La prima delle lettere marrane non può che partire da Gaza, terra di Nathan da Gaza (1643-1680) seguace di Sabbatai Zevi, il messia apostata, e terra della follia politica e militare, emblema e suggello di altre follie (economiche, pseudo-etniche), tutte lucidissime. Gaza è sola, qualcuno ha scritto in questi giorni ricordando uno dei titoli giornalistici più toccanti dei decenni passati, quel “Praga è sola” con cui Il Manifesto diceva del fallimento di un mondo, quello del socialismo – e del socialismo dal volto umano, in particolare, costruito da Dubček e dai suoi – schiacciato sotto i cingoli dei carri armati sovietici. Gaza e Praga, parole bisillabe in assonanza tonica e quasi in rima: Gaza e Praga sono sole, ma non lo sono – agli occhi dei più- né Aleppo né Baghdad né Tripoli, per questioni metriche, per la narcotizzazione avanzata dell’opinione pubblica e per “campismo”. La solitudine di queste una volta splendide città – e Aleppo lo è stata fino a qualche anno fa, sogno di tolleranza fuori dal tempo, pur nella feroce Siria della dinastia Assad- grida vendetta, e cioè giustizia: è il silenzio, invece, a coprirne le ceneri, o l’urlo delle armi che generano armi e quello delle manovre occidentali-orientali alleate con i tiranni di vari Paesi (Arabia Saudita, Qatar, Iran). È di Latakia, il maggior porto siriano, una delle più interessanti poete dell’attuale scena, Maram al-Masri: poeta indifesa, poeta e donna disarmata, appunto, come i popoli della sua terra straziati da quattro anni di guerra cosiddetta civile e che è invece solo una delle tessere dell’infinita guerra globale in cui siamo. Senza soste, senza tregue perché sono proprie queste, tregue e soste, inaccettabili anomalie nel perfetto ordine bellico. Le guerre sono violate dalle tregue: e questo “chi sta in alto”, per dirla con Brecht, non può permetterlo.
Gaza è sola come Aleppo Baghdad e Tripoli, come Grozny lo è stata e resterà per lunghissimo tempo, come lo sono Kabul e Donetsk, e le immense terre d’Africa stuprate da conflitti per le risorse: qui nemmeno più si contano i morti, a milioni, perché gli esseri umani lì non contano né sono contati. “Les blancs sont contés”, i bianchi sono numerati, ad uno ad uno, donne e uomini, raccontavano amici africani: noi no, pre-individui nella gerarchia razziale tornata a governare le azioni e il pensiero – essi sostenevano il contrario, ovviamente, rivendicando l’appartenenza alla Storia dei popoli d’Africa, per civiltà e capacità di costruzione dell’essere umano all’interno delle specificità di quell’immenso continente. È nell’Africa–preda degli ultimi due secoli che l’individuo è morto per farlo diventare carne da cannone, uccisore ed ucciso dentro uniformi militari perfette: nel caos africano d’oggi, sembrano linde solo queste, e perfettamente oliate le mitragliatrici. L’uniforme che ha de-individualizzato anche l’Occidente nelle immense carneficine delle guerre mondiali (con al centro la guerra civile europea 1914 – 1945) è la stessa: sono le stesse aziende a fornirle, così come le armi. Il totalitarismo bellico è una delle forme più longeve del totalitarismo novecentesco, e potrebbe non avere fine, se non si “caccerà la guerra fuori dalla storia”, come dice Lidia Menapace.
Ma Gaza continua ad essere sola, emblematica follia in cui non c’entrano nulla antisemitismo o antigiudaismo, né l’islamofobia. Fuori luogo sono le parole che continuano a legare le vicende dell’ebraismo (soprattutto novecentesco) con quelle odierne dello Stato di Israele, e fuori luogo soprattutto quelle che battono e ribattono sulla coppia vittima-carnefice, per dire che gli “ebrei”, vittime del nazismo, oggi sono diventati i carnefici, in un rovesciamento che relativizza la Shoah; così come sono fuori luogo le parole che santificano ogni azione del governo israeliano, reso intoccabile da quella che Ivan Segrè ha definito la “reazione filosemita”, nel nostro Paese incarnata da una destra chiusa nel suo fanatismo (Giuliano Ferrara in testa) e nel suo fallimento. Antisemiti ben conosciuti degli anni Settanta-Ottanta, ora sono paladini del cosiddetto “Stato ebraico” in funzione anti-islamica: penso alla parabola di un Borghezio qualunque. L’antisemitismo è stato riportato alla luce da triviali scritte sui muri, apparse ultimamente a Roma (“Giudei, l’ultima vostra ora è giunta”, con firma di svastica), da alcune analisi e invettive diffuse anche a sinistra (uno sconcertante Gianni Vattimo, tra gli altri) e dai disperati comportamenti del sottoproletariato francese di origine maghrebina che trova in un assalto a una sinagoga la soluzione a tutti i suoi mali: niente a che vedere con il clima degli anni Trenta, sia chiaro, ma segnali d’incendio da non sottovalutare.
Eppure: eppure occorrerebbe slegare la vicenda dell’ebraismo, soprattutto dell’ultimo secolo, da quanto sta accadendo da diversi decenni in Palestina e interpretare quest’ultima storia come uno dei tanti casi di elefantiasi di un apparato militar-industriale che si nutre della guerra come gli esseri umani del pane. Il ruolo che gli apparati militari hanno assunto in Israele (il mitizzato esercito Tsahal, cui ha tributato un controverso omaggio Claude Lanzmann) e in tutti i Paesi dell’area, comprese le entità palestinesi sia pure in misura più debole, non possono che generare guerre continue e devastazioni programmate. Uomini in divisa hanno governato e governano, direttamente o per interposta persona, interi Paesi, a volte sotto le vesti di una paradossale e violenta laicità: esercito contro islamisti, in Algeria negli anni Novanta o nell’Egitto di oggi (il modello è l’esercito “laico”, e assassino, dello Stato turco, da Mustafa Kemal a oggi). Se proprio si deve esercitare la comparatistica storica, lo si faccia correttamente, esaminando le strutture profonde che uniscono dei fenomeni, piuttosto che le superficiali onde uguali. Israele è uno Stato senza costituzione e senza confini definiti perché il proprio apparato bellico vuole avere le mani libere per conflitti tendenzialmente eterni per la terra e per l’acqua in cui sperimentare i ritrovati della tecnologia per poi venderli all’estero: inoltre l’estesa durata della leva militare contribuisce a fare di questo Paese uno dei tanti in cui le forze produttive sono volte in gran parte alla difesa del territorio e alla sua espansione. Israele è un Paese militarizzato, non diverso dai tanti Paesi arabi che lo circondano e sul modello della potenza planetaria egemone: gli Stati Uniti d’America. Diversamente dai vicini Paesi arabi, però, esso può godere dell’appoggio economico e dal supporto tecnologico degli USA e dell’Occidente unito che lo rendono invincibile: le guerre di Israele, come quest’ultima contro la Striscia di Gaza, sono sempre più delle esecuzioni di massa, tanto è marcato il divario tra i contendenti, tristemente rappresentato dal numero dei morti. Guerre asimmetriche anche in questo senso, inaugurate dalla prima Guerra del Golfo Persico in cui alle poche centinaia di vittime della “coalizione occidentale” si contrapponevano le centinaia di migliaia da parte irachena, per embargo e bombardamenti. Adriano Sofri si chiese se un conflitto del genere potesse ancora chiamarsi guerra in senso classico: la risposta l’abbiamo oggi. Non di guerre si tratta, nella maggior parte dei casi, ma di terrorismo, di fucilazioni dal cielo, di decimazioni. E attuate con i mezzi più moderni: i droni, per cui –scrive Grégoire Chamayou- un individuo tranquillamente seduto in una basa militare in Nevada può lanciare un missile contro un gruppo “sospetto” in Afghanistan. A Israele questa lontananza, per forza di cose, è negata (per cui possono esserci morti tra i civili anche da parte dei padroni della vita e della morte degli altri), ma la distanza tra i due mondi, Tel Aviv e Gaza, è per tanti versi infinita.
Qui chiudo la prima delle Lettere marrane che con frequenza mensile appariranno su questo blog, se gli amici e le amiche di Potlatch vorranno ancora. La popolazione marrana di Spagna, pur convertitasi al cattolicesimo, conservava ritmi e usanze del vecchio ebraismo (potevano essere scoperti da chi guardava le città dalle colline intorno se i camini delle case non fumavano di sabato…): questo restava acceso nell’intimo dei cuori, e tramandato di generazione in generazione, pronto a riemergere, nella fedeltà non fanatica a una radice sotterranea. Questo marranesimo –nella lettura politica che ne dà Daniel Bensaïd- approvo e vorrei praticare: quello di chi si porta dietro le chiavi di una casa abitata da sempre e ora occupata da altri. Penso ai palestinesi espulsi dalla Palestina dopo il 1948, ma anche a quegli ebrei cacciati dai Paesi del Maghreb dopo le indipendenze degli anni Sessanta, penso a queste follie incrociate – follie che la nostra Europa non dovrebbe guardare dall’alto e con disdegno, visto lo spaventoso Novecento che abbiamo regalato al pianeta, tra Guerre mondiali, colonialismo, Shoah e Gulag, e poi la prepotenza economica capitalistica praticata con furia e sistematica avidità. Le chiavi di una casa che ci è stata sottratta non sono diritto di proprietà offeso, ma radici che si muovono con noi e che si intrecciano ad altre, in attesa di una ricomposizione di tutte le cose, per tutti e per tutte. “Proteggete le nostre verità”, scrive Franco Fortini, e cioè custodite le nostre chiavi di casa e per capire il mondo. Rovesciandolo, come i marrani della “modernità ebraica” del Novecento hanno tentato di fare (Rosa Luxemburg, Franz Kafka, Walter Benjamin, Simone Weil…), come tentò di fare Nathan di Gaza e il suo messia Sabbatai Zevi praticando l’apostasia, e cioè il tradimento e la diserzione, come arma paradossale per accedere a verità più profonde scavando tra le macerie del proprio campo. Ora cessino le bombe criminali su Gaza, in quella che Netanyahu ha oscenamente definito “la guerra più giusta”, e quelle su Aleppo, e le follie di Tripoli e Kabul e Donetsk, e ciascuno-ciascuna riprenda, all’interno del proprio campo, il percorso dell’antimilitarismo, del pacifismo, del sabotaggio della propria parte smontandone – marranescamente, ma da subito – le sciagurate verità.
Gianluca Paciucci