Le parole povere
(Frammenti)
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Prima che tu andassi a fare visita ai malati, ti ho sorriso.
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Mi sono sentita sollevata di ritrovarmi fuori, perché mi ero annoiata, e soprattutto perché sfuggivo al forte odore di questo uomo che puzzava, sì è così, puzzava di cane.
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Piango senza rumore, salvo quello del tirar su col naso e degli stropiccii dei fazzoletti di carta. Singhiozzo silenziosamente. Ho pianto fin che ne avevo bisogno, e ne avevo un bisogno molto vasto. Non avevo mai pianto in così grande quantità, così profondamente, così tristemente. Oggi era una giornata d’inverno, è stato buio fin tardi al mattino, è stato buio presto la sera.
Addormentandomi, con le narici screpolate e gli occhi gonfi, ho sognato che ero in piedi su un ripiano del muro, e che usciva dalla mia gola il canto di un uccello notturno.
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Questa fantasia è stata la mia prima liberazione.
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Ma il mio silenzio mi fa bene.
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Non so perché è questa immagine che mi viene per dire le emozioni che si impadroniscono di me ad un ritmo irregolare, imprevedibile. Non sono dei movimenti superficiali, manifestazioni dell’emotività, ma momenti in cui si avvicina il sentimento della vita. Momenti vivi. Tra l’uno e l’altro, tempi morti.
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Penso di non aver avuto infanzia. Questa infanzia in cui si è abbandonati al sorgere. Non ho potuto essere paralizzata, o divorata, dalla paura. Incendiata, decomposta dall’inatteso. Mi sono subito protetta dall’ignoto. Ho sempre parlato.
Anche quando non parlavo ancora. Ho sempre saputo che le parole esistevano per scongiurare le paure. Non sono stata abbandonata nell’infanzia. In fretta mi sono impadronita delle parole, in fretta e con l’applicazione ho dominato il loro intreccio.
Questo mi ha dato la parola facile. Ed efficace, nel senso che essa ha sempre fatto effetto. Le parole mi hanno messo al di sopra della paura. Con loro ho sconfitto, o sedotto in anticipo, i miei supposti nemici. Trasformati in vittime o in complici prima d’avermi potuto nuocere. A seconda delle circostanze, ho saputo parlare agli altri il linguaggio che essi attendevano: il loro.
La paura che mi aspetta al varco, ammassata da tanto tempo dietro il bastione che si sgretola. La parola mi ha lasciata, ma non ancora le parole, che vivono in me. Mi aspetta al varco una paura potente, preistorica, che mi insegna la paura.
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Ho confezionato una crostata di mele. Dopo aver disposto sulla pasta le mele tagliate a fette, e prima di introdurre la piastra nel forno, sono uscita sulla soglia della casa, con la crostata in mano. L’aria era fredda e pura. Non faceva più giorno. I rami neri e nudi del castagno disegnavano una danza immobile davanti al cielo cupo, inondato di tovaglie malva e grigie. Davanti alla porta, esattamente l’una sopra l’altra, la viva virgola della luna ed il fremito della stella del pastore. Una così dolce e così imperiosa luce. Ho loro presentato come offerta la crostata di mele, domandando benedizione per essa. Poi sono rientrata e sono riuscita ad accendere il forno della vecchia cucina dopo che era “scoppiato” una prima volta.
Ed ho atteso.
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Non posso più iniziare una giornata senza leggere un poema. Prima, non sapevo leggere la poesia. Mi ricordo che il poema si svolgeva davanti a me, come dall’altro lato di una insormontabile finestra. Nel migliore dei casi, la poesia mi impressionava. Pensavo di non essere sufficientemente intelligente per essa.
Adesso, mi sembra al contrario che essa sia consenso alla semplicità. Che essa non domandi, a chi la legge, che di abbandonarsi. Di lasciarsi andare. Scelgo testi in lingua straniera. Sulla pagina di sinistra è stampata il poema nella sua lingua, sulla pagina di destra nella sua traduzione. Ed ogni mattino, leggo una poema, o due, ad alta voce. Voglio dire: ad alta voce interiore e talvolta anche, nella lingua del poema, muovendo le mie labbra e disponendo la bocca come per proferirla. Perché, anche se sono impotente a farla suonare, la lingua continua a vivere in me. E a sentire così lo spazio interiore della mia bocca variare seguendo i suoni della lingua straniera, quelli che nessuna abitudine mi ha reso familiari, mi ridà, più forte di prima, il sentimento della carne del linguaggio. Solo dopo vado al poema tradotto. Il senso allora offerto mi sembra il figlio possibile, tra gli altri, della mia prima e carnale lettura.
Mi è anche successo dopo qualche giorno una cosa strana. Ho intrapreso la lettura di poemi russi. Non conosco niente del russo e i versi sulla pagina di sinistra, che allineano le lettere di un alfabeto che mi è sconosciuto, erano chiamati a restare interamente silenziosi per me. Ho tuttavia ostinatamente cominciato ogni mattino a percorrere con gli occhi, guidata dalla lunghezza di ogni verso, il taglio delle parole ed il segno di interpunzione, la pagina di sinistra prima di portarmi a quella di destra. E poco a poco ho avuto l’impressione di capire il poema, di leggerlo veramente in russo, come se credere così desse la sua ricompensa: sulla pagina di sinistra, il poema mi apre ad un segreto di cui, sulla pagina di destra, scopro un’incarnazione.
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Dall’altro lato della finestra, aperta, respiro della sera. Canti di uccelli flessuosi ed eretti come i fiori del castagno.
Da questo lato, sola vita per rispondervi: la bambina che sono stata.
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Grande rumore nella campagna. Strepito di macchine fuori e dentro. Di sicuro, bisogna tagliare l’erba, mietere, estirpare i rovi, ricevere la propria famiglia, morire a se stessi. Agitarsi ancora a lungo dopo come una mosca da un vetro all’altro, ubriaca del proprio ronzio. E quando ritorna il silenzio sull’immobilità, i grossi rotoli di paglia leggermente posati sul campo, il tronco dell’albero ancorato al suolo, al cielo il filo dell’uccello, dentro la separazione delle acque, finestra calma, prato ingiallito, abbandonarsi alla solitudine.
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Prima di parlare, bisognerebbe raccogliere nell’oscurità delle palme richiuse sugli occhi il goccia a goccia delle parole povere, ristrette, delle parole senza slancio, paurose, il goccia a goccia delle piccole parole da cui si assenta ogni grazia.
Questo è quanto credo. Ma quando tolgo le mani dai miei occhi, sono ghermita dalla luce stesa al suolo, nella cornice della finestra.
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“laggiù, fuori, un gran silenzio
come un dio che dorme”
nevica
tutta la notte, mentre noi dormiamo,
mentre io mi immergevo caldamente
nel silenzio immobile della notte
lentamente, minuziosamente
cadevano
migliaia di fiocchi
fini come piuma di pulcino
si stavano riunendo, ricoprendo gli uni con gli altri
sull’erba
la strada
gli alberi
le siepi
il pozzo
il cancello
la ruota della mola
i recinti
gli scalini
sui tetti e i camini
questa mattina mi hai presa nelle
tue braccia, mi hai portato come
se fossi un bambino
mi hai condotto nella stanza dove le imposte
erano aperte, mi avevi detto
“tieni gli occhi chiusi”
mi hai detto “apri gli occhi”
e mi hai fatto dono
di tutto l’inatteso
di tutta la distesa
questa pura schiuma
bianca e di luce
tra i ramoscelli neri
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L’acqua blu della sera. Circola tra i rami dell’albero. Le foglie dell’albero , galleggiano, impercettibilmente sollevate, sullo specchio d’acqua verticale e immobile.
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Ho dipinto l’acqua blu della sera. Con pazienza e vigilanza – quanta ne ho potuto esercitare.
Ti ho mostrato il mio piccolo dipinto.
Tu l’hai guardato a lungo.
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Les Mots pauvres
(extraits)
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L’autre matin je me suis réveillée muette. Je ne m’en suis pas aperçue tout de suite parce que j’étais seule dans la chambre. Je me sentais heureuse de la journée à vivre. Emplie d’un sentiment de liberté et de légèreté. Je me suis étirée en bâillant, sans bruit, je me suis levée, je suis allée décrocher un vêtement dans la salle de bains et je me suis dirigée vers la cuisine où je t’entendais chanter. J’ai poussé la porte, je t’ai souri, tu m’as appelée par mon nom, et je t’ai répondu par le tien. C’est-à-dire que j’ai ouvert la bouche, j’ai formé avec mes lèvres les deux syllabes aimées, et aucun son n’est sorti. Tu as ri, d’abord, de me voir répéter ma mimique silencieuse, tu t’es avancé vers moi pour me prendre dans tes bras et tu t’es arrêté. Tu m’as demandé ce que j’avais, je n’ai pas pu te répondre. Finalement j’ai pris sur le buffet le papier où on inscrit les commissions et j’ai écrit : « Je ne peux plus parler. » Et je me suis mise à pleurer.
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Avant que tu ne partes rendre visite aux malades, je t’ai souri.
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Je me suis sentie soulagée de me retrouver dehors, parce que je m’étais ennuyée, et surtout parce que j’échappais à la forte odeur de cet homme qui sentait, oui c’est ça, qui sentait le chien.
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Je pleure sans bruit, sauf celui des reniflements et des froissements de mouchoirs en papier. Je sanglote silencieusement. J’ai pleuré autant que j’en avais besoin, et j’en avais un besoin très vaste. Je n’avais jamais pleuré en aussi grande quantité, aussi profondément, aussi tristement. Aujourd’hui était une journée d’hiver, il a fait nuit tard le matin, il a fait nuit tôt le soir.
En m’endormant, les narines gercées et les yeux gonflés, j’ai rêvé que j’étais debout sur une étagère du mur, et que sortait de ma gorge le chant d’un oiseau de nuit.
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Cette rêverie a été ma première délivrance.
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Mais mon silence me fait du bien.
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Je ne sais pas pourquoi c’est cette image qui me vient pour dire les émotions qui s’emparent de moi à un rythme irrégulier, imprévisible. Ce ne sont pas des mouvements superficiels, des manifestations de l’émotivité, mais des moments où s’approche le sentiment de la vie. Des moments vifs. Entre deux, c’est temps mort.
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Je pense n’avoir pas eu d’enfance. Cette enfance où l’on est abandonné au surgissement. Je n’ai pas pu être paralysée, ou dévorée, par la peur. Incendiée, décomposée par l’inattendu. J’ai tout de suite paré à l’inconnu. J’ai toujours parlé.
Même quand je ne parlais pas encore. J’ai toujours su que les mots existaient pour conjurer les peurs. Je n’ai pas été abandonnée à l’enfance. Dans la hâte je me suis emparée des mots, dans la hâte et l’application j’ai maîtrisé leur tressage.
Ce qui m’a donné la parole facile. Et efficace, au sens où elle a toujours fait de l’effet. Les mots m’ont mise au-dessus de la peur. Par eux j’ai terrassé, ou séduit par avance, mes ennemis supposés. Transformés en victimes ou en complices avant d’avoir pu me nuire. Selon les circonstances, j’ai su parler aux autres le langage qu’ils attendaient : le leur.
La peur qui me guette, amassée depuis tant de temps derrière le rempart qui s’effrite. La parole m’a quittée, mais pas encore les mots, qui vivent en moi. Me guette une peur puissante, préhistorique, qui m’apprend la peur.
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Et j’ai attendu.
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A présent, il me semble au contraire qu’elle est consentement à la simplicité. Qu’elle ne demande, à celui qui la lit, que de s’abandonner. De se quitter. Je choisis des textes de langue étrangère. Sur la page de gauche est imprimé le poème dans sa langue, sur la page de droite dans sa traduction. Et chaque matin, je lis un poème, ou deux, à haute voix. Je veux dire : à haute voix intérieure et parfois même, pour la langue du poème, en remuant mes lèvres et disposant ma bouche comme pour la proférer. Car, même si je suis impuissante à la faire sonner, la langue continue de vivre en moi. Et de sentir ainsi l’espace intérieur de ma bouche varier suivant les sons de la langue étrangère, ceux qu’aucune habitude ne m’a rendus familiers, me redonne, plus fort qu’avant, le sentiment de la chair du langage. Après seulement j’en viens au poème traduit. Le sens alors offert me semble l’enfant possible, parmi d’autres, de ma première et charnelle lecture.
Il m’arrive même depuis quelques jours une chose étrange. J’ai entrepris la lecture de poèmes russes. Je ne connais rien au russe et les vers sur la page de gauche, alignant les lettres d’un alphabet qui m’est inconnu, étaient appelés à rester entièrement silencieux pour moi. J’ai cependant obstinément commencé chaque matin par parcourir des yeux, guidée par la longueur de chaque vers, la coupe des mots et le signe de ponctuation, la page de gauche avant de me rendre à celle de droite. Et peu à peu j’ai eu l’impression d’entendre le poème, de le lire vraiment en russe, comme si faire ainsi confiance portait sa récompense : sur la page de gauche, le poème m’ouvre à un secret dont, sur la page de droite, je découvre une incarnation.
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De ce côté-ci, seule vie pour y répondre : l’enfant que j’ai été.
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Telle est ma croyance. Mais lorsque j’ôte les mains de devant mes yeux, je suis saisie de la lumière couchée au sol, dans l’encadrement de la fenêtre.
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J’étais allée quelques jours chez mes parents dans la petite ville où, depuis une dizaine d’années, ils passaient leur retraite. Un soir je leur ai annoncé que nous ne dînerions pas dans la salle à manger de leur appartement, que je les invitais au restaurant. C’était l’été. La nuit était douce, légère, quand nous nous sommes assis autour d’une des tables disposées à la terrasse du meilleur établissement de la ville. Le vaste feuillage d’un large et haut platane flottait au-dessus de nous, une petite fontaine à l’éclairage soigné fredonnait à côté. A ma droite, ma mère, vêtue d’un petit gilet blanc en crochet et d’une robe à fleurs, attendait, passive comme une petite fille que sa mère entraînerait dans un endroit inconnu mais accueillant. Devant moi, mon père tentait de regarder tout autour de lui, n’osant bouger ni corps ni tête, les avant-bras posés droits sur les accoudoirs du fauteuil. Tous deux étaient fluets, silencieux, émouvants. Ce que ressentit la jeune serveuse qui nous apporta les apéritifs commandés et les petites friandises qui les accompagnaient. Ses mots simples et gentils, puis l’alcool dégusté, l’air tiède, détendirent mes parents qui commencèrent à parler. Nous disions notre plaisir du joli décor, de la belle soirée, de l’apéritif. Alors mon père, coude à présent posé sur la table et visage tourné vers sa femme:
“Ça fait longtemps qu’on regardait ici, en passant, mais on avait peur, hein Maman?”
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comme un dieu qui dort »
il neige
toute la nuit, pendant que nous dormions,
pendant que je m’enfonçais chaudement
dans le silence immobile de la nuit
lentement, minutieusement
chutaient
des milliers de flocons
fins comme du duvet de poussin
venaient s’accoler, se recouvrir les uns les autres
sur l’herbe
la route
les arbres
les haies
le puits
la grille
la roue de la meule
les clôtures
les marches
sur les toits et les cheminées
ce matin tu m’as prise dans
tes bras, tu m’as portée comme
si j’étais un enfant
tu m’as amenée dans la pièce où les volets
étaient ouverts, tu m’avais dit
« garde les yeux fermés »
tu m’as dit « ouvre les yeux »
et tu m’as fait cadeau
de tout l’inattendu
de toute l’étendue
cette pure mousse
blanche et de lumière
entre les rameaux noirs
*
*
Je t’ai montré ma petite peinture.
Tu l’as longtemps regardée.
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