Questa terza Lettera marrana riprende uno dei temi affrontati nelle prime due, il tema delle guerre in corso. Guerre tutte dimenticate, e non per prevalenza dell’oblio sul ricordo – che sarebbe anche una buona cosa, in quest’orgia di ricorrenze che impongono squallide verità di Stato a una Storia che avrebbe bisogno solo di verità documentali e di scrupolo scientifico –, ma perché le potenze in lotta per l’egemonia sul pianeta hanno bisogno di occultare le tempeste scatenate per governare il disordine, di cui si nutrono. Si tratterebbe, inoltre, della più pericolosa forma di oblio: l’oblio del presente che consiste nel voltare gli occhi altrove e poi godere dei frutti di questa operazione mediatico-politica. Nel bel film documentario Sarajevolution1 uno degli intervistati, Senadin Musabegović2, poeta e filosofo, afferma che le guerre nella Jugoslavia degli anni Novanta, ed in particolare quella in Bosnia Erzegovina, furono accolte dalla comunità internazionale con estrema “indolenza”. Un’indolenza assassina, si potrebbe aggiungere, sia nella passività con cui il mondo reagì al caos bellico sia negli interventi che precedettero e poi misero termine al conflitto con pace avvelenata. Un’indolenza che favorì i crimini dei nazionalismi, e di quello serbo in particolare, ma che alla fine produsse un evento geopolitico maggiore, e cioè la dissoluzione della Jugoslavia, demolita nella sua grandezza come nelle sue miserie, con conseguente nascita di Stati piccoli e impoveriti con cui i Grandi giocano come fanno i gatti con dei topini, non uccidendoli ma lasciandoli in vita affinché si riprendano (il mito dell’indipendenza, che sempre produce una dipendenza assoluta) per poi tornare a tormentarli, tramortirli di nuovo e ricominciare il gioco. Infame fino alla fine. Di questa comunità internazionale erano e sono leader gli Stati Uniti d’America, ma anche la Russia giocò un ruolo devastante: umiliata dall’Occidente dopo la fine dell’URSS, con una speranza di vita per gli uomini giunta ai 53 anni a metà degli anni Novanta grazie alle controriforme eltsiniane, ovvero al grande furto compiuto da oligarchi locali e imprese capitaliste straniere, trovò nelle guerre una soluzione ai suoi mali. Cecenia e Bosnia Erzegovina furono i laboratori della nuova Russia, cristiana d’oriente, che dice di difendere l’Europa dalle orde musulmane, in Caucaso come nei Balcani occidentali, qui per l’intermediario della Serbia. Grozny e Srebrenica sono le medaglie sul petto per questa difesa del cristiano occidente dall’islamismo. Perciò oggi guardano a Mosca Salvini e Le Pen, anche per prestiti e finanziamenti, e non più il proletariato mondiale.
La stessa indolenza oggi agisce in Siria, Iraq, Afghanistan, Libia3. Qui non c’è e non ci sarà dopoguerra possibile: la guerra, che la nostra Costituzione dice di ripudiare, non è più nemmeno la “risoluzione delle controversie internazionali”, ma è una condizione di stabilità planetaria. Essa genera profitti, ridisegna carte geografiche e territori: si presenta come stabilmente “costituente”, è stato detto, del disordine mondiale basato su ripetute pulizie etniche. I media occidentali riducono ogni cosa a una guerra di civiltà in cui l’integralismo islamista, o l’islam nel suo complesso (religione canaglia in sé, secondo molti), si batterebbe contro il cristianesimo, interpretazione suffragata da immagini di cristiani perseguitati, di attentati in chiese, parole del pontefice, etc. La sofferenza e gli esodi di questi uomini e donne è sicuramente spaventosa, ma essi/e soffrono insieme alle popolazioni musulmane in quella mezzaluna di dolore che va dal Maghreb fino all’Afghanistan, e anche dentro l’Occidente stesso (l’Eurabia della trivialità leghista-lepenista). Ma quello che non convince proprio è la chiave di lettura fornita: Occidente sano e moderno contro Oriente malsano e arcaico, il primo armato di pedagogia democratica mentre il secondo pronto a scatenare le sue furie persino contro sé stesso oppure a lanciarle nel cuore delle metropoli di Satana (Tel Aviv come New York, Madrid come Londra o Parigi). Se questa in corso è una guerra di religione, un’eterna Lepanto, cosa dire delle guerre scatenate dall’Occidente contro il pianeta tutto da cinque secoli a questa parte? Non è per motivi religiosi (la religione spesso assassina del mercato e del capitale, ma anche quella propriamente detta visto l’uso protervo di simboli sacri e del “dio è con noi”, variamente declinato) che si sono svolti i conflitti coloniali antichi e recenti? E per non andare troppo indietro nel tempo, non è stato religiosissimo e prova di fanatico integralismo l’embargo criminale che costò all’Iraq negli anni Novanta almeno un milione di vittime civili (anche qui, musulmani e cristiani insieme)? Non era degna di un carnefice dell’Antico testamento la frase di Madeleine Albright, che mai dimenticherò, rivolta al popolo iracheno (non al criminale Saddam Hussein): “Vi faremo tornare all’età della pietra”? Minaccia realizzata, nell’attuale distruzione di questo Paese, nell’oggettivo regresso delle condizioni di vita, fabbriche scuole ospedali, tutto devastato per ricostruzioni provvisorie e lucrose, tutto pensato a tavolino contro uomini e donne innocenti. Quell’embargo, quasi più delle due Guerre del Golfo, dovrebbe essere scolpito nella memoria di tutti/e noi, e i responsabili trascinati all’Aja, Bush padre e figlio, come un Milošević qualunque, come un tristo Mladić, il boia di Srebrenica. Boia cristiani: cristiani rinati, alla Bush figlio, o ortodossi, come i due leader serbi, o cattolici ed evangelici come tanti top gun, tra cui molti “nostri ragazzi”, che dall’alto dei cieli o da un centro in Nevada comandano la morte nel cuore dell’Afghanistan (meraviglia dei droni). Cristianissime sono tutte le paludose “missioni di pace”, e interni al campo cristiano i bombardamenti sulla Serbia nel 1999. Questi esempi bastino a decostruire il mito della guerra di religione oggi che o non dovrebbe essere usato oppure andrebbe applicato in modo uniforme: tutte le divinità sono terribili, ma più di tutti gli dèi sono gli uomini a tramare per forti convinzioni, per sete di potere, di energia e di acqua, e le élite istruiscono e accecano popoli sempre più fragili.
Vengono stroncati i corpi, avviliti, bruciati, in queste guerre, ma anche bruciata la civiltà. In Sarajevolution si racconta anche della ristrutturazione della Vijećnica, la Biblioteca di Sarajevo, costruita in stile eclettico nel 1896 e distrutta tra il 25 e il 26 agosto del 1992 dalle bombe cristiano ortodosse lanciate dall’esercito serbo bosniaco contro la città musulmana: città laica, in realtà, che proprio l’assedio e il dopoguerra hanno cambiato forse solo in superficie, non riuscendo – ma i segnali sono contrastanti – ad intaccarne lo spirito d’accoglienza, nelle acque che scorrono sotto gli asfalti e nei corpi che vi camminano, irriducibili. Quell’attacco fu terrorismo puro: nella Vijećnica vi erano libri di tutte le culture e in tutte le lingue parlate in Bosnia Erzegovina, e bruciando i libri gli aggressori dalle colline attorno volevano bruciare il segno tangibile di una vita comune, nel bene e nel male, l’intreccio dei segni nel tempo e l’incrociarsi degli sguardi di studenti e lettori e lettrici seduti/e a compulsare opere su opere, in quella culla del pensiero che era e che dovrà tornare ad essere la Biblioteca nazionale. Parecchie opere, fortunatamente ma non fortunosamente – e cioè solo grazie all’impegno di chi riuscì a correre sotto le bombe per portare al sicuro quanti più libri possibili-, sono state salvate: ancora oggi sapienti restauratori stanno recuperando testi a metà bruciati, rosicchiati dal fuoco, ed essi incollano e cuciono, operando come attenti chirurghi. Il film di Riccio documenta anche questo. La Vijećnica, pressoché completamente rimessa a nuovo, è stata inaugurata il 9 maggio del 2014 e così potrà tornare agli usi civili, biblioteca ma anche sede amministrativa (su questo è in corso a Sarajevo un dibattito acceso). E questo è il racconto di una ricostruzione. Ma i miei occhi vanno altrove, ora, spostandosi in altri luoghi della nostra terra, così vicini e lontani, per ignoranza, per interessi, per indolenza (inevitabilmente torna, questo termine). In Siria, in Mesopotamia, in Kurdistan (e in Libia e altrove) immensa è la distruzione del patrimonio artistico della civiltà umana. Lo denunciano gli archeologi, anche questi “nostri ragazzi”, ma non così amati ed apprezzati dalla autorità e dal potere qui in Italia, come Daniele Morandi Bonacossi, direttore della missione archeologica dell’Università di Udine in Assiria. “Nell’Ottocento i tesori dell’Impero Assiro viaggiavano in enormi casse di legno, stipati nelle stive dei vascelli, destinati ai saloni monumentali del Louvre e del British Museum, dove provocano ancora un effetto straniante. Oggi vengono avvolti in teloni di plastica e ammucchiati dai trafficanti nei portabagagli delle loro jeep. Per raggiungere il confine con la Turchia bastano poche ore di strada. Ad attenderli, gli intermediatori occidentali pronti a trasferirli – spesso attraverso la Svizzera – nelle maggiori piazze del mercato nero dell’arte: Londra, New York, Tokyo…”, così un articolo di Paolo Beltramin (4), ma continue e inascoltate sono le denunce sulla stampa più sensibile5. Qui Occidente e Oriente svelano la loro chiara complicità: l’iconoclastia dell’Oriente – Beltramin a ragione ricorda “la demolizione dei Buddha di Bamiyan da parte dei Talebani in Afghanistan nel 2001, per affermare i precetti del wahabismo, la riforma puritana che impone di abbattere ogni oggetto di culto non rivolto ad Allah” – si allea con la sete di denaro, di prestigio e di cultura (anche quest’ultima può generare mostri) dell’Occidente, ieri come oggi, con tesori d’arte che prendevano e prendono la strada dei musei o di collezioni private. Ma padre di tutti i crimini contemporanei contro l’arte fu il saccheggio del Museo di Baghdad nel 2003, dopo che gli eserciti della coalizione guidata da Bush e da Blair erano entrati in città: furono protette alcune sedi governative e quelle delle agenzie petrolifere, ma lasciate incustodite le varie istituzioni culturali e artistiche che divennero oggetto di rapina e distruzione da parte di teppisti o di ladri d’arte. Immagini che restano negli occhi, e le lacrime dei funzionari del Museo impotenti a fermare quella rovina. Ciò che sorprende nelle guerre d’oggi è l’irreparabilità programmata delle devastazioni: in tutte le guerre del passato le città hanno subito distruzioni, ma mai come in quelle d’oggi tale eventualità o non è presa in conto perché trascurabile particolare nei piani bellici, oppure addirittura viene considerata utile e giusta alla vittoria finale, compimento di quel ritorno allo stato primitivo che Madeleine Albright auspicava per l’Iraq e che i suoi successori, tra cui il Nobel per la pace Obama e gli sgozzatori / stupratori degli eserciti islamisti, stanno realizzando con grande attenzione.
La terza Lettera marrana finisce, fuori tema ma in omaggio di fine 2014 agli amici e alle amiche di Casa della Poesia, con Guy Debord e la rivista “Potlatch” che lui e i suoi complici lettristi / situazionisti, in scissioni varie, hanno animato tra il 1954 e il 1957:
“Chi è Potlatch?
- Una spia sovietica, principale complice dei Rosenberg, scoperta nel 1952 dall’F.B.I.?
- Una pratica del dono suntuario, che desidera il ritorno di altri doni, che sarebbe stata la base di una economia dell’America precolombiana?
- Un vocabolo privo di senso inventato dai lettristi per intitolare una delle loro pubblicazioni?…”6
Così sul numero 14 di “Potlatch” del 30 novembre 1954, nel pieno di una delle tante tormente che il gruppo incontrò nel suo cammino. Figli delle avanguardie di primo Novecento, ma nati prima delle neoavanguardie degli anni Sessanta, i lettristi, poi diventati situazionisti, nella rivista scrivevano di psicogeografia, di derive negli spazi urbani, di letteratura, di architettura, di politica. Con lucida e disperata rabbia, tra individuazione del nemico, anche tra i propri ranghi, ed esaltazione dell’amicizia conviviale. L’ultima avanguardia necessaria, prima che neocapitalismo, breznevismi e postmodernismi truculenti prendessero il sopravvento sulla vita e la determinassero nei suoi minuti dettagli.
Nel n° 30 della rivista del 15 luglio 1959, il primo con l’indicazione “Informazioni interne dell’Internazionale situazionista”, e non più “Bollettino d’informazione dell’Internazionale lettrista”, leggiamo queste note: “…Si sa che Potlatch traeva il titolo dal nome, presso alcuni Indiani dell’America settentrionale, di una forma precommerciale di circolazione dei beni, fondata sulla reciprocità dei doni suntuari. I beni non vendibili che un simile bollettino gratuito può distribuire, sono desideri e problemi inediti; e soltanto il loro approfondimento da parte di altri può costituire un dono di ritorno. Ciò spiega il fatto che in Potlatch lo scambio d’esperienze è stato spesso sostituito da uno scambio d’insulti, di quegli insulti dovuti alle persone che hanno della vita un’idea meno grande della nostra (…). Noi viviamo, come dovranno farlo i reali innovatori fino al rovesciamento di tutte le condizioni dominanti della cultura, in questa contraddizione centrale: siamo nel contempo una presenza e una contestazione nelle arti attualmente chiamate moderne (…). Per il superamento di questo mondo risibile e solido…”7. Mi sembra siano questi i compiti di cui di nuovo vestirsi, oggi, attaccando la solidità delle nostre società, liquide solo in superficie. La sublime arroganza di Debord e compagni (con rare compagne) forse non è più nelle nostre possibilità, ma tutto il resto sì, per riprendere i percorsi dentro le città e negli intervalli tra queste, resi più brevi e oscuri dall’alta velocità, rapidissime corde di luce mentre a poco a poco si spegne la campagna intorno e viene riempita di capannoni e di rifiuti tossici. Alla domanda “Chi è Potlatch”, peraltro, avrei voluto dare la prima risposta, inesatta ma suggestiva (è corretta la seconda, ovviamente). Di spie –amanti dei soviet ma non stalinbrezneviane- abbiamo bisogno, di quinte colonne, di “ospiti ingrati” (alla Fortini) o “segnalatori d’incendio” (alla Benjanim) e di marrani e marrane, infine, capaci prima o poi (ovvero quando è il momento) di uscire dai propri quartieri per professare l’antica fede, resa giovanissima da anni o da secoli di maturazione e di acute finzioni.
Gianluca Paciucci
1 (Sarajevolution (2104, 82’) è stato diretto da Rocco Riccio e scritto da Giulia Levi, Mario Rubichi e Federico Sicurella.
2 Di Senadin Musabegović si può leggere, in italiano, la raccolta di versi La polvere sui guanti del chirurgo, Roma, Infinito, 2007, pp. 96.
3 Sugli argomenti che qui di seguito tratto, mi permetto di rimandare a un mio articolo-recensione dal titolo “Un libro sulla non guerra di Libia” che si può leggere sul blog Vento largo. Il libro recensito è Paolo Sensini, Libia 2011, Milano, Jaca Book, 2011.
4 Paolo Beltramin, “I predatori dell’antica Ninive. ‘I jihadisti rivendono i tesori’”, Corriere della Sera, 27 settembre 2014. Per un aggiornamento si può leggere anche questo articolo del 24.12 2014, in Repubblica online: “Siria, le Nazioni Unite denunciano: danni enormi al patrimonio archeologico”.
5 Da ricordare, tra gli altri, gli interventi del grande archeologo Paolo Matthiae, tra cui l’articolo “Siria: il dramma del patrimonio”, Sole – 24 ore del 16.02 2014. Di Matthiae, per un pubblico attento di non specialisti, segnaliamo almeno Scoperte di archeologia orientale, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 240.
6 27 in Potlatch. Bollettino dell’internazionale lettrista 1954 – 1957, Torino, Nautilus, pp. 140.
7 94 in Potlatch, op. cit.
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