Noi tutte e tutti, marrane e marrani, siamo sorpresi dalla piega degli eventi, in questa fase, dagli eventi più minuti a quelli più eclatanti che non portano a evidenze e a un cambiamento di rotta ma paradossalmente fortificano il presente nel suo scorrere indisturbato. È quello che ci ha sempre detto Benjamin, e cioè che “lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola” e che “dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo…” (dall’ottava delle “Tesi di filosofia della storia”). Perché siamo sopraffatti dalle emergenze in corso e dalla continua dichiarazione di crisi o da allarmi perennemente tirati, chiusi in scontri tra fazioni e tra individui, in una degradazione progressiva dei rapporti interpersonali tra vecchi e giovani, e all’interno del mondo dei vecchi come in quello dei giovani (tra irrilevanza e cooptazione), delle donne come degli uomini, immusoniti/e, con granitiche certezze e miseramente bisognosi/e di un riconoscimento, quando la vera vita è nell’operoso silenzio e persino nel silenzio inoperoso ma corposo di fermenti. Solo da qui nascono le azioni e diventano pubbliche, fuori dalle fanfare dell’io, sedicente inascoltato, e dell’arrogante noi. Il vero stato di emergenza non può che essere la rivoluzione che verrà.
FINTE EMERGENZE
Quali finte emergenze oggi ci toccano? Quella fondamentale delle guerre e delle migrazioni. Essa non è un’emergenza ma solo un’apocalissi quotidiana (sempre Benjamin), è lo stato delle cose, politico e non naturale, e si compone di infinite fratture che producono il dolore dei corpi in guerra o migranti. Questa emergenza ci porta nel cuore dell’Occidente, e nel cuore del cuore di quest’ultimo che è l’Europa (gli altri occidenti sono copie, peraltro egemoniche e riuscitissime, a partire dalle Americhe), vero mistero del pianeta, continente più cupo della più cupa selva. Come sintetizzare l’attuale stato dell’Europa? Con l’immagine di anfibi che difendono pantofole, e cioè di una forza militare ed economica che domina il pianeta con il solo scopo di proteggere il modo di vita medio di parti cospicue degli abitanti del continente desiderosi solo di coricarsi su un divano a fine giornata, qualcuno/a a leggere, altri a giocare col telecomando, dopo pasti iper o ipocalorici (fa lo stesso), un po’ d’obbligato sesso –nella pornificazione dell’immaginario- e pace dei sensi, anzi del senso unico in cui siamo. Questo in sintesi ci ha spiegato Michel Houellebecq nel suo Sottomissione (2015) in cui, pur di non perdere gli indubbi vantaggi di questo modo di vita, il protagonista, un docente universitario specialista di Huysmans e amante dell’alcol (quanti bicchieri d’alcol triste –ma nemmeno lontani parenti del vino triste di Saba-, in questo romanzo, di vino delle migliori marche, e martini, rum, calvados…) accetta di convertirsi all’islam moderato della “Fratellanza musulmana” che alle elezioni presidenziali del 2022 ha preso il potere in Francia con l’aiuto delle codarde sinistre e delle destre moderate anch’esse, e sconfiggendo Marine Le Pen: niente di più comodo per un maschio occidentale adeguarsi a un sistema fondato sul distributivismo, sull’intangibilità della cellula familiare (poliginia di Stato, ma non poliandria) e sulle rigorose infrazioni a questo sistema perfetto. Dopo la vittoria del leader della Fratellanza Musulmana, Mohammed Ben Abbes, la violenza nei quartieri che i francesi chiamano sensibili (termine delizioso per definire luoghi dove il disastro si sente sulla pelle di ciascuno/a), diminuisce sensibilmente, e per il resto tutto resta identico a prima e, come prima, le studenti di letteratura, “graziose, con il velo, timide”, saranno felici di dividere il letto con il professore. Il movimento principale di questo romanzo va dal fuori al dentro, come la differenza suggerita –di una superficialità rara- tra la donna occidentale, sensuale durante il giorno e in costante atto di seduzione cui l’obbliga il suo status sociale, ma che poi si ritira a sera e indossa comode e informi tute, e la donna orientale, coperta tutto il giorno ma, a sera, capace di sfoggiare i più arditi capi di biancheria sexy (quanti fantasmi albergano in queste visioni, di trito esotismo); e questo dentro è rappresentato dalla “felicità (o benessere) borghese”, da difendere a tutti i costi anche con gli anfibi a scendere dai cieli e a calpestare le sabbie di mezzo mondo, oppure con una placida conversione all’islam. Questo movimento è l’esatto contrario di quanto si può leggere in Viaggio al termine della notte (1932) di Céline, e chiude il ciclo aperto da quest’ultimo romanzo. Si legge a pag. 370 della classica edizione Dell’Oglio: “…Nelle case, non c’è nulla di buono. Appena una porta si chiude dietro un uomo, egli comincia a puzzare e tutto quello che porta con sé puzza pure. Egli passa di moda sul posto, corpo e anima. Marcisce. Se gli uomini puzzano, è colpa nostra. Bisognava occuparsene! Bisognava farli uscire, espellerli, esporli. In casa, ci son tutte le faccende che puzzano; ci si fa eleganti, ma puzzano lo stesso…”. E “c’è solo la strada / su cui puoi contare, / la strada è l’unica salvezza…”, aggiunge Gaber in ‘C’è solo la strada’1, intelligente, commovente reinterpretazione del passo céliniano sopra citato. Intere generazioni sono state così spinte sulla strada, dai tempi di Céline e Kerouac in poi, con ombre di vitalismo esasperato ma più spesso generosamente gettando il proprio corpo, e non di rado tutta la propria vita, in storie nomadi e cammini; e così pure, da dentro a fuori, nella parte conclusiva del film Dreamers (2003) di Bernardo Bertolucci: nei giorni del maggio parigino, da una manifestazione di piazza una pietra rompe i vetri dell’appartamento borghese dove i tre protagonisti della pellicola stavano morendo, al culmine di una crisi di crescita e di chiusura nella casa – labirinto dei genitori. “Dans la rue”, in strada, si sente gridare: s’aprono le finestre, entra aria di rivolta e i tre corrono giù, vacillanti ma subito vivi, di nuovo vivi.
LUNGO LE CASE E DENTRO LE STRADE
Così Houellebecq prova a chiudere il ciclo aperto da Céline (dal Céline del Viaggio e non da quello mediocre di Bagattelle per un massacro o di altre sue produzioni letterarie, in cui si è incanalata la stantìa e criminale controdecadenza di tanto Novecento) e l’effetto è ormai, ai giorni nostri, sotto gli occhi di tutti e tutte: strade e piazze prive di vita, e solo attraversate da consumatori o minacciate da bande che scendono dai quartieri sensibili (vedi sopra). A permetterci di uscire da questa impasse sono due punti di vista che vengono a scardinare il dualismo dentro/fuori in cui siamo prigionieri. Il primo è quello del pensiero femminista classico, così calunniato, oggi, così vituperato dallo squadrismo del discorso egemone, per la maggior parte maschile ma anche di donne di potere (o meglio di donne nel potere maschile) o di donne spossessate. Rosangela Pesenti, in un libro2 che non esito a definire capitale, ci dà l’occasione di pensare oltre le visioni vertiginose di Céline e oltre il fatiscente sguardo di Houellebecq. L’errore principale del dualismo (maschile) tra dentro e fuori risiede nel considerare la casa come luogo delle passioni assopite, dell’abitudine che lentamente si installa e del rimpianto di ciò che è stato e che non sarà più, ovvero come luogo del non conflitto, che invece attraversa –o attraversava- le strade e le piazze. Invece, scrive Pesenti, “…Nelle case crescono i mutamenti, anche impercettibili, delle relazioni tra i generi e le generazioni: gli oggetti, i mobili, la disposizione degli ambienti, i modi d’uso, gli stessi colori, materiali, forme, sono contemporaneamente sensori e sintomi dei cambiamenti. La casa è il luogo per eccellenza del conflitto tra donne e uomini, che viene prevalentemente governato dalle prime a favore di tutti, con una competenza che potrebbe diventare risorsa politica, se non fosse tacitata dall’ideologia della famiglia…”3. Si potrebbe aggiungere che la casa è il luogo del conflitto tout court il quale, quando non è governato, può diventare femminicidio e infanticidio. Ma conflitto governato non vuol dire ammansito. Esso è manifestazione di una frattura che, inizialmente solo interna, viene esplicitata, messa in campo, promossa perché scattino le reazioni e le controreazioni, attraverso il linguaggio dei corpi e la parola, con il fine di ritrovarsi a un piano diverso da quello da cui si è partiti: un piano che non è necessariamente quello superiore, ma che può essere inferiore, come una cantina, oppure una mansarda vicino al cielo, o persino una superfetazione di organismo palesemente aggiunto al precedente e che pure è lì, forse sgraziato, ma capace di svolgere la sua funzione. La casa come luogo di conflitto, in senso positivo, non poteva essere contemplata né da Céline né da Houellebecq, per motivi opposti, ma nemmeno dal pensiero egemone che parla di economia domestica solo dandole un significato riduttivo e per manometterne le valenze più vaste che consistono, con Lidia Menapace ed altre, nel concepire una innovativa economia della riproduzione4 capace di sabotare il discorso capitalistico della produzione a ogni costo (più spesso sotto costo, a danno di persone e ambiente). Su questi temi segnalo l’ultimo spettacolo di Luna e L’Altra Teatro “Questa casa non è un’azienda”5.
Il secondo punto di vista che potrebbe sommuovere l’esistente e le nostre società imputridite è quello delle e dei migranti. Chi sono costoro se non persone che hanno dovuto lasciare una casa e cercarne un’altra? Essi/e camminano per le strade del mondo, masse di donne e uomini che nella maggior parte dei casi si fermano a pochi chilometri (che può voler dire centinaia di chilometri…) da dove avevano sempre abitato: non è un caso che, come sappiamo ma come, al tempo stesso vogliamo ignorare, la stragrande maggioranza di chi fugge da guerre e violenze trova rifugio nei Paesi vicini (negli ultimi quattro anni in Libano per siriani e siriane, ad esempio, nel piccolo Libano che pure continua ad accogliere; o in Giordania, e ancora Libano, per i/le palestinesi, dal 1948 a oggi) perché ha la speranza di ritornare. Essi/e camminano, e “quelli che vanno a piedi non possono essere fermati”, scrive Erri De Luca6. E non possono essere fermate/i nemmeno quelle e quelli che s’imbarcano dalle coste della Libia o della Tunisia o della Turchia, nonostante che il Mediterraneo sia diventato un cimitero, lo sappiamo, di migliaia di morti – e la ‘morte per acqua’ è la più terribile di tutte, perché tende a non restituire i corpi. Essi/e ci dicono che abitare lungo le case e dentro le strade potrebbe essere il nostro domani, in inedite dimensioni di pubblica intimità.
NO BORDERS
Si muovono, i e le camminanti, anche a piedi nudi ma più spesso con calzature di fortuna, o scarpe da ginnastica, i più piccoli, le più piccole, come quelle dei nostri nipoti della stessa età: è tutta una questione di scarpe, allora. Anfibi che difendono pantofole dall’invasione (stupida parola leghista) di sandali o di scarpe da ginnastica. E le difendono con il ferro e con il fuoco: con bombardamenti ottusi, innanzitutto, se dobbiamo leggere come fossero un’unica vicenda le recenti devastazione operate dagli statunitensi a Kunduz (bombe contro un ospedale, il 3 ottobre)7, dai russi in Siria (contro siti militari dell’IS ma anche contro i nemici di Assad) e qualche giorno prima dai francesi. E poi: i continui bombardamenti e rastrellamenti operati dall’esercito di Erdogan in Turchia contro postazioni kurde, in aperta violazione di quello che era un effettivo ‘cessate il fuoco’ (e gli attentati di queste settimane, l’ultimo il 10 ottobre contro una manifestazione pacifista ad Ankara)8 e quelli degli aerei sauditi nello Yemen, che uccidono a grappoli persone e cose, e distruggono anche dei siti archeologici di bellezza sconvolgente9. Non è follia, questa di Hollande, Putin, Obama (nobel per la Pace, dicono), Assad e i suoi alleati iraniani, Erdogan, prìncipi sauditi o sgozzatori dell’IS e compari, così come non è un raptus quello che spinge al femminicidio, ma è lucida strategia di guerra per l’accaparramento di mercati e di fonti energetiche, o per garantirsi posizioni strategiche nel grande conflitto tra gangster internazionali. Neanche le loro bombe possono essere fermate, come i piedi di chi è in cammino?
Un momento alto del confronto in questa balorda ennesima finta emergenza si è registrato vicino Ventimiglia, al confine tra l’Italia e la Francia: per impedire l’inesistente invasione di profughi (di guerra o economici, poco importa) la Francia ha bloccato le frontiere e sospeso Schengen da inizio luglio. Migranti nella stazione di Ventimiglia, razzìe nei treni, nella piccola stazione di Menton-Garavan, la prima francese appena passato il confine. Rientravo in Italia e in questa stazioncina aspettavo il treno: c’era un ragazzo (praticamente impossibile comunicare per ostacoli linguistici) e, dall’altro lato dei binari, un poliziotto francese a gridargli “Italie – Soudan”, ovvero la strada per il ritorno a casa sarebbe stata questa, facile facile, dall’Italia al Sudan. Teppismo di parole (e il mio silenzio). Queste sono le polizie del mondo intero, con qualche lampo di umanità dinanzi al dolore reale (anche questo più volte visto con i miei occhi, nell’atrio della stazione di Ventimiglia). A protestare contro tutto ciò, un gruppo di migranti e di militanti italiani, con qualche appoggio dall’altro lato del confine: una piccola e in fondo ben organizzata tendopoli a un centinaio di metri dalla frontiera, lato italiano, ovviamente. Questo presidio di civiltà, assolutamente non violento, è stato smantellato in fine settembre da 200 poliziotti in tenuta antisommossa, spinti dalle miserrime parole del sindaco di Ventimiglia, tale Ioculano (giovane e di centrosinistra, non un orco reazionario, ma forse ben peggio), e dalle urla di leghisti, fascisti e cittadini indignati che vogliono il rispetto della legalità, in un Paese in cui la legalità è una larva. Il presidio No borders ha messo in luce una delle tante feroci contraddizioni dell’Unione Europea, che sta morendo non sulle frontiere tra Paesi barbari (lèggere ex comunisti, Ungheria – Croazia – Slovenia – Slovacchia, e ora affezionatissimi alle loro pantofole nuove…) ma al confine tra due degli Stati fondatori della Comunità europea: lo stridore non poteva essere più forte. Il comportamento della Francia “socialista” e dell’Italia renziana (più cupa di quella berlusconiana) dice a bassa voce, ma a manganelli levati, quello che l’eurodeputata francese Nadine Morano ha osato affermare ad alta voce, e cioè che il suo Paese, ma direi l’Europa tutta, è “di tradizione giudeo-cristiana e di razza bianca”, e che possiamo graziosamente accogliere degli stranieri (braccia ne servono sempre) ma non troppi, e che non si montino la testa. Delle truppe europee (militari/mercanti/missionari) a scorrazzare e a stuprare per il pianeta da più di cinque secoli in Paesi non giudeo-cristiani e non di razza bianca, nemmeno il sentore. Questa è la non reciprocità: noi possiamo devastare interi Paesi (negli ultimi anni, Iraq, Jugoslavia, Libia, Siria, Afghanistan, con centinaia di migliaia di morti, soprattutto civili10 – pur con l’oggettiva complicità dei tiranni locali), ma gli effetti umani di quelle devastazioni non devono raggiungerci. È per questo che siamo noi il pericolo, noi, il mistero custodito nella fortezza Europa. È per non svelarlo che portiamo la morte nel mondo, così somministrandola quotidianamente a ciascuno e a ciascuna di noi, anche a noi marrane e marrani, maschere stanche.
Gianluca Paciucci
1 Giorgio Gaber, in “Anche per oggi non si vola”, album del 1974-5.
2 Rosangela Pesenti, Racconti di case. Il linguaggio dell’abitare nella relazione tra generi e generazioni, Edizioni Junior, Parma, 2012, pp. 281. Su questo tema bello e utile anche il suo romanzo Trasloco, Supernova, Venezia, 1998, pp. 147.
3 Pesenti, pag. 56, Racconti di case, cit.
4 Lidia Menapace, Economia politica della differenza sessuale, Ed. Felina Libri, Roma, 1987, pp. VII + 139.
5 Luna e L’Altra Teatro, facebook: lunaelaltrateatro
6 Erri De Luca, “Coro”, pag. 36 in Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo, Feltrinelli, Milano, 2005, pp. 92.
7 Afferma Loris De Filippi, direttore di Medici senza frontiere in Italia, che “Il danno è stato enorme. Non solo i morti e i feriti ma si è cancellata l’esistenza dell’unico ospedale traumatologico del nord dell’Afghanistan, del solo ospedale a Kunduz in grado di fare interventi chirurgici. Parliamo di una città di 300 mila abitanti, grande come Bologna. In queste settimane di guerra era invaso da feriti tanto che il 1° ottobre avevamo diramato un comunicato per parlarne. Quando è iniziato il bombardamento c’erano 185 persone, di questi 40 bambini di cui 3 erano in terapia intensiva. Sono morti tutti e 3. E poi si è distrutta ogni risposta sanitaria, il direttore dell’ospedale, medici, infermieri, tecnici, anche i guardiani e i farmacisti. Irreparabile…”. I morti dell’attacco, durato troppo a lungo per non essere deliberato, sono stati in totale 22. Ma tutte le aviazioni colpiscono strutture ospedaliere come strategia di guerra: v. Federica Iezzi, “Gli ospedali target di guerra”, Il Manifesto, 13.06 2015, dove si denunciano soprattutto i bombardamenti ad opera degli aerei di Assad.
8 Su quest’ultimo fatto e sulla criminale strategia dell’alleato (della NATO) Erdogan un ottimo articolo di Alberto Negri, “Obiettivo destabilizzare”, Il Sole 24 ore”, 11.10 2015.
9 Sull’Arabia Saudita, uno dei Paesi più spaventosi al mondo ma buon alleato degli U.S.A., v. Abdel Bari Atwan, “Amara ironia. L’Arabia Saudita ha devastato la Siria e rifiuta i fuggiaschi”, Il Manifesto, 08.09 2015, dal sottotitolo eloquente.
10 Solo in Iraq forse 500.000 morti per embargo negli anni Novanta e 150.000, di cui l’80% civili, per effetti diretti dell’ultima guerra. Effetti della civiltà giudeo-cristiana: l’ex anglicano e neocattolico Blair, il battista Clinton, leader del centrosinistra planetario. Per la civiltà giudaica, chiedere alla premiata ditta Netanyau.
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