Nel giardino, tra fogliame, uccelli e insetti, Giuseppe Ungaretti brandisce per il fotografo, che approfitta dell’ultima luce della sera, il suo bastone di quasi ottuagenario. Dopo mi domanda, divertito, se il suo ritratto sarà a colori. Gli rispondo che ciò succederebbe solo se egli fosse Sofia Loren. In una risata che moltiplica le sue rughe, il grande poeta italiano elogia, con le mani, il piccolo giardino tropicale e commenta con una lamentela: – In Italia ci sono sempre meno piante, insetti, uccelli e sempre più tecnologia.
Giuseppe Ungaretti, che abitò in Brasile dal 1936 al 1942, insegnando letteratura italiana all’Università di San Paolo, vivendo un’esperienza di convivio e di esilio che si impresse per sempre nella sua opera, è tornato ora per visitare la tomba di suo figlio. Considerato uno dei maggiori poeti del secolo, e autore di libri come L’Allegria (1914-1919), Sentimento del tempo (1919-1935), Il Dolore (1937-1946) e La Terra Promessa (1935-1953), questo italiano d’Africa, nato ad Alessandria d’Egitto nel 1888, è presidente della Comunità Europea degli Scrittori, istituzione impegnata a stabilire un dialogo tra aree intellettuali divise dalle diverse ideologie o sistemi di governo. Alcuni congressi si sono tenuti in Unione Sovietica, dove la poesia di Ungaretti è già tradotta. Nel caso della condanna degli scrittori Andrej Sinjavskij e Julij Daniėl’, la Comunità mandò il suo segretario generale, Gian Carlo Vigorelli, a cercare un’intesa con il governo sovietico.
Ungaretti aggiunge che è anche presidente del Comitato delle Attività Culturali della Commissione Italiana dell’UNESCO: – Non abbiamo conseguito l’atto di clemenza che chiedevamo per i due scrittori, ma la circostanza che essi non siano stati mandati in Siberia mostra che la nostra iniziativa non è stata del tutto vana. Inoltre, i “lavori forzati” a cui entrambi sono stati condannati si svolgono in biblioteca. E, infine, c’è la promessa che, fra un anno, quando si commemorerà il cinquantenario della Rivoluzione Russa, saranno perdonati.
Ricapitolando i suoi sforzi per avvicinare gli uomini e rimuovere ostacoli, il poeta sospira:
– La mia speranza è che un giorno tutti gli uomini si sentano fratelli.
Ma, malgrado la sua vigile attività in difesa della libertà della creazione artistica, così Ungaretti che è cattedratico di Poesia e professore emerito dell’università di Roma, mi risponde a una domanda sul dovere dei poeti:
– L’unico dovere del poeta è scrivere buona poesia. Scoprire come fare questo è quasi come scoprire la creazione del mondo. Non si pratica questo lavoro con le regole apprese a scuola.
Definito poeta ermetico da alcuni critici, egli ricusa questa etichetta:
– Non sono un poeta ermetico, anche perché ermetismo o non-ermetismo sono parole che significano poco o niente. Sono solo un poeta di oggi, che prova ad esprimersi al meglio con un linguaggio poetico che rifletta l’attualità. La vera poesia, sebbene vada oltre la Storia, tuttavia la interpreta e le dà il suo significato profondo, elaborato nel mondo interiore della creazione poetica. Così, cerco di fare una poesia che sia una adesione all’universo e possieda una visione universale capace di trascendere la storia del mio proprio tempo attraverso l’allegria, l’amore, la sofferenza, la vita e la morte. Insomma, aspiro a vivere la vita del mio tempo come un uomo di una società universale. E, essendo questo il mio tempo, e non un altro, è compito mio cantarlo.
Per Ungaretti, questo ammirevole mondo nuovo che sta nascendo con le conquiste spaziali, con l’esasperazione delle forme della pubblicità, e con i computer, impone agli uomini un nuovo comportamento sulla terra, non minaccia la perennità della poesia, anche se richiede o addirittura accelera linguaggi poetici differenti da quelli che il tempo ha consacrato.
– Le modificazioni che accadono nel mondo sono fatti storici. La tecnologia può influire sul linguaggio poetico, ma non distruggerà o ridurrà l’importanza della poesia che, con il suo potere di attenzione, riflessione e meditazione, è chiamata a interpretare il significato di un mondo come l’attuale in cui gli eventi si succedono in maniera vertiginosa: il poeta deve cercare di esprimersi in un linguaggio poetico che possieda il sentimento del tempo. Riconosco che alle volte, queste ricerche tecniche o formali non giungono ad alcun risultato. Ma, in ogni modo le ricerche sono importanti per il poeta, obbligato a riflettere nella sua opera tanto il mondo esterno e la congiuntura storico-sociale quanto il suo proprio mondo interiore. C’è il rischio che alla fine della ricerca le cose siano già mutate.
Gli ricordo che Picasso, ironizzando sulle ricerche intenzionali, disse: “Prima penso poi cerco.”
Ungaretti risponde: – Picasso passò la vita intera cercando e ricercando, e a volte incontrò quello che cercava.
Chiedo a Ungaretti che mi racconti la storia di Mattina, la sua poesia composta appena di due versi prodigiosamente ellittici, e una delle più corte e carche di sentimento di tutta la poesia universale, tanto che Jean Lescure, il traduttore francese di cinque suoi libri, risolse mantenendo l’originale: “M’illumino d’immenso”.
Giovane soldato italiano ingabbiato in una trincea di fango durante la 1a Grande Guerra, Giuseppe Ungaretti passava giorni e notti sveglio, col fragore dei cannoni che seminavano la distruzione e la morte. Su frammenti di cartone, ritagliati dalle scatole di proiettili, scriveva le sue prime poesie (perciò stesso in una forma sommaria e concentrata) e poi li conservava in uno zaino.
– Intrappolato, nell’oscurità della notte, nel sudicio fango di una trincea, io non potevo uscire da lì tranne che morto. All’improvviso, vidi sorgere la luce del giorno, con il suo orizzonte di chiarore e la sua suggestione di libertà infinita che invase cielo e terra. In quella terra martoriata in cui uomini combattevano e si uccidevano gli uni con gli altri, mi sentii, allora, illuminato da una luce immensa. Ecco la storia di questa poesia che ha suscitato tanti dibattiti e “teorie”.
Ora, a 78 anni anni, vedovo e abitante a Roma con una figlia sposata, Ungaretti pensa che sta vivendo come nella gioventù: “Amo, creo e lavoro come al tempo in cui ero ragazzo.” Riconosce che la gloria abitualmente lo infastidisce e lui è in un’età in cui non fa piacere essere disturbato. “Ogni secolo dà un grande poeta”, sostiene, tra serio e divertito. Tra i suoi poeti prediletti, cita Dante, Jacopone da Todi, Guido Cavalcanti, Petrarca, Tasso, Leopardi. Si dispiace di conoscere male Camões, ma ammira molto Gil Vicente, che ha tradotto. Traduttore di Shakespeare, Góngora, Mallarmé e William Blake, volse anche nella sua lingua poesie di modernisti brasiliani come Bandeira, Mário de Andrade, Drummond e Vinícius. E provò anche a tradurre Jorge de Lima.
Da molti anni il nome di Ungaretti è citato come uno dei prossimi vincitori del Premio Nobel. Nel 1959, la gloria lo sfiorò, premiando l’italiano Salvatore Quasimodo, cosa che provocò grande scompiglio. Ricordo l’episodio che alimenta il suo buonumore temperato da un non meno buon whisky.
– Quasimodo? Un buon poeta. Un ottimo poeta.
Ledo Ivo
( Rivista “Manchete”, Rio de Janeiro, 24 settembre 1966)
(Traduzione dal portoghese di Giancarlo Cavallo)
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