Se la poesia è una dimensione che rivela la parte più autentica della nostra umanità, come poter mai sperare di trovarla in luoghi dove regna la nostra parte più disumana, nei sottoscala della crudeltà, negli scantinati della vergogna e del disonore? Come poter anche solo pensare di vederla germogliare in contesti dove la desertificazione dei sentimenti è all’ordine del giorno? E come credere che la sensibilità dell’animo possa sopravvivere tra la spietatezza di muri dove si è inevitabilmente destinati a morire?
Ho sempre creduto che la poesia, in tutte le sue forme, non sia un’etichetta, una medaglia di merito o un titolo nobiliare con cui fregiarsi, ma uno stato dell’essere e che, proprio per questo, in forme diverse e variabili, appartiene a ciascuno di noi. Ci appartiene, sì, belli o brutti, buoni o cattivi, giusti o meno, dal giorno in cui nasciamo, ma molte persone semplicemente lo dimenticano, lo rimuovono o lo rifiutano.
Questo l’ho potuto sperimentare con coloro che sono considerati rifiuti umani, scarti della società o scherzi della natura, cioè con quei condannati e condannate a morte che abitano corpi ormai ridotti a tombe di carne, ma che nonostante tutto non rinunciano ad esprimere la loro dimensione più umana attraverso il linguaggio poetico.
Eppure qualcuno ancora pone e si pone la domanda: “a che serve la poesia?”. Se solo si entrasse in quei luoghi, si vedesse coi propri occhi e si percepisse sulla propria pelle quanta umanità è in grado di abitare le parole che ci arrivano da quegli inferni, ci si renderebbe conto che non solo la poesia serve, ma che è necessaria per restituire l’aspetto più vero a quei volti sfigurati dal dolore della condanna, sia quella subìta che quella da essi stessi inflitta.
Ecco perché è ormai da tanti anni che, dopo aver curato, promosso e pubblicato la raccolta antologica Poeti da morire, con testi di persone condannate alla pena capitale negli Usa, continuo a credere che questo non sia e non debba restare un semplice volume da consumare con gli occhi e riporre in uno scaffale, ma un progetto itinerante da divulgare nel vivo del tessuto sociale, a partire proprio dalle scuole di ogni ordine e grado.
Ci si può rendere conto che la poesia non è affatto qualcosa di vetusto, estemporaneo oppure ostaggio di una determinata élite culturale, ma un linguaggio vivo che può essere attuale e che può testimoniare il nostro tempo come pochi altri linguaggi riuscirebbero mai a fare. Purtroppo la percezione che nel nostro Paese invece si ha della poesia è tutt’altra. Qualche anno addietro, ad esempio, durante un incontro che ebbi con bambini di sette anni di una scuola elementare della periferia romana, una bambina, toccandomi il braccio, quasi come per sentire se fossi vero, mi disse con aria perplessa: “ma sei proprio tu, Marco Cinque, il poeta?”. Con non poco imbarazzo e rosso come un peperone tentai di replicare alla bimbetta: “beh, siamo tutti poeti in fondo, comunque sì, sono io Marco Cinque”. “Ah, meno male – replicò la piccola – perché noi pensavamo che i poeti fossero tutti morti”.
Ecco, questo purtroppo è assolutamente emblematico riguardo allo stato attuale della poesia, che tendenzialmente, già a partire dalla scuola, viene vissuta come una materia lontana dalla realtà o persino come qualcosa di punitivo: “se non smettere di far confusione vi assegno due poesie da studiare a memoria per casa”, è infatti il leit motiv più gettonato da molti pseudo educatori.
Per non parlare di quel che la poesia, qui in Italia, oggi rappresenta: per lo più un luogo chiuso, autoreferenziale, autocelebrativo, consumato in circoli accademici e salotti letterari che non fanno altro che guardarsi l’ombelico, che se le cantano e se le suonano pubblicando migliaia e migliaia di libri che non cambieranno di una virgola, né tanto meno miglioreranno la vita ad alcuno.
Se in questo nostro paese, retoricamente conosciuto come luogo di poeti, santi e navigatori, la poesia si è invece perduta e non ha più quella dimensione popolare (vicina al popolo e soprattutto comprensibile) che esiste in molti altri paesi (arabi, balcanici, latinoamericani, etc.), la responsabilità è anche mia, anche nostra che forse non facciamo abbastanza per riportarla nell’alveo che le compete.
Ripartire dalla morte e dai condannati rinchiusi nei bracci per tentare una rinascita è anche un modo, una metafora per comprendere la natura e le infinite potenzialità della poesia, trasformandola in miccia dirompente, arma di denuncia, linguaggio di liberazione: “potete rinchiudere il mio corpo – scriveva dal braccio di San Quentin il vecchio cherokee Ray “Running Bear” Allen – ma non riuscirete mai a rinchiudere i mio spirito”.
Dallo stesso penitenziario, lo yaqui Fernando Eros Caro, in tre versi descriveva la morte di Stato:
“Si può vivere, si può morire / ma nessuno dovrebbe vivere / aspettando di morire”.
E Joe Duncan, che da Huntsville, in Texas, sfidava la nostra più perfida immaginazione: “Riesci a immaginare un mondo / dove le lacrime sono / l’unico liquido che bagna il suolo / dove il riso di un bimbo è un suono proibito?”.
Poi ancora, nel suo “Ultimo Natale nel braccio della morte”, Charles Culhane ammoniva: “Guarda, le prigioni non sono nel domani, / sono ingiuste / ma il riconoscimento di una cosa ingiusta / non vuol dire nulla / finché non diventa la necessità di correggerla”.
E l’Apache Dean “Orso Nero” Thomas, che illustrava il suo muro del pianto: “Sono davvero io, qui, rinchiuso / oppure lo sono coloro che sentono / la necessità di costruire luoghi come questo?”.
Leggendo e ispirandosi alle parole dei condannati, anche autori e autrici del mondo libero si sono poi uniti al comune viaggio intrapreso con Poeti da morire; come ad esempio Erri de Luca: “Il braccio della morte è un assassino / e il braccio della vita ha il diritto di fermarlo. / Abbiamo apposta due braccia”.
O il cheyenne Lance Henson: “innocenza e colpa non hanno alcun peso / quando i dannati / sono dannati ancora prima di nascere / e non hanno tempo nemmeno per curare / le loro più profonde ferite”.
O ancora il “poeta rosso” Jack Hirschman: “Tu hai scoperto / la vera ragione per cui adesso ti stanno assassinando, / la vera ragione che sa che tu appartieni al mondo dei poveri, / uno dei miliardi di poveri, / e che vai alla morte, sì, innocente / dei loro crimini di eterna pena capitale / che noi, miliardi di tuoi fratelli e sorelle, giuriamo / di non sostenere mai”.
E voglio concludere con questi versi atroci e al contempo meravigliosi di Igiaba Scego, scrittrice italo-somala che non si considera una poeta, ma che ci ha comunque regalato quella che mi confessò essere la sua prima poesia dopo quelle adolescenziali scritte ai tempi di scuola:
CINQUE SECONDI
Morirò tra cinque secondi.
Non mi hanno detto come.
Hanno solo riso. Denti sporchi. Cariati.
Morirò tra quattro secondi.
Hai ucciso un uomo mi hanno detto.
Lo abbiamo trovato sepolto nella sabbia.
Sabbia. Mare. Sono mille anni che non vedo il mare.
Mi chiedo se è cambiato. Se ha sempre quel sapore
assurdo di sale.
Morirò tra tre secondi.
Non ho ucciso nessuno.
Mi credi?
Scappavo. Mille anni fa.
Mi hanno legata.
Stuprata.
Le negre, mi hanno detto,
hanno i capelli crespi e la figa gigante.
Non ho controllato.
Morirò tra due secondi.
Mi hanno processata.
Imprigionata.
Seviziata.
Poi stranamente abbandonata.
Il giorno della sentenza ho cagato.
Fino a star male. Fino a soffrire.
Pesanti mattoni ho cagato.
Pazza negra mi ha detto l’avvocato.
Il pazzo era lui, non ha voluto capire.
Ho cagato speranze.
Possibile che tu non abbia saputo vedere?
Morirò tra un secondo.
Ho sognato Dio ieri notte.
Aveva la pancia grande e le tette di mia madre.
Mi ha regalato un vestito verde e un cd.
Ho messo prima il vestito.
Poi Dio mi ha baciata.
E la musica mi ha riempito.
Reggae.
Ritmo giusto per morire.
Ho ballato. Ho cantato.
Per ore.
Dio batteva le mani.
E io cantavo con la mia vita in testa.
Come on and tell the children the truth.
Dicevo
Come on cantavo.
Poi i secondi a mia disposizione sono finiti.
Ho smesso di cantare.
Ho smesso di ballare.
Mi sono tolta il vestito.
Nuda.
Ho tolto il CD.
Muta.
Ho smesso quindi anche di sognare.
Poi pian piano ho smesso di sperare.
Infine ho smesso di respirare.
Come on and tell the children the truth.
Dicevo.
Marco Cinque