì la casa calda e odorosa di pasticcini. Era di nuovo allegra e tiepida come non era stata da tanto tempo, e il suo cuore si commosse per la gioia ma non disse nulla. Anche lei era affettuosa con lui, a pranzo gli parlò in quel suo modo veloce e delicato tanto da fargli pensare che lei fosse ritornata a lui.
Dopo aver sparecchiato la tavola ed essere tornata nella stanza si mise in piedi di fronte a lui che dovette alzare la testa dal giornale.
«John,» disse, «non preparo sempre bene il pranzo?»
«Ma certo, Ellen, non ho mai detto…»
«Lo so. Ma le vicine dicono che io ti trascuro.»
«Oh, non è vero, Ellen. Non ho mai detto…»
«Non tengo in ordine la casa?»
«Certo. Certo.»
«Bene, ascolta John, non andresti a riempire un pò la tomba…»
Il terrore gelido tornò dentro di lui.
«…solo per non fare entrare la pioggia…»
«Va bene, ci andrò,» gridò all’improvviso.
«Domani?» disse afferrandogli la manica.
«Sì, domani,» disse lui ad alta voce.
Le vicine dicevano, «Fareste meglio a portarla via. Non è naturale.»
Mrs. Pfaffer diceva, «Insomma, santo cielo tutti perdono un bambino. È qualche cosa che tutti dobbiamo aspettarci.»
Ed Ellen le guardava semplicemente con il bel volto esaltato, senza ascoltarle.
3.
Ma il giorno dopo non andarono. John guardò lontano e disse che doveva arare il giardino. Ellen lo guardò ansiosa e fu di nuovo se stessa per una pausa, perché aveva cominciato a sognare della tomba, di quel luogo in cui la morte non era mitigata dalla memoria, non era risorta, per sempre immobile e definitiva.
La vita andrà avanti, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Nulla può fermarla, né il dolore, né la pena, né l’angoscia. Va avanti e i vivi restano intrappolati nel suo tempo come mosche nell’ambra.
Malgrado le sue vicine e suo marito, Ellen Livingston fu arricchita dal suo dolore e la sua anima maturò come una ricca noce racchiusa nel suo guscio.
Poiché accettava tutte le cose, persino la morte e il dolore, ne era arricchita più di coloro che rifiutano questi eventi per salvarsi dalla follia e dal disastro.
Rimaneva distesa sulla nera terra umida primaverile fino a che gli abiti ne erano impregnati e lei tremava, e di notte vedeva l’Orsa oscillare lontano all’orizzonte sui campi drogati dalla notte, vedeva la nera casa buia accovacciarsi solitaria sulla terra, e qualche volta si alzava furtiva e guardava nella finestra oscurata ma era più buio nella casa che fuori, perchè, dove stava lei, una luce che sembrava provenire dalle stelle sulla pianura, la illuminava stranamente, ma nella casa era buio e non riusciva a distinguere nessun oggetto.
In una di quelle notti, con la primavera che poteva quasi sentir sbocciare intorno a lei nel terreno, nella mezz’aria in cui i rami carichi degli alberi pendono scricchiolando aperti nell’aria notturna, le accadde di pensare che per miracolo avrebbe potuto avere un’altro bambino, che una cosa simile potesse succedere, che non era al di là del possibile. L’anno nasceva e portava a compimento i suoi frutti e tratteneva la morte sospesa sul petto, e poi tornava a nascere di nuovo. Perché Ellen Livingston non poteva imparare dalla terra, seguire il suo esempio? Rimase a lungo distesa a faccia in giù, la faccia nella nera terra umida che dava origine alla vita e alla morte, dava origine ad entrambe come aveva fatto lei.
Si alzò orgogliosa pensando a se stessa come parte della terra, valorosa, portatrice allo stesso modo di vita e di morte e poi di nuovo vita. Sentì in lei il ciclo benefico. E la terra era esperta in entrambe le cose, come lei. Si mise le mani sui seni e li sollevò verso la vaga cascata di stelle.
4.
Ma presto Mrs. Pfaffer vide John ed Ellen seduti nella Ford ed Ellen era vestita come per un’occasione speciale seduta dritta come un fuso nella macchina con un mazzo di fiori di mostarda fra le mani.
«Giurerei che stanno andando al cimitero,» disse schioccando la lingua.
Il cimitero era piccolo sulle colline piene di frutteti, vicino alla scuola. Era molto antico pieno di viti e cipressi, ormai più alti di qualsiasi albero nella vallata perché erano stati piantati dai pionieri per i loro morti. In primavera molti fiori spuntavano e fiorivano sulle loro tombe come se qualcuno li ricordasse ancora. Tutte le tombe più recenti erano per lo più tombe di bambini.
Un piccolo cancello bianco dava accesso al terreno. John ed Ellen lo attraversarono. John aveva in mano una vanga. Ellen aveva i fiori di mostarda. Camminarono lungo uno stretto sentiero con piccoli cumuli ai due lati, alcuni erano stati fatti da poco. Si fermarono ad una tomba recente che aveva tre vasi da frutta in cima. Non vi era stata posta ancora alcuna lapide. Guardarono entrambi e videro dove un angolo era un pò franato, ed Ellen non guardò oltre, per paura di vedere la bara.
Fu presa da grande confusione nel vedere la tomba e quel tipo di buio come se pensasse, Lei è morta, morta. Mi sto solo prendendo in giro. Questa è la fine. Questa è la morte. E si costrinse a guardare dritto nell’angolo dove la terra era franata e vide o pensò di vedere l’angolo della scatola.
Stavano entrambi immobili confusi, a guardare giù, John con la vanga in mano, Ellen con i fiori di mostarda, chiedendosi nella carne cosa fosse la morte. Erano assorti a guardare in basso dimentichi l’uno dell’altra. Poi la donna disse con voce dolce tanto che la carne di lui rabbrividì, «Chissà se il corpo si è già guastato.»
Lui aprì la bocca per parlare e sentì il vento sulle labbra. Pensò che sarebbe caduto lì a terra e non si sarebbe rialzato mai più. Ma non riuscì a dirle neanche una parola, ritornò e si trovò lì in piedi, con la vanga in mano e udì acqua scorrere e la vide china sull’idrante mentre riempiva il vasetto della frutta per i suoi fiori. Così strinse fra le mani la vanga, la affondò nel terreno e gettò terra fresca nella tomba, pressandola bene, la riaffondò e premette facendo in modo che alla fine era un cumulo arrotondato e solido, poi con grande cura scartò alcune zolle dal terreno e le appianò sul terreno ruvido, rendendolo arrotondato e liscio. Quando ebbe finito respirava pesantemente, prese il fazzoletto e si coprì la faccia.
Ellen si muoveva con la sua piccola delicata agilità, riempendo i vasetti con i suoi fiori, smuovendo la mostarda con le mani come se li stesse sistemando per metterli in salotto. E aveva quella piccola praticità assorta come se la morte potesse essere messa in ordine, come se potesse “fare” per la morte quello che faceva per la vita.
Lui si era coperto il volto con il fazzoletto ma la vedeva e gli procurava una stretta al cuore vederla così delicata, così assorta. E la ricordò muoversi con questa fragile consacrazione intorno al letto della bambina, intorno al seggiolone su cui mangiava, intorno alla bambina viva.
Quando finirono non sapevano più cosa fare. «Sei pronta per andare?» disse lui.
Lei si guardò intorno alla ricerca disperata di qualcos’altro da fare, e lui ebbe paura che lei si fermasse di nuovo e dicesse qualcosa di terribile. «Andiamo,» disse e quasi la spinse col suo corpo frapponendosi fra lei e la tomba. Lei andò smarrita, trasportata via, con le mani sul volto e lui sperò che non stesse piangendo.
Il sole cadeva in una pioggierella primaverile e gli alberi cominciavano a sbocciare e loro andarono via attraverso la campagna che germogliava ed Ellen cominciò a parlare a bassa voce della bambina, raccontando dei suoi modi delicati, di come camminava, com’era e come parlava e come fosse un essere delizioso. E lui guidava, facendo scattare la macchina in avanti con il sommesso fiume di parole ferite che batteva contro di lui fino a che fu costretto a rispondere all’attacco.
«Stai zitta. Stai zitta. Non ci riesci? Sempre a ciarlare della bambina.»
La vide mordersi le labbra e guardarlo da lontano con dolore e meraviglia, e un brivido percorse entrambi mentre viaggiavano attraverso la campagna fertile. Lei sporse in avanti le mani.
«Ma, John, non capisci…» Pensava alla sensazione che aveva avuto nell’orto, avere forse un’altra bambina.
«Sempre a parlare della bambina,» disse, «come se fosse qualcosa accaduta per colpa mia, colpa mia non aver portato in tempo il dottore…avanti, accusami…»
«Ma no. No,» gridò lei.
E lui gridò, «Avanti, accusami. Ecco tutto, accusami.»
Lei si rannicchiò quanto più lontano possibile nel sedile e lui la guardò a disagio – era così piccola.
Dopo un po’ lui disse, «La cosa migliore… la cosa migliore è non pensarci. Tu ci pensi troppo, ecco cos’è…»
«No,» disse lei.
Lui sapeva che lei stava piangendo e stringendo le mani, ma non poteva guardarla, non riusciva a girare la testa. Mandò avanti la macchina, stringendo forte il volante. Lei stringeva le mani in grembo e piangeva.
«Rendi tutto più difficile, parlandone e pensandoci sempre. Tutti lo dicono. Non lo dico solo io. Tutti lo dicono. Non dovresti venire affatto al cimitero, è quello che dice Mrs. Pfaffer…»
«Io voglio venirci,» gridò lei. «Lo voglio,» ripeté di nuovo incapace di dire altro. Pensava che non sarebbe mai più stata capace di rivolgergli la parola. Si allontanò da lui e lui le divenne estraneo. Lo guardò furtiva, spaventata all’idea di andare a casa con lui. Una paura terribile la invase come se lui fosse un estraneo per lei, carico di una minaccia sconosciuta.
Lasciarono l’autostrada e lei vide la casa lontano laggiù sulla strada, e malgrado l’avessero costruita, tirata fuori dalla loro fatica come un nido, le era sconosciuta, e fu pervasa dalla paura, sapendo che doveva arrivare in macchina fin là con questo strano uomo come se fosse un mostro, e uscire dalla macchina e entrare in quella strana casa fredda, e preparare molti pasti, e dormire molte notti agitate; e sentì tutta la spaventosa routine dei suoi anni futuri finché la morte non avrebbe liberato anche lei.
Anche lui aveva paura, vedendo il volto di lei così tormentato. Sembrava rimpicciolita e lui arrivò a pensare che non sarebbe sopravvissuta. Le sue membra diventarono acqua. Svoltò nel loro viale e fermò la macchina ma nessuno dei due si mosse per uscire. Una gallina attraversò la strada e li guardò, senza vederli, e beccò il terreno. Lui si sentì stupido a stare là seduto in macchina e uscì sbattendo la portiera dispiacendosi di averla sbattuta.
«Non esci?» le disse.
Lei non rispose ma sollevò il suo fragile corpo come se facesse un terribile sforzo, uscì e gli camminò accanto, distante, verso casa e lui si sentì debole come se fosse stato terribilmente malato e si fosse rialzato per la prima volta. Andò lentamente verso i capannoni e come in trance cominciò a dar da mangiare agli animali, e lui non era uomo da trovare il mondo irreale o strano; ma la visione del volto pallido e distante di lei e il pensiero che lei fosse prossima alla morte e la morte della bambina lo avevano solcato, smosso il terreno del suo mutismo e della sua impotenza.
In piedi vicino alle capre barbute che volgevano verso di lui i loro occhi tondi, era ossessionato dai ricordi della loro vita insieme, cose che non ricordava spesso, come l’aveva vista per la prima volta ad una partita di tennis con i capelli sollevati sul piccolo volto e lui si era sentito così ottuso, così pesante accanto a lei; come l’aveva sposata e lei aveva pianto la notte; come era venuto alla fattoria con lei; come stava a guardarla da lontano e vedeva il suo viso delicato, gli occhi sollevati, il movimento del suo corpo.
Dopo aver dato da mangiare alle galline andò lentamente verso casa e rimase a lungo fuori dalla porta sentendola muoversi all’interno, mentre preparava la cena. Aveva paura di entrare. Non avrebbe mai voluto attraversare quella porta che lui stesso aveva costruito.
Lei venne ad affacciarsi e lui si appiattì contro la casa, premendo il corpo contro lo stipite e lei non era lontana più di un piede guardava verso i capannoni, chiedendosi perché non rientrasse e lui poteva sentire il respiro di lei e trattenne il suo, conservandolo nei polmoni fino a che pensò che sarebbe morto.
Alla fine lei si spostò in casa e lui sentì il rumore di una sedia. Non avrebbe mangiato senza di lui. Doveva entrare ora. Fece un passo in avanti, aprì la porta ed entrò nella cucina tiepida. La vide attraverso la porta nell’altra stanza seduta al tavolo, la testa poggiata sulle mani sollevate.
Batté i piedi per scrollarli e versò l’acqua nella bacinella e si spruzzò la faccia, soffiando e sbuffando come faceva sempre, ma si sentiva malato e debole ed aveva paura di sedersi a cena con la donna.
Tuttavia dopo essersi asciugato la faccia si diresse coraggiosamente nella stanza dove lei stava seduta. Lei lasciò cadere le braccia ma non sollevò la testa. Lui si sedette sulla sua sedia di fronte a lei. Si accorse con sorpresa che il seggiolone della bambina che lei si era sempre rifiutata di mettere via, adesso non c’era. Lo sorprese. La guardò ma il suo volto non gli diceva nulla. Lei guardava il piatto vuoto.
Lui mangiò per forza d’abitudine soddisfacendo la fame del corpo che né il dolore né l’ansia potevano placare. Di tanto in tanto si guardavano l’un l’altro ed erano confusi. Non cercarono di fare conversazione. Quando ebbe finito lui si pulì la bocca, si alzò, prese il giornale della sera e cominciò a leggere, e lei si alzò e portò via i piatti. Lui pensò di aiutarla ma detestava aggirasi in cucina. Si sentiva troppo goffo.
Quando ebbe finito in cucina lei venne nella stanza e si sedette con le mani piegate in grembo. Si alzò, alla fine, e diede qualche punto di cucito, ma lui sentiva la sua mente aggirarsi nella stanza. Desiderò che leggesse.
«Vuoi una pagina del giornale?» disse.
«No, grazie,» rispose lei continuando a cucire.
«Vuoi che ti legga un pò di notizie?» disse.
«No, grazie,» rispose lei.
Lui pensò che lei non volesse ascoltare altro che il suo dolore. Così voltava avanti e indietro le pagine del giornale temendo di aver finito, di doverlo mettere da parte, perché allora non avrebbe saputo dove guardare se non alla fragile donna nella stanza che gli spezzava il cuore. Così lesse di nuovo, attentamente, le pagine dei fumetti e lesse le pubblicità e le notizie dei titoli. Poi dovette mettere giù il giornale, si alzò e si stiracchiò.
«Sono terribilmente stanco,» disse, «penso che andrò a letto.»
Lei posò il suo lavoro e si alzò. Rimase imbarazzata davanti a lui e lui cominciò a pulirsi le unghie con il coltello.
«Volevo ringraziarti,» disse con una piccola vocina lontana, «per essere venuto con me oggi pomeriggio. Volevo ringraziarti.»
Allora per qualche ragione lui cominciò a piangere, continuando a pulirsi le unghie. Lei vide le lacrime cadere sulle sue mani. E ancora una volta il dolore glielo rese noto. Andò verso di lui e mise le sue braccia intorno al suo petto potente e lui mise la sua grande mano su di lei.
«Ma non parlarne più. Non parlarne più. Non si può sopportare,» disse lui e le grandi gocce di lacrime salate caddero sul volto di lei sollevato e lei allora tornò alla terra dei vivi, tornò al grande ciclo fecondo della vita, come la terra, come la primavera. E lei seppe che la vita non sarebbe diventata morte e ricordo, ma di nuovo vita, la forma tonda il passaggio misterioso.
Traduzione di Raffaella Marzano
Meridel Le Sueur è nata il 22 febbraio 1900 a Murray, Iowa, ed è morta 14 novembre 1996, Hudson, Wisconsin). Cresciuta nelle pianure del Midwest e nella comune anarchica di Emma Goldman, è stata influenzata dalla sua famiglia impegnata nell’attivismo sociale e politico. Ha lasciato il liceo, ha lavorato nel cinema e ha iniziato a scrivere romanzi poesie e lavorato come giornalista negli anni Venti. Ha viaggiato in tutti gli Stati Uniti, scrivendo per i giornali di sinistra, tra cui il Daily Worker e New Masses insieme a John Steinbeck, Dos Passos, John Reed, su argomenti quali la disoccupazione, i lavoratori migranti, scioperi e le lotte dei nativi americani per l’autonomia. La vita delle donne durante la Grande Depressione sono stati oggetto del suo primo romanzo, The Girl, scritto nel 1939, ma pubblicato solo nel 1978. Famosi i suoi racconti raccolti in varie raccolte tra cui Salute to Spring (1940). North Star Country (1945) è una saga sulla gente del Midwest raccontata in forma di storia orale, e Crociati (1955) è una biografia dei suoi genitori. Ha vissuto tutta la vita sotto la stretta sorveglianza dell’FBI a causa delle sue opinioni politiche e ha scritto libri per bambini sulla storia e folklore americano. È considerata un vero monumento della sinistra, della controcultura e del femminismo americano.
Dorothea Lange (Hoboken, 26 maggio 1895 – San Francisco, 11 ottobre 1965) è stata una fotografa documentaria statunitense. Nel 1902, a soli 7 anni, fu colpita da una grave forma di poliomielite, che le causò un difetto alla gamba destra. Dorothea Lange reagì al suo handicap con estrema motivazione, studiando fotografia a New York con Clarence White e collaborando con diversi studi, come quello, celebre, di Arnold Genthe. Nel 1918 si spostò a San Francisco, aprendo un suo studio personale e diventando parte integrante della vita della città, fino alla morte. Proprio lì dove Genthe aveva costruito il suo successo, prima di spostarsi a New York, Dorothea Lange consolidò il suo futuro: sposò il pittore Maynard Dixon ed ebbe due figli, Daniel (1925) e John (1928). Nel frattempo, complice il clima sociale di assoluto interesse documentaristico, andò per le strade a immortalare la misera realtà dei quartieri disagiati, aderendo formalmente al movimento della straight photography.
Lascia un commento