I fatti di Parigi 2015; la ‘strana disfatta’ del 1940 secondo Marc Bloch; Jack Hirschman, il ruolo dei ‘ribaltatori’ e quello dei marrani e delle marrane
a Stefano Brucchietti, fratello, morto troppi anni fa,
in poche parole povere, come era solito dire
Abbiamo dimenticato in fretta, molto in fretta, quanto è successo nel 2015 a Parigi, capitale sottosopra del XXI secolo, addentati dalle fauci della memoria come da quelle dell’oblio, entrambi obbligatori, entrambi totalitari, a comando. Dimenticati gli attentati e dimenticate le guerre, mentre a caldo scrivevano tutti del contrario, del dovere di non rimuovere l’orrore. Dimenticati i terroristi islamisti, canaglie spregevoli (canagliume da studiare, da indagare).
COMPORTARSI COME PRIMA
Peraltro l’oblio si era già imposto subito dopo le prime emozioni, negli inviti a tornare a comportarsi come prima per non cedere al ricatto dei terroristi: proprio questa lettura impedisce, nei fatti, di fare i conti con il presente. Gli attentatori di Parigi, quelli di Charlie hebdo e del supermercato kasher di inizio anno, e quelli del 13 novembre non volevano turbare il quotidiano della “generazione Bataclan”, come superficialmente ha titolato l’ormai spento Libération, ma solo manifestare la possibilità di colpire ovunque, imitando la potenza di fuoco dell’occidente, non dal cielo dei droni ma sul campo, e contro obiettivi simili: donne e uomini innocenti. Contrariamente a quanto pensiamo, non solo a Parigi donne e uomini di tutte le età volevano e vogliono divertirsi in una terrasse, sedendo a tavolini all’aperto: così facevano moltissimi/e a Beirut come a Kabul (la Kabul degli anni Sessanta-inizio Settanta), a Teheran come ad Aleppo che, a detta dei viaggiatori che l’hanno raggiunta anche in tempi recenti, era uno dei posti più gradevoli al mondo, prima del diluvio di fuoco e di follia distruttrice degli ultimi quattro anni. Attentati feroci si sono ripetuti negli ultimi mesi: nel Kurdistan turco, a Suruc (20.07.15); ad Ankara, contro una manifestazione pacifista della sinistra radicale kurda e turca (10.10.15); a Qamishli, città siriana controllata dalle forze kurde, contro due ristoranti (30.12.15). Pochissimi in occidente hanno pianto per queste vittime, pochissimi hanno manifestato. Dell’ultimo attentato (almeno 18 morti), proprio contro due ristoranti, Miami e Kebra’eil, scarsissime le tracce nelle tv unificate del regime attuale e nessuna emozione presso la sensibile opinione pubblica occidentale: nessuno parlerà, nemmeno Libération, di una “generazione Miami o Kebra’eil”.
Ma ad Aleppo, come a Parigi, chi sedeva a un caffè dimenticava gli orrori non lontani1: che a Palmira, oltre a rovine di un passato sontuoso, vi era una delle peggiori prigioni del regime di Assad; e che l’insouciance, la spensieratezza di Parigi è protetta da uno Stato da annoverare tra i principali spacciatori d’armi al mondo, al quarto posto dopo Stati Uniti, Gran Bretagna e Russia (fonte Sipri)2. Armi che ora hanno ucciso, ad Aleppo e a Parigi, forse le stesse vendute per combattere Assad e riportate in casa dello spacciatore. Cecità politica di una Francia smarrita tra rivendicazioni orgogliose, strette sicuritarie e ostinazioni belliche. Imperdonabile, tra gli altri, l’intervento in Libia (capolavoro di Sarkozy, politicante di quarto rango), causa ultima dell’attuale sconvolgimento nel Mediterraneo. Imperdonabile l’attuale reazione: più armi, più bombe, ieri contro Assad e oggi con Assad (che deve solo farsi un po’ da parte, da criminale n° 1 che era, secondo i socialisti Hollande e il suo cupo ministro Fabius); e riconoscimento di un ‘fronte interno’ costituito dai milioni di francesi musulmani stigmatizzati con parole non distanti da quelle del Front National, che sta preparandosi alla campagna per le presidenziali del 2017 forte del voto delle amministrative di inizio dicembre. Il partito di Marine Le Pen spaccia parole d’ordine di immediata presa: no all’Euro, recupero di sovranità da parte degli Stati-nazione, difesa delle radici cristiane dell’Europa (in cui rientra l’alleanza con la Russia di Putin), preferenza nazionale (nell’accesso al lavoro) e stop all’immigrazione. Nessun altro partito o movimento ha, oggi, slogan così efficaci. La Lega Nord tenta di servirsi delle stesse parole, ma con personale politico scadente e in un’Italia per il momento soggiogata dal caudillo Renzi e dai padrini che lo manovrano.
STRANE DISFATTE
Aver dimenticato ogni cosa così rapidamente ha rapidissimamente permesso di ricomporre il quadro entro confini solidi, senza che nessuna delle nostre chiavi di lettura venisse modificata. Non poteva, non doveva andare così, con tutto e subito riportato al conosciuto. Rispetto a tale pigrizia intellettuale, non è vano ricorrere a “L’étrange défaite”3 di Marc Bloch che suggerisce altri cammini, altre possibili interpretazioni del presente, di allora e di adesso. Nell’agosto del 1940 la Francia aveva ceduto, sul campo di battaglia, all’esercito tedesco: una ‘strana disfatta’, come recita il titolo, ma causata da fenomeni di chiarissima evidenza. “L’incapacità degli alti comandi”, innanzitutto, e il “culto del già noto” (dell’usuale, del convenzionale), diffuso nell’opinione pubblica dalla stampa e dagli organi accademici, avevano sensibilmente ridotto le capacità di resistenza di un esercito e di un’intera nazione. C’è “tutta una formazione intellettuale che deve essere incriminata…” perché incapace di far fronte alla nuova dimensione della velocità di cui l’esercito tedesco era portatore: “…I tedeschi, banalmente, erano avanzati più velocemente di quello che sembrava conforme alle regole stabilite…”. Con formula efficace -e invito a leggere o a rileggere questo capolavoro del grande medievista, resistente antinazista, catturato, torturato e ucciso dalla Gestapo a Lione nel 19444-, Bloch scrive che “i nostri capi, in mezzo a molteplici contraddizioni, hanno preteso, innanzitutto, di replicare, nel 1940, la guerra del 1915-1918” mentre i tedeschi “facevano la guerra del 1940”. Non è quello che sta succedendo oggi, sia pure nei termini propri dei nostri anni?
Il nuovo si presenta ovunque con inaudita protervia e miseria bellicista, ma condito delle nuovissime velocità che la rivoluzione informatica impone, rispetto alle quali ogni pretesa di aggiornamento risulta patetica, eppure da ricercare. La soluzione di molte/i di noi è quella di rifugiarsi in un rimpianto dei tempi che furono, sempre addolciti e celebrati dalla macchina della nostalgia e della presunzione (corollario: voi giovani mai riuscirete a fare quello che abbiamo fatto noi! – per fortuna, aggiungerei); oppure consiste nel praticare una sorta di inattualità, che ha il suo fascino e può produrre persino qualche risultato (nel medio-lungo termine) ma che non riesce a incidere nel presente se non collegata ad altre forme di azione. Continuare a ignorare il quotidiano mutamento dei meccanismi economici e della tecnologia può essere devastante; così come precipitarvisi dentro senza raziocinio e senza nemmeno la minima operazione critica rischia di farci finire in ulteriori impasse, in vicoli ciechi, in ridicole rincorse dell’attimo. Perdenti, in tutti i casi. Occorrerebbero soluzioni inedite per problemi inediti –sempre ricordando il peso della misera natura umana che è zavorra a ogni nostro passo- e innanzitutto, per tornare a Bloch, occorrerebbe quello che lui chiama “élargissement du devoir”, ampliamento dei propri compiti, “imperativamente prescritto da un’epoca come la nostra”. Non dico che siamo esattamente come nel 1940, ma certo elementi di affinità se ne possono trovare a bizzeffe. La sequenza di errori indicata da Bloch (incapacità dei comandi / culto del già noto / rifiuto di sottostare ai ritmi sorprendenti del presente) è la stessa di cui siamo stati vittime e complici negli ultimi trent’anni, e parlo soprattutto per chi aveva e magari ancora ha in mente le speranze e le pratiche di un cambiamento radicale della società. Gli innovatori sono stati sopraffatti dal nuovo, tanto da esser divenuti conservatori, ruolo a volte nobile (“sono comunista per spirito di conservazione” diceva –cito a memoria- Paolo Volponi) ma destinato a involuzioni devastanti: che sono sotto gli occhi di tutti. E questi innovatori sono tra i più restii a riconsiderare le proprie posizioni e a farsi coinvolgere in cammini che potrebbero mettere a repentaglio la propria stabilità.
Rabbrividisco quando leggo frasi come la seguente, dalle labbra di Gianmarco De Pieri, esponente di un centro sociale, coinvolto in uno dei tanti processi di unificazione della sinistra per le amministrative del 2016: noi faremo una “campagna elettorale che sarà rock, qualcosa di mai visto prima, che racconti quello che vogliamo e che possiamo fare noi, senza rievocare modelli del passato che hanno già fallito. Altrimenti vedremo di nuovo la sinistra delle bandiere rosse e del 2%.”5 Nessuno gli ha detto che ‘rock’ era già lentissimo dieci anni fa quando Adriano Celentano, dividendo dualisticamente le cose e le azioni in ‘rock’ e ‘lento’, lo proponeva nel suo sciocchezzaio televisivo (“Rockpolitik”) da troppi esaltato come fossimo in presenza dei responsi di un oracolo. Oracolo che, però, usava termini da anni Sessanta, non più proponibili, ieri e a maggior ragione oggi (“la fanfara è lenta, il rock è rock”, diceva tra l’altro: probabilmente non aveva mai sentito una fanfara balcanica); altri suoni, altri discorsi e percorsi hanno superato quel dualismo e si sono riversate nelle strade e nel web con inimmaginabile fruibilità e flussi di pensiero che le vecchie antenne degli innovatori non captano più. Ugualmente quando Il Manifesto dopo il successo di Podemos alle recenti elezioni spagnole titola “Pablo [Iglesias, ndr] è vivo”, con stanca citazione del cantautore Francesco De Gregori, a chi vuole rivolgersi e chi riesce a compiacere se non sparuti gruzzoli di uomini e donne nella prigione di suoni e canti inattivi? E poi, tornando alla citazione dell’innovativo innovatore di cui sopra, ecco le litanie solite che sentiamo da almeno un quarto di secolo, contro la ‘sinistra della testimonianza’ e delle bandiere rosse: manca tutto, a questi sterili personaggi, fuori ormai dal passato come dal presente. Sappiamo invece che senza il rapporto con la tradizione degli e delle oppresse, e con quella delle lotte (e anche delle sconfitte) delle classi subalterne, senza il ‘sogno di una cosa’ ben rappresentato dal rosso, o dal rosso e nero, delle bandiere, nessuno va da nessuna parte, e piuttosto si creano divisione e rancori, incapaci di qualsiasi tentativo; se qualche vittoria elettorale arriva per pura coincidenza di fattori esterni e improvvisi risveglietti interni, o per volere altrui, una volta al potere si praticheranno quelle stesse primitive forme di governo (tra compromessi, impotenze e complicità) che si diceva di voler trasformare. Siamo proprio nel 1940, allora, e rispetto al “programma di rapidità” dei tedeschi sarebbero molto più utili “alcuni isolotti di resistenza, adeguatamente situati vicino agli itinerari stradali, ben camuffati, abbastanza mobili e provvisti di qualche mitragliatrice e cannoni antitank…”. Mi scuso per questo ricorso a metafore belliche (che in Bloch erano invece da intendere alla lettera per far fronte al nemico) ma possono servire. Servono agilità di azione e un pensiero che non si faccia mettere il sale sulla coda, condito da un uso attento della parola e da doveri da ampliare: perché ripetutamente niente è più come prima e solo la generosità raziocinante e sognante (cosa del tutto diversa dall’alienazione dell’impegno) può permettere di essere all’altezza dei tempi, nell’entusiasmo che include.
RUOLO DI MARRAN E MARRANI
Un lembo dello straordinario yiddishland rivoluzionario6 è andato a posarsi sulla west coast, nella San Francisco e nella casa di Jack Hirschman (e di Agneta Falk, sua moglie e grande poeta) le cui radici sono in un luogo, il centro Europa popolato da milioni di ebrei e spopolato da hitlerismo e stalinismo, e in una lingua, lo yiddish. Il padre di Jack, ‘Shabtai o Sabbatai (in ebraico) Shupls (diminutivo) e Stephen’, operaio a New York, è il tramite fisico tra mondi distanti ma avvicinati dalla ferocia e dalle speranze di liberazione: l’Europa del crimine (“…mio padre Shabtai Shupls Stephen / Dannemark Yitzhak Hirschman Katzenelson / due milioni di uomini sei milioni di uomini donne / e bambini / è Uno…”)7 contro quella di una rivoluzione che Jack predica e spinge ad attuare, oggi, senza reducismi né pentitismi, traendola anche dal cuore della tradizione ebraica, fra cabala e sabbatianesimo. Prendiamo in esame qualche passaggio dell’opera di Hirschman, dai “28 arcani”. Nell’ ‘Arcano assasuicida’ (gioco di parola tra assassino e suicida, richiamando la pratica degli attentatori suicidi) il poeta lavora sul paradosso di una fede che, per essere realizzata, ha bisogno di trasformarsi nel suo contrario, seguendo la via di Sabbatai Tsevi (su di lui il bellissimo studio di Gershom Scholem; in Sabbatai si legge ancora il nome del padre di Jack) e scrive: “…Una fede contro / fede, e così / il fardello del silenzio / due volte appesantito dalla Shoah, / tre volte dall’Occupazione. // Una fede di nuovo. / E poi la rivelazione: // E se, da Jenin o da Ramallah, / egli [l’attentatore, ndr] fosse venuto da antenati / marranizzati seguendo Barucyhia Russo / dei Dönmeh di Salonicco? / (…) E se fosse un cabalista rivoluzionario / che, come il Maestro [ Sabbatai Tsevi, ndr], aveva indossato il fez? (…) [e] avesse messo la scintilla di azioni inconsuete sotto la copertura / dell’Islam…” (pp. 175-7). Hirschman così, di rovesciamento in rovesciamento, giunge alla formula per cui “la violazione della Torah è il suo vero compimento”; ma, viene da aggiungere, solo se tale rovesciamento comporti l’apertura di una fase messianica, in un ciclo potente di ricomposizioni e opere di giustizia. Infatti, e quanto quotidianamente accade ce lo conferma, in mancanza di un sostegno messianico nessun rovesciamento porta a niente di buono ma solo alla perpetuazione dell’orrore: il terrore da chiunque praticato contro i civili, negli ultimi decenni, ha confermato nel sangue il potere di chi ovunque regna; è stato ed è terrore arido e miserabile, senza l’inquieta nobiltà degli antichi tirannicidi (di questi Albert Camus ha parlato in modo memorabile).
Inoltre esso è sempre l’orrore degli altri: un telegiornale di regime italiano apre con le parole del papa contro le persecuzioni dei cristiani nel mondo (che non siano solo i cristiani ad essere perseguitati è un altro discorso, ma nel giorno di Santo Stefano protomartire perché lasciarsi sfuggire l’ennesima ghiotta occasione per segnalare vittime più vittime delle altre?); prosegue con le “violenze dei palestinesi” in Israele (nessuna parola mai contro le violenze degli israeliani in Palestina, né contro l’occupazione e le sistematiche violazioni dei diritti umani da parte dello stato di Israele; vengono anche esibiti due conti: “150 morti dall’inizio dell’intifada dei coltelli, 30 ebrei e 130 palestinesi”, e tale sproporzione dovrebbe parlare da sola); e poi ancora, nell’ordine, “moschea profanata ad Ajaccio” (ma ormai il danno è fatto e sinceri e ottusi antifascisti commentano ‘se la sono cercata’), “gruppo di senegalesi circonda dei carabinieri che avevano fermato un loro connazionale nei vicoli di Genova, accusato di spaccio di droga” e un confuso pezzo sulla guerra in Siria; per finire con “storie di integrazione andate a buon fine” e di salvataggi in mare (non una parola su guerre e legislazione europee, terrorismo economico, fili spinati e muri, etc.). Analogamente: rovesciare una bandiera rossa oggi, quando tutti la rovesciano e vi sputano sopra, è gesto da mediocri conformisti, più che da innovatori rock, mentre quando essa era forte e garriva potente pochi osavano toccarla (e si sarebbe dovuto!), e molti le si inchinavano utilizzandola ai propri fini. I ripetuti rovesciamenti da operetta degli ultimi decenni sono la più sciagurata approvazione delle egemonie presenti.
Continua Hirschman, nell’ ‘Arcano thoral’, sempre in rovesciamenti di rovesciamenti: “…Questa è la caduta dell’America, / la sconfitta trionfante. / Le bombe che piovono sull’Iraq / annunciano la fine dell’America. / Tutti gli esplosivi, tutti gli aerei / e i carri armati e le truppe / sono i suoi stessi rantoli di morte…” (p. 183); e due suicidi, da due diversi ponti, quello di Paul Alarab che, leggo nella nota, “fu la prima vittima della guerra in Iraq. Si suicidò saltando dal Golden Gate Bridge, il primo giorno dei bombardamenti, in segno di protesta”, e quello di Paul Celan, l’immenso poeta della Bucovina e di Parigi suicidatosi nella Senna nel 1970. Negli ultimi versi di questo arcano appare il concetto cabalistico di zimzum: “…la carne delle lettere è / scintillante zimzum…” (p. 187), per cui il vuoto lasciato dalla divinità può essere abitato dalla parola e dall’opera degli esseri umani. Infine nell’ ‘Arcano Amiri’, dedicato alla memoria di Amiri Baraka (Leroi Jones), ricompare la figura del ‘falso messia’, di Sabbatai Tsevi: “…l’irreprensibile Leroi / che divenne poi Amiri, l’Emiro della poesia / e il fratello dello sfidante, / il ribaltatore [overturner, nell’originale, ndr], Amirah, / nostro signore e re, sia gloria alla sua maestà…” (p. 281), con chiaro legame etimologico (Amiri-Emiro-Amirah, principe, comandante, in arabo); quest’ultimo è il nome identificativo di Sabbatai Tsevi, riconosciuto in Amiri Baraka e nei suoi testi più estremi (quello sull’ 11 settembre 2001, sotto accusa per antisemitismo)8. I ‘ribaltatori’ sono coloro che, anticipando i tempi messianici, hanno provato a rovesciare l’esistente ma da questo sono stati eliminati, perché maledetti, anche se una loro presenza resta: fili dei loro tentativi si trovano tra le righe e le pieghe del presente, possono essere estratti e di nuovo intrecciati in altre trame; le ‘marrane’ e i ‘marrani’ agiscono, invece, per favorire questo rintracciare percorsi, questo decifrare palinsesti e procurarsi segni su segni, forti di pazienza. Mentre non smettono di fare o anche solo provare a fare, persino quando unte nebbie entrano nei polmoni e mettono in affanno il respiro e la voce.
Gianluca Paciucci
1Queste mie parole non siano lette come una colpevolizzazione delle vittime, ma riguardano l’atteggiamento globale che noi uomini e donne dell’Occidente, chiusi ed eurocentrici, pratichiamo nella lettura degli avvenimenti; a tale atteggiamento è simile quello di molte borghesie nel mondo intero, acriticamente filo-occidentali, nei fatti (la buona borghesia che sosteneva e sostiene il regime di Assad, urbana nei modi ma spesso criminale nei fatti, come il tiranno di Damasco).
2V. l’ editoriale di Serge Halimi, “Scadimento della Francia”, in Le Monde diplomatique di novembre 2015: “…La scelta filo-saudita di Parigi non nasce però in primis da un errore di analisi strategica. Si tratta piuttosto di attizzare la paranoia dei regnanti che temono l’accerchiamento da parte dell’Iran e dei suoi alleati, con l’obiettivo di rifilargli qualche partita di armi in più. Missione compiuta il 13 ottobre scorso, quando al suo ritorno da Riyad il primo ministro Manuel Valls ha annunciato in un tweet: ‘Francia-Arabia Saudita: 10 miliardi di euro di contratti! Il governo mobilitato per le nostre imprese e per l’occupazione’”.
3Marc Bloch, “La strana disfatta”, Torino, Einaudi, 1995 (prima ed. francese 1946; il testo risale al luglio-settembre 1940), pp. 255. I brani di Bloch contenuti in questa Lettera sono stati tradotti da chi scrive.
4Il libro contiene riflessioni straordinarie: sulla borghesia del tempo, sul sogno ruralista, sul ‘pacifismo’ (criticato con parole non dissimili da quelle dell’ultima Simone Weil) e sulla politica ondivaga del Partito Comunista Francese; e formule indimenticabili, come questa, che suona benissimo anche in italiano: “Noi vogliamo vivere e, per vivere, vincere…”.
5Art. di Giovanni Stinco, “Una sinistra rock sotto le Torri”, Il Manifesto, 20.12 2015.
6Mi servo del titolo di un meraviglioso libro di Alain Brossat e Sylvia Klingberg, “Le yiddishland révolutionnaire”, Paris, éd. Syllepse, 2009 (prima edizione 1985, Balland), pp. 291. Per altre considerazioni sulla modernità ebraica rimando agli studi di Enzo Traverso, di grande intensità. Per una lettura agile e calata nelle contraddizioni del quotidiano, tra Lodz, guerra civile spagnola e Parigi, ricordo Silvyane Roche, “Addio al tempo delle ciliegie”, Firenze, Giuntina, 2007 (prima ed. 1997, Bernard Campiche Editeur), pp. 144; non senza segnalare che il libro si intitola semplicemente, nell’edizione francese, “Les temps des cerises”, con citazione di uno dei più bei canti della Comune di Parigi dedicato dall’autore, J.-B. Clément, a Louise Michel. Il titolo italiano è, altrettanto semplicemente, scorretto.
7Pag. 39 in ‘L’arcano di Schupsl’, tratto da Jack Hirschman, “28 arcani”, Salerno, Multimedia, 2014, pp. 308, a cura di Raffaella Marzano (a questa edizione si riferiscono tutte le altre citazioni di Hirschman). Nel verso citato vengono mescolati i nomi di Stephen Dannemark Hirschman, nome completo del padre di Jack, e di Yitzhak Katzenelson; quest’ultimo è l’autore di un grande testo scritto tra il 1943 e il 1944 che, in traduzione italiana, si può leggere nell’edizione Giuntina (“Il canto del popolo ebraico massacrato”, 1995, nella traduzione di Sigrid Sohn e Daniel Vogelmann) o in quella Mondadori (“Il canto del popolo yiddish messo a morte”, 2009, a cura di Erri De Luca).
8Questi i mediocri versi incriminati, incapaci di ribaltare il presente perché ispirati al più trito antiebraismo (non rovesciamento ma conferma dell’attuale pensiero egemonico):
“…Chi sapeva che il World Trade Center sarebbe stato bombardato
Chi ha detto a 4000 lavoratori israeliani che lavoravano alle Twin Towers
di stare a casa quel giorno
Perché Sharon s’è tenuto alla larga?…”
(da “Qualcuno ha fatto saltare in aria l’America”; il testo si può leggere ed ascoltare nel sito http://www.casadellapoesia.org/poeti/baraka-amiri/qualcuno-ha-fatto-saltare-in-aria-l-america/poesie).
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