Giacomo Scotti
Due mari, due poeti, tre amici
(tra la Campania e la Bosnia Alfonso Gatto e Izet Sarajlić raccontati da un napoletano-croato)
Anno: 2019
Collana: Mediterranea
€ 13,00
La produzione letteraria di Giacomo Scotti si è arricchita, nel 2019, di un piccolo e delizioso libro in cui egli rievoca la sua amicizia e il suo sodalizio letterario con due poeti, il salernitano Alfonso Gatto (1909-1976) e il bosniaco Izet Sarajlić (1930-2002). Nel titolo si mette in evidenza la parola amici, che lega i tre, ma non quella poeti, da cui Scotti si sottrae, pur essendo uno dei più rappresentativi esponenti della poesia in lingua italiana della Jugoslavia e, ora, della Croazia. Una dichiarazione di modestia, da un lato, ma anche una forte sottolineatura dell’importanza dell’amicizia e di un sodalizio umano che ha sfidato le furie della fase storica che ha visto la formazione, il consolidamento e infine la rovinosa caduta della Jugoslavia di Tito. I tre si sono più volte incontrati lungo le strade finalmente sgombre da macerie ma infine ancora insanguinate di un Paese che ha tentato un progetto politico ambizioso cui guardare con rispetto, nonostante tutti gli elementi negativi che non vanno sottaciuti e di cui Scotti è stato severo critico, nonostante la sua adesione al socialismo jugoslavo.
Il poeta comunista Gatto e i due “socialisti” Sarajlić e Scotti hanno condiviso lunghe chiacchierate e si sono scambiati versi che rifuggivano dalle norme imperanti del realismo. Gatto, nato in clima ermetico e poi convertitosi a una visione della storia dalla parte delle vittime, non si è mai lasciato prendere da forme totalitaristiche di impegno, in letteratura, pur riconoscendo la necessità di rispondere nelle forme più ricche e articolate al mandato sociale. Ad alcune domande di Scotti, formulate nel 1966, Gatto rispondeva che “oggi la poesia, quanto più è vera poesia, deve essere arma della libertà liberatrice”, usando ben cinque volte il verbo deve in pochissime righe: deve, il verbo di un imperativo categorico, assoluto, che non ammette altre vie né repliche. Ma attenzione: egli mette la poesia al servizio non di un dogma, di una classe sociale o di un partito, ma di un’entità astratta, la “libertà liberatrice”, che diventa reale incarnazione, movimento perpetuo, forse rivoluzione permanente, e non certo statica ripetizione di formule sempre più sbiadite e insincere. Non è forse un caso che l’intervista fu censurata, scrive Scotti, nella Jugoslavia “liberale” di metà degli anni Sessanta ma che pure non poteva ammettere la critica del sistema o anche una velata allusione a qualcosa d’altro, di non previsto, di alieno. Fu così che, di lì a poco, venne represso il ’68 jugoslavo, animato da professori, studenti e operai marxisti di sinistra non in linea con il conformismo al potere. Ma la Storia, prima e dopo la rivoluzione, sa rivendicare il suo ruolo. Per questo sono bellissime le pagine dedicate a una passeggiata notturna di Gatto e Scotti a Sarajevo dove l’infinita amicizia non riesce a contenere la forza della Storia nella sua massima espressione: i due si trovarono vicino a quel Ponte Latino che vide l’attentato di Gavrilo Princip del 1914 e che poi, “dal 1992 al 1995, non potrà essere attraversato perché il fiume che passa sotto le sue arcate segnerà il confine tra la Sarajevo assediante e da Sarajevo, adagiata nel fondovalle, assediata e bombardata per ordine di un poeta-assassino…” (pag. 21). Poeta-assassino, quarto, dopo i tre poeti innocenti di questo libro, e significativamente privato del nome (ma lo facciamo noi), quel Radovan Karadžić che di Sarajevo fu carnefice.
Scrive Sarajlić di Gatto, che conobbe personalmente e apprezzò: “Uno degli antenati dei futuri uomini felici è l’italiano Alfonso Gatto” (pag. 32). Con termini non dissimili egli scrisse di Scotti definendolo “uno dei grandi uomini infelici che inutilmente si sforzano di rendere felice questo mondo” (pag. 55); chiosa Scotti “potrei dire la stessa cosa di Izet. Anche negli ideali eravamo fratelli”. Sulla scorta di queste parole, si può individuare un ulteriore terreno comune ai tre, quello della preparazione di ere più giuste, di mondi che, lungi dall’essere perfetti, possano consentire il libero dispiegamento delle capacità umane e la solidarietà non eroica (anti-eroica, meglio), quotidiana, impercettibile. Anticipatori di coloro che verranno, essi hanno provato ad “apprestare il terreno alla gentilezza” (come recitano famosi versi di Brecht), ma ad apprestarlo con gentilezza. Un avverbio disturba la definizione che riguarda Scotti, quell’inutilmente che segna la disillusione del poeta bosniaco rispetto a un’evoluzione storica che lo disgustava: gli anni Novanta del secolo scorso confermarono questo suo pessimismo. Pessimismo che era rifiuto di un secolo che nasce e finisce nella violenza, ma anche attaccamento a quanto era accaduto, alle speranze del Novecento: da qui la sua ostinazione a non voler entrare nel XXI secolo per cui l’anno 2000 era, per lui, solo un misero “1999+1”; e da qui la sua ricerca della morte, nel maggio del 2002, forse accelerata da una bellissima notte al Krug 99 (Circolo 99) di Sarajevo tra chiacchiere, canti, sigarette e rakija, con amici e amiche bosniache e di tutto il mondo. Notte in cui Izet fu felice.
Il XXI secolo rischia di essere il secolo dei “nostri talebani”, come Predrag Matvejević, altro grande amico di Scotti, definì i seminatori d’odio nella sua Croazia: ognuno avrà i suoi talebani, nel secolo in cui siamo, vedendoli persino al governo, a dettare leggi e norme, non più solo in mimetica ma in eleganti vestiti e ben annodate cravatte. Scapigliati sono i nostri tre personaggi, invece, come scapigliata è la loro poesia: quasi a dire che la polis ha bisogno di eros per vivere in pace, di entusiasmi che vengano dal corpo di chi vive e scrive, e ha bisogno di errori imperdonabili (come le donne di cui parla Cristina Campo) che formino il regno della giustizia così come le costruzioni di altre e altri. L’alternativa è il carcere, quel carcere così ben evocato da un testo di Sarajlić dedicato a Gatto e riportato da Scotti, in sua traduzione, nelle pagg. 58-59, “Cambio indirizzo”: Gatto ora riposa nel cimitero di Salerno, “il peggiore / dei ventotto indirizzi / che ha cambiato finora. / Era migliore quello che ebbe / all’epoca di Mussolini:/ Alfonso Gatto / Carcere Centrale, / Milano. // Nel frattempo ho cambiato indirizzo anch’io. / Vivevo nell’allegra e bellissima città europea di Sarajevo, / ora vivo nel carcere centrale dell’Europa.” Ma dalle carceri occorre fuggire: questo insegnano le vite e i versi malinconici, sentimentali e resistenziali di Gatto, Sarajlić e Scotti; e questo insegna questo libro.
Gianluca Paciucci
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