Quando nel 1975 andai a La Habana, mi accompagnò Nicole. Era il primo paese dell’America Latina e di lingua spagnola e l’unico territorio socialista che conosceva. Per questo, una sera, quando dissi che saremmo andati a una conferenza di Josè Coronel Urtecho e il giorno dopo a un recital di Ernesto Cardenal, attonita, visibilmente infastidita, rispose che non si spiegava che avevano a che fare a Cuba un colonnello e un cardinale nicaraguese, né perché noi dovevamo andare ad ascoltare e applaudire un discorso e una lettura di versi di «somocistas». Mancavano ancora tre anni alla vittoria del movimento sandinista… Ernesto ha continuato a riderne venti anni dopo, nel 1995 a Quito. Aveva fatto un viaggio alle Galapagos, che trovò «interessanti, ma non belle», a differenza della selva preammazzonica che decantò con entusiasmo di nicaraguense. Trascrivo qualche paragrafo della presentazione del poeta che fui incaricato di fare durante l’evento letterario con il pubblico più numeroso e con maggior moltitudine di giovani che si era tenuto fino ad allora nella città.
Ricordando il tempo trascorso nel monastero trappista di Gethsemani, Kentucky, Ernesto Cardenal citò in qualche occasione un poeta beatnik, Fratello Antonino, che affermava che era necessario trascendere la poesia stessa in favore di qualcosa più grande; che chi considera la poesia come il massimo di tutte le sue aspirazioni è condannato ad essere un poeta inferiore; che i grandi poeti sono quelli che credono che ci siano cose e ideali maggiori della propria poesia. Sapendolo, o profetizzandolo, quel poeta nordamericano stava parlando di Cardenal.
Molti sono, nel nostro continente, coloro che hanno considerato che ci sono cose superiori alla poesia ma, ciò che la poesia di Cardenal celebra, eleva e consacra è l’Amore che, solo nel suo caso, si può scrivere con la maiuscola senza essere ridicoli. Perché l’amore e basta, quell’amore, semplice nella sua grandezza, «per le ragazze di cui era innamorato, si trasformò in amore per Lui, con la maiuscola» E, poi, per il povero essere umano con le sue speranze e le carognate che gli avevano fatto – «Ascoltami perché ti invoco Dio della mia innocenza/ Tu mi libererai dal campo di concentramento» –; amore per la nostra America con il suo passato perduto – «E l’indio parlerà un’altra volta? / Si potrà / ricostruire con questi cocci le luminose stoviglie? E l’universo dell’Indio tornerà ad essere un Ayllu? / Il viaggio era verso più lontano e non verso il Museo / Ma nella vetrina del Museo / la mummia ancora stringe nella sua mano secca / il suo sacchetto di grani» –, con i suoi Cantici messicani, la sua Arcadia in Paraguay distrutta da Stroesner, con i suoi tiranni – «Quattro prigionieri stanno scavando una fossa./ “Chi è morto?” disse un prigioniero./ “Nessuno”, disse la guardia./ “Allora per chi è la fossa?”/ “Che ci perdi?”, disse la guardia, “continua a scavare”». Tutto perché Cardenal crede «che il Cristianesimo deve essere rivoluzionario, perché il Vangelo è rivoluzionario».
Per questo dalla poesia semplice dei suoi Epigramas – «mi dissero che eri innamorata di un altro / e allora me ne andai nella mia stanza / e scrissi quest’articolo contro il Governo / per il quale sono prigioniero» – passò ai suoi lunghi ed ampi poemi nei quali, appresa la lezione di Ezra Pound che non esistono elementi propri della poesia, c’è di tutto in quel “materiale poetico prefabbricato” e la “poetizzazione della prosa documentale”: cronache storiche – nelle quali entrano le relazioni di Cortez, Gomara, Bartolemé de Las Casas, pirati e filubustieri, presidenti nordamenricani… – e dati statistici, quotazioni di borsa, insegne in altra lingua – WANTED, NO SMOKING, DON’T WALK –, editoriali e notizie di giornali, aneddoti, barzellette, canzoni: è forse “HORA 0”, uno dei poemi maggiori della dignità e della disubbidienza dell’America Latina quello che apre il cammino ad una poesia che, fagocitaria, sembrerebbe aver reso non necessari il racconto, il romanzo e persino il saggio antropologico, etnologico o religioso, perché li comprende nei suoi versi. O perché Cardenal, insieme ad altri poeti del Nicaragua – che, come si sa, ha fin da Ruben Darìo una “rendita poetica procapite senza pari nel mondo” – coltivarono la poesia esteriorista “per distinguerla da un’altra classe di poesia molto di moda nell’America Latina e che ormai era diventata una piaga: il soggettivismo lirico-onirico”. Giunse così, come egli stesso dice, ad una poesia come posters: non come lettere, dirette a tutti e non solo ad alcuni: forse per questo, ad Amburgo, c’erano “mille persone che ascoltavano la sua poesia e trecento nella strada che non riuscivano ad entrare nel locale” (e una ragazza “di diciotto anni di nuovo, della stessa età di trent’anni prima” che cambiò per Dio, vendette per Dio e ancora si chiede se ne uscì perdente).
Poesia diretta, senza addobbi: rare volte un’immagine – “l’anima è come una ragazza sbaciucchiata dietro un’automobile” –, forse perché i dittatori non meritano un ritratto abbellito dal linguaggio dei poeti, fino al punto di chiedersi se è bene che li si nomini: quando da qui a cento anni qualcuno leggerà Cardenal o Neruda, sarebbe bello che ignorasse non le imprese sordide, che di questo è fatta la nostra storia, ma il nome stesso di Somoza, Batista, Truillo, che sarebbero conosciuti solo perché loro lo lasciarono scritto. […] E Cardenal, con la sua faccia di poeta e di profeta, trasformato in cospiratore quando nell’aprile del 1954 partecipò ad una congiura contro il tiranno; quando, contemplativo, fece della comunità di Solentiname l’unico posto del mondo in cui si compiva il Vangelo degli umili; quando, voce attiva della epopea al fronte di Liberazione Sandinista dedicò il suo oceanico Canto Nacional; quando, critiano puro, a Cuba – come in una “seconda conversione” – trovò che “i grandi compiti della Rivoluzione sono compiti essenzialmente cristiani, evengelici”, e capì che “quando Cristo dice che se a qualcuno chiedono di percorrere un miglio con un fardello pesante, che vadano in due, sta dicendo la stessa cosa che la Rivoluzione esige dai rivoluzionari”; quando, ammirato ed addolorato, si chiede: «e chi amò molti / anche senza conoscerli e diede la vita per essi?/ Qualcosa di nuovo./L’uomo nuovo. Se nò, non sarebbe nuovo / L’uomo nuovo. / Lo abbiamo visto: / con gli occhi aperti, la barba nera e i ricci neri, / steso nel lavatoio come il Cristo di Mategna a Milano. Forse che l’universo abortirà l’uomo nuovo? / un giorno l’umanità si amerà tutta come un’unica coppia / sebbene manchi ancora un tempo geologico»; quando, dopo essere stato e smesso di essere Ministro della Cultura, continuò ad avanzare, santo accanito, con la sua fede dolce e corretta, solo perché l’insolenza del suo partito e la pompa del Vaticano impedì loro di seguire col medesimo passo, non si era Cardenal trasformato in soldato per necessità, necessità sua, del suo paese agonizzante, dell’America venduta? (qualcosa di questo compare nelle sue memorie: Vida perdida, primo volume di quella che sarà una trilogia, sebbene cominci con l’incontro di Ernesto con Dio in un aereo, si occupa delle “ragazze in fiore” che amò, della disciplina militare del suono viziato, della sua residenza in Messico, dei primi anni).
[…] Per quanto di spirituale conservano la sua poesia e la sua condotta c’è chi lo paragona a San Juan de la Cruz: trovo, ad esempio, una pagina con questo paragone: «Quello che in San Juan de la Cruz è un dialogo e un’attesa dell’Amata (la Chiesa) del suo Amato (Cristo) in Cardenal passa ad essere l’attesa di vergini prudenti (alienazione) dello sposo (Stati Uniti)». Dubito che una vergine prudente per folle che sia aspetti un simile sposo. Piuttosto, in opposizione e d’accordo con Santa Teresa che parla di San Juan de la Cruz: “Non lo capisco. Spiritualizza all’estremo”, io direi, per quanto riguarda Cardenal: “Lo capisco. Esteriorizza all’estremo”. E solo conserverei, come parallello e antitesi allo stesso tempo, il Cantico Espiritual dello spagnolo accanto al Cantico Cosmico del nicaraguense per la dimensione universale di entrambi: così distanti – ci sono 383 anni tra la nascita di uno e dell’altro – li uniscono, tenendoli per mano, Omero, Virgilio, Dante, Withman. Niente di meno.
A differenza di Juan Ramon Jimenez (“… starà già leggendo le mie poesie a Dio”) Ernesto Cardenal non necessita di intermediario nella sua relazione con Lui: si intende con Lui, si rivolge a Lui, gli parla, gli chiede, come farei io stesso, per Marilyn Monroe: «Perdonala Signore [parlando della piccola commessa che come tutte le piccole commesse sognò di essere una stella del cinema] e perdona noi / per il nostro 20th Century / per questa Colossale Super Produzione nella quale tutti abbiamo lavorato. / Ella aveva fame d’amore e le offrimmo tranquillanti. / Per la tristezza di non esser santi / le fu raccomandata la psicoanalisi […] Fu / come chi ha fatto il numero dell’unica amica / e sente solo la voce di un disco che dice: wrong number. / O come chi ferito dai gangster / allunga la mano verso un telefono non collegato. / Signore / chiunque sia stato colui che lei stava per chiamare / e non chiamò (e forse non era nessuno / o era Qualcuno il cui numero non sta nell’elenco di Los Angeles) / rispondi Tu al telelono!»
Ho gratitudine per lui, anche perché risentito con Dio da quando avevo tredici anni, quando non accolse la mia preghiera che non lasciasse morire un’umile signora, Cardenal mi riconcilia con Lui: questa volta io non potrei, onestamente, dire che non ha risposto a quella chiamata. […]
Jorge Enrique Adoum
da: De cerca y de memoria – lecturas, autores, lugares (Archipiélago, Quito, Ecuador, 2003).
Traduzione di Raffaella Marzano
Jorge Enrique Adoum (Ambato, Ecuador, 1926), pubblica il suo primo libro di poesia, Ecuador amargo nel 1949, da allora la sua opera comprende più di trenta libri di diverso genere, tra cui ventuno di poesia. Conosciuto fino al 1976 fondamentalmente come poeta, sorprese il mondo letterario con il romanzo Entre Marx y una mujer desnuda, considerato uno dei più importanti romanzi sperimentali dell’America Latina. Si è dedicato altresì con successo al teatro, e ha realizzato una notevole opera critica con saggi su Valéry, Rilke, Eliot, Majakovski, García Lorca, Hughes, e Vallejo, raccolti nel volume Poesía del siglo XX.Vincitore dei più prestigiosi premi letterari dell’America Latina, è stato considerato come il più degno erede della poesia di Pablo Neruda, di cui è stato segretario personale. Le sue opere sono state tradotte e pubblicate in molti paesi e inserite in innumerevoli antologie. Importante il suo De cerca y de memoria: Lecturas, autores, lugares, un libro di ricordi su scrittori e artisti dell’America Latina e dell’Europa. Il 3 luglio 2009 si è spento a Quito, in Ecuador. Multimedia Edizioni ha pubblicato in Italia il volume L’amore disinterrato e altre poesie nel 2002, tradotto da Raffaella Marzano. (Foto di Adoum: Luca Zagaria)
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