Progetti di poesia in carcere
“Come posso vincere quest’idea di prigione
se non tolgo le sbarre alla mente?”
Ogni due giorni una persona muore tra le mura di una cella in un qualche carcere italiano. Si muore per suicidio, per mancanza di assistenza sanitaria, per cause violente, per ragioni ignote o da accertare. Dal 2000 ad oggi ci sono mediamente circa 170 decessi ogni anno. Ma la discriminazione, purtroppo, regna anche all’interno del regime penitenziario: ad esempio, lo stesso periodo (luglio-ottobre 2013) in cui una detenuta “eccellente” ha potuto ottenere un beneficio di carattere umanitario, 30 altri detenuti, la cui vera colpa evidentemente è stata quella di essere dei “signor nessuno”, sono morti di carcere. Nessuno li ha tutelati. Nessuno ne ha scritto. Nessuno ne ha parlato.
Conosciamo tutti sia nomi che cognomi dei principali responsabili di queste morti, vale a dire di coloro che si sono succeduti ai vertici dei governi in questi anni, dei loro ministri, fino a quelli che hanno gestito, a volte inadeguatamente, altre volte colpevolmente, gli istituti penitenziari di questo Paese. Credo sia ragionevole e lecito denunciare per violazione dei diritti umani tutti coloro che si sono resi, in diversa misura, responsabili di tante morti, sia per l’entità del numero dei decessi che per l’inquietante regolarità con cui questi si sono consumati e si continuano tuttora a consumare dietro le sbarre. Sono colpevoli coloro che sapevano ma non hanno legiferato o lo hanno fatto male, coloro che conoscevano ma hanno insabbiato, coloro che vedevano ma hanno taciuto o, nel migliore dei casi, hanno consapevolmente ignorato questa tragedia indegna di un Paese che si reputa civile e democratico.
E cosa diremmo noi, se ogni due giorni perdesse la vita uno studente in una scuola o un paziente in un ospedale o una qualunque altra persona in un luogo del quale lo Stato è direttamente responsabile? Per questo siamo colpevoli anche noi, singoli cittadini e cittadine, perché non ci indigniamo, non ci opponiamo, non protestiamo, insomma non facciamo abbastanza e in misura adeguata rispetto a questa tragedia che ci tocca tutti, sia come singoli che come comunità.
“Non già dai suoi palazzi scintillanti si misura il grado di civilizzazione di una società – ammoniva Fedor Dostoevskij – ma dalle sue prigioni”. E, parafrasando Quasimodo, dopo tanti anni di conquiste culturali, sociali e civili, di noi purtroppo possiamo ancora dire: “sei ancora quello della pietra e della fionda uomo del mio tempo”.
Attenzione però, le responsabilità non si limitano solo agli autori, diretti o indiretti, del degrado inaccettabile del sistema carcerario di questo Paese, ma anche alle prospettive nefaste che qualunque detenuto deve subire una volta scontata la pena e rimesso in libertà. Se in questa presunta libertà si privano gli ex prigionieri delle risorse necessarie (casa, lavoro, istruzione, etc.) per realizzare una vita normale o quantomeno dignitosa, significa che si condannano irrimediabilmente queste persone a restare ai margini della società, nei sottoscala più oscuri della collettività, ingoiati negli abissi di una società kamikaze che, pezzo dopo pezzo, sta perdendo l’interezza della sua propria umanità.
Assieme ad Alberto Ramundo, presidente dell’associazione “Officina” (impegnata in iniziative culturali sui diritti umani nel territorio marchigiano, in particolare con progetti di scrittura creativa nelle carceri, pubblicazione di libri scritti da autrici e autori detenuti ed incontri multimediali realizzati nel vivo del tessuto sociale), abbiamo dato l’avvio a “FinePenaMai – sguardi nel buio”, un progetto (trasformatosi anche in un libro) che entra nelle prigioni attraverso i linguaggi della poesia, della fotografia, della drammatizzazione e della musica, cercando di cogliere quelle voci prigioniere, troppo spesso taciute o dimenticate, per restituirle poi al mondo esterno.
Le fotografie di FinePenaMai, raccolte sia in un volume che in una mostra-reading itinerante, cercano di mettere a fuoco verità forse più eloquenti ed efficaci di tante parole, di tante spiegazioni: una mano priva di unghie, polsi segnati da cicatrici profonde, sguardi che implorano, chiavi che ci ricordano di stare nei luoghi con più serrature e porte al mondo, anche se ad aprirle non sei mai tu che ci abiti, ma qualcuno che le apre al posto tuo, a volte per anni, altre volte per tutta la vita.
In merito ad uno dei reading FinePenaMai, realizzato nel carcere di Pesaro, riporto uno stralcio dell’articolo redazionale di “Ristretti Orizzonti”, che così recitava: “Questa non è una giornata normale in carcere, ma può servire da esempio. Da esempio coraggioso: se vengono utilizzati tanti agenti di polizia penitenziaria per prelevare uomini e donne dalle loro celle, portarli nell’auditorum, assistere allo spettacolo su di loro e con loro, riportarli nelle celle nel giro di un’ora e mezza, non ne è valsa la pena, per agenti e detenuti? La cosa più difficile è iniziare, mettersi le scarpe alla mattina, piuttosto che restare in un letto che non potrà lenire i nostri dolori”.
Ma quale può essere il ruolo, nonché la concreta utilità della scrittura, all’interno del circuito penitenziario? Di segnali positivi ce ne sono stati, come quando una detenuta, che compiva continui gesti di autolesionismo, procurandosi ferite e tagli sulle braccia, ha iniziato a pensare che i suoi arti potessero diventare un foglio e gli oggetti con cui si feriva si trasformassero in una penna. Così, ogni volta che aveva l’impulso di farsi del male, lei iniziava a scrivere, lacerando rettangoli di carta bianca con la sua rabbia, con il suo dolore, le sue frustrazioni e trasformando il sangue in scrittura, i propri inferni in poesia. Questo significa che tutti i linguaggi dell’arte possono diventare una buona medicina anche per le persone sottoposte a forti dosi di negatività (come normalmente avviene in una prigione), trasformandosi quindi in una terapia che non lascia effetti collaterali e che aiuta nel difficile percorso della consapevolezza e della guarigione di quell’umanità relegata al silenzio, alla cancellazione fisica e sociale, mutilata di gran parte della propria stessa umanità.
Da poco è stato pubblicato anche un nuovo libro dal carcere, “Pen(n)a di poeti”, sempre curato dall’associazione”Officina”, che raccoglie voci poetiche di donne e uomini detenuti. L’antologia stavolta è impreziosita da un’introduzione di Jack Hirschman, emblema della controcultura statunitense, anch’egli finito in carcere a seguito di attività di protesta in sostegno degli homeless. Affinità elettive dunque, tra gli “ultimi” e chi li difende, in questo corposo lavoro che comprende anche alcuni scatti fotografici di Umberto Dolcini. Testi semplici e diretti, senza fronzoli, senza compromessi con la forma o le buone maniere, che ci parlano da quell’universo degli esclusi che è stato più volte condannato dalla Comunità europea per abusi e violazione dei diritti umani: “Cosa ti resta allora stasera / cara Silvia, maledetta stronza . / Una finestra con 36 buchi di luce e d’aria”, scrive Silvia Giacomelli, scavando nello squallore dei suoi quotidiani di reclusa. E la penna di Vincenzo Lerario che in “Piazza Alimonda” evoca la vicenda di Carlo Giuliani: “divento polvere d’asfalto / di un luglio ventoso, / colpito anch’io a morte / dall’abuso di potere”. Nell’“Ostinazione” di Enrico Suppa, che in tre soli versi descrive gli sprofondi del suo animo, emerge la capacità di raccontare una realtà in antitesi con qualsiasi cosa vorremmo coniugare all’umano: “Nell’assurdo giardino della mia vita / muoiono i fiori ma prospera l’ortica / e io continuo ad annaffiarli entrambi”.
La parola qui si fa arma, attrezzo con cui scavare tra i muri che separano queste “vite a perdere” dal resto del mondo; parola che manifesta una potenza lacerante e, al contempo, la propria capacità curativa verso chi scrive, ma seminando dubbi nelle coscienze di chi legge.
Concludo con le parole che Hirschman ha regalato per questo lavoro poetico, parole che hanno fatto inorgoglire non poco i detenuti e le detenute che sono gli autori di questa raccolta: “… In ogni poesia di questo libro, troverete un elemento della lotta per la libertà, perché che cos’altro, se non un cuore fisicamente imprigionato, può percepire la vera essenza di ciò che rappresenta un raggio di luna comparato al viaggio attraverso la notte della propria anima? Ci sono molte essenze svelate in questo libro, il lettore frequenterà la scuola del cuore, dove l’unica lezione è la ricezione in sé. Sappiate che siete amati!”.
Marco Cinque
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