Il vero nemico del capitalismo: il sogno di una cosa. Come ricostruirlo, nel presente,
dal giorno dell’anniversario dell’intervento sovietico in Ungheria.
a Adriano Ottaviani e a Giorgio Stern,
che mi nutrono di idee, nella compagneria e nella diversità
“Si sta combattendo su fronti diversi, spesso celati dal rumore di una falsa informazione. Una guerra che si combatte provocando vittime e dolori ma che resta lontana dalla falsa vita raccontata con cui ci annebbiano la vista. Una guerra contro i migranti, contro chi li sostiene, contro chi come molti di loro è sfruttato e maltrattato, contro chi non dove godere dei frutti della più grande accumulazione di risorse e di capitale, di tutti i tempi…”, scrive Stefano Galieni1. Vi è una guerra contro i/le migranti (quasi 4.000 persone morte nel Mediterraneo, nei primi dieci mesi del 2016, per la pura contabilità), non c’è dubbio, ma anche una strana guerra a favore delle migrazioni, per incoraggiare/obbligare donne e uomini a partire dalle loro terre, guerra gestita da trafficanti di esseri umani.
ODIO MILITANTE
Il principale trafficante di esseri umani, il più subdolo e radicato, è da sempre il capitalismo, con i suoi falsi nemici (nebulose identitarie da noi e regimi pseudo-laici o teocratici, nel Sud del mondo). Scomparso il comunismo su scala planetaria, sistema che garantiva un paradossale, progressivo e spesso criminale equilibrio basato su rapporti di forza giocati a favore degli schieramenti anticolonialisti e anticapitalistici, il dio denaro nella forma assunta negli ultimi decenni è il potere che sposta popoli e individui, trattandoli come merce. I governi europei, e quello italiano con una monotonia avvilente, denunciano il traffico di esseri umani e così nutrono figure su cui riversare l’odio da bar: lo scafista, il passeur, immancabilmente legati a organizzazioni criminali. Figure realmente esistenti, ma anche perfettamente inserite nel ciclo di una produzione capitalistica, ormai globalizzata, che non risparmia nessuno/a, su questa terra. A questo sistema servono falangi di servi, negli Stati Uniti come in Cina, nella Russia di Putin (altra creazione figurale su cui riversare facile odio) come nell’Africa nera, e nelle fabbriche e nelle campagne italiane. Pressoché tutti i prodotti che arrivano nelle nostre case e sulle nostre tavole sono il frutto di quell’economia sregolata e paraschiavistica che è l’economia-mondo. E non esistono commerci equi e solidali che tengano, non esistono produzioni sostenibili. La macchina feroce muta a ogni istante il volto del pianeta fornendo l’illusione di un progresso indefinito, se solo la si lasciasse fare: ma in realtà la macchina può fare tutto, da almeno trent’anni, ha le mani libere, nessuno la intralcia, nessuno la minaccia. E perché allora costruisce guerre e repressioni, inventa false rivoluzioni e veri golpe, manipola il libero voto e insozza il nome stesso di democrazia. Si tratta di un potere che ha nomi e cognomi, per nulla impersonale: si chiamano Clinton e Trump (falsi nemici), si chiamano Blair (criminale di guerra, reo confesso, per l’Iraq, e ora conferenziere miliardario) e Putin (l’Adorato di Le Pen e Salvini), si chiamano Partito Comunista Cinese, con le sue masse di esseri umani chini nelle fabbriche-carceri di tutto quell’immenso continente, ed Unione Europea. E si chiamano consigli d’amministrazione, broker, opinion maker, triviali intellettuali di successo, fino alle ultime rotelline del sistema che veicolano capillarmente la neolingua di cui bisogna servirsi. Le centinaia di migliaia di migranti, cacciati dalle loro terre da guerre, fame e cambiamenti climatici di origine antropica, sono nell’ingranaggio: chi li caccia e chi li accoglie è la stessa mano. Non serve la conta dei salvati 2, non ci salva, e non ci risparmia il sangue risparmiato. Scritto questo, sia lode a chi soccorre, in mare come in strada, e sia versato sterco sui leghisti e i lepenisti d’ogni contrada, e su tutte le popolazioni indignate, più squallide dei loro squallidi leader. Le barricate innalzate in fine ottobre a Goro e Gorino (in provincia di Ferrara)3 contro l’arrivo di profughi (dodici donne e otto bambini…), così come in queste ore a Muggia (in provincia di Trieste: non barricate, per l’amor del cielo, ma presìdi, assemblee infuocate, insulti da trivio postati da brave persone nel web…) sono solo due degli ultimi esempi di non soccorso e di odio militante.
FONDAMENTA DI VIOLENZA
Jean-Luc Godard era solito aprire le sue lezioni di cinema mostrando delle immagini in bianco e nero di paesi e paesaggi sconvolti dalla guerra, e chiedeva dove fossero state scattate: chi rispondeva Iraq, chi la Seconda guerra mondiale, chi altri luoghi del martoriato mondo. Ma la risposta esatta era: Guerra civile statunitense, 1861 – 1865, oltre 600.000 morti, uso di armi automatiche, quelle già sperimentate efficacemente contro i nativi d’America, villaggi e fattorie bruciate, bestiame terrorizzato e razziato. Guerra fondante, a sua volta fondata sullo sterminio sistematico dei nativi4 e alla base di altre guerre lanciate sul fronte interno (contro la classe operaia e i sindacalisti/militanti dell’IWW, oppure contro le Black Panther, nemiche dell’osceno razzismo wasp) ed esterno (contro nemici potenti ed impotenti, spesso ex amici, come Noriega o Saddam Hussein, o sporchi comunisti, categoria molto ampia che ha contato al suo interno onesti liberali nazionalisti, nell’America del Sud e in Iran, oppure i musi gialli giapponesi o vietnamiti, e i nuovi nemici, gli islamo-comunisti, tra Bin Laden e Chavez, categoria perfetta). Guerra che è spesso diventata intima, interiore, intestinale: quanti presidenti o candidati alla presidenza sono stati eliminati in complotti mai chiariti ancor oggi? Tutta la vita politica degli USA è stata ed è intrisa di violenza, ben prima che minacce esterne, o presunte tali, ne mettessero alla prova gli appuntiti nervi. Tutta la vita politica della democrazia statunitense è basata sulla violenza, oggi nella versione liberal di Hillary Clinton, incredibilmente supportata da Bernie Sanders e da Michael Moore, e in quella libertino-reazionaria e isolazionista di Donald Trump. È l’ennesimo falso dualismo della nostra falsissima coscienza: scegliere una liberal di destra, apertamente sostenitrice delle peggiori avventure militari statunitensi degli ultimi anni, nemmeno fosse un afroamericano, premio Nobel per la Pace…; oppure optare per un avvilente miliardario evasore, sessista e razzista, isolazionista in politica estera (cosa che inganna molti, inducendoli a pensare a un ritiro dagli USA dallo scenario mondiale– cosa che non sarà). Trionfo del due, in Occidente, e cioè nel pianeta occidentalizzato: populismi vs liberalismi, la genia degli Orbán, Kaczyński, Le Pen, Salvini, Farage (e Grillo) –miscuglio di vecchie mitologie parafasciste e di nuove istanze generate dalla presunta liquidità del web-, contro quella dei dirigenti liberisti e socialdemocratici, europeisti, nuovisti di ogni novità, a patto che venga salvaguardato il gioco/giogo del capitale, e pronti a guerre su guerre, perfettamente speculari al terrorismo islamista, da questo alimentati. E alleati, i nostri progressisti, dei peggiori regimi: velenosi i rapporti dell’Italia con il regime militare di al-Sisi in Egitto, la cui polizia ha torturato e ucciso centinaia di militanti politici e sindacalisti, e che è responsabile dell’assassinio di Giulio Regeni5; velenosissimi con l’Arabia Saudita, stato teocratico e dittatoriale, cui il nostro Paese vende armi, dai sauditi usate per bombardare lo Yemen, e la splendida Sana’a; squallidi con la Turchia, Paese che, a partire dallo pseudo-colpo di stato dell’ agosto scorso, ha aumentato la sua pressione criminale sui partiti laici, antifascisti/e, giornalisti/e, e sul popolo curdo, oppresso da decenni. È di oggi la notizia dell’arresto dei massimi dirigenti del partito di sinistra HDP (Partito Democratico dei Popoli), ma da mesi la repressione di Erdogan si era scatenata contro ogni opposizione. Però la Turchia è membro della NATO (ma anche ridivenuto buon amico di Putin), ed è intoccabile: è un mastino reso aggressivo dai suoi padroni, contro i curdi di Turchia e di Siria (non bastava Assad…), come Israele nei confronti dei palestinesi. Chi è sconfitto, non merita il sostegno delle democrazie occidentali. Ora si alzerà qualche lamentuccio contro Erdogan, così come contro Netanyahu quando la combina troppo grossa: ma poi torneremo ‘buoni amici come prima’ (scriveva, in romanesco, Trilussa). A scambiarci sistemi di sicurezza e armi, e a celebrare i nostri putridi rapporti di amicizia tra Stati-canaglia.
SENZA UN NEMICO CREDIBILE
Scriviamo nel sessantesimo anniversario dell’ingresso dei carri armati sovietici a Budapest per reprimere nel sangue la rivolta del popolo ungherese. Una rivolta dai molti volti, ma che è stata, riteniamo, “l’ultima rivoluzione dei consigli operai”6, volendo tracciarne un ritratto da sinistra e non farci coinvolgere nella melma della realpolitik che vedeva e vede, in ogni critica al proprio campo, un oggettivo sostegno all’avversario: mentalità diffusissima, ancora oggi, nelle piccole storie di gruppi della società civile (associazioni, circoli, comitati), nei luoghi di lavoro, nelle famiglie di pensiero, tutti e tutte legate strette a ridicole forme di ortodossia che ostacolano la libera circolazione delle idee e il confronto. Il ’56 fu rivoluzione antistalinista, fu rivoluzione di operai/operaie e studenti, fu la rivoluzione di Nagy e di Lukács, che prospettavano un’uscita a sinistra e profondamente democratica dalla crisi formidabile dello stalinismo conclamata quello stesso anno, in febbraio, con il XX congresso del PCUS. Altri analizzeranno questo passaggio sotto lo stretto profilo storico-politico, mentre qui ci limiteremo a qualche considerazione, marginale ma non troppo, e coerente con il nostro assunto di partenza. È in quest’anno che il nemico realizzato del sistema capitalistico cominciò a mostrare le sue crepe più vistose. Non che prima non se fossero viste (anche sanguinose, però coperte dal manto della Resistenza contro il nazifascismo), ma certo la repressione dei moti d’Ungheria, replicata appena dodici anni dopo dalla repressione della Primavera di Praga, diedero un colpo durissimo alle speranze di un mutamento dall’interno del sistema. Il capitalismo mostrava il suo peggiore volto: i fatti di Suez, e le guerre postcoloniali nel sud-est asiatico e in Algeria, erano lì a dire di come il sistema voleva risolvere le più acute contraddizioni. In maniera speculare i T34 sovietici fecero l’ingresso a Budapest senza pietà: senza pietà per i corpi, straziati e maciullati da un esercito fratello, senza pietà per il socialismo. Qui cominciò a sgretolarsi il nemico. Reazioni ce ne furono, in occidente, nella sinistra occidentale: ricordiamo in Italia le posizioni di Fabrizio Onofri e di Antonio Giolitti, il “Manifesto dei 101”, alcuni testi di Franco Fortini, tra cui “4 novembre 1946”: “Il ramo secco bruciò in un attimo. / Ma il ramo verde non vuole morire. / Dunque era vera la verità. / Soldato russo, ragazzo ungherese, / non v’ammazzate dentro di me. / Da quel giorno ho saputo chi siete: / e il nemico chi è.” Ma furono poche, sparute, subito sconfitte. Anche i partiti comunisti persero l’occasione per trasformarsi non in pallide e complici socialdemocrazie –come poi necessariamente accadrà-, ma in rinnovati organismi di critica e organizzazione dentro un capitalismo feroce persino nella sua fase gloriosa, di trionfo di quel welfare state di cui ancora oggi godiamo, in Europa occidentale, gli ultimi dolci e avvelenati frutti. Terribili momenti. Ancora Fortini: “Sempre sono stato comunista. / Ma giustamente gli altri comunisti / hanno sospettato di me. Ero comunista / troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi. / Giustamente non m’hanno riconosciuto…” (“Il comunismo”). Quanti comunisti non sono stati riconosciuti dallo stalinismo imperante? Penso a milioni di donne e di uomini spazzati via, in tutto il mondo (e penso anche non alle verminose forze della reazione, ma agli anticomunisti sinceri, che avvertivano il pericolo e lo segnalavano con le loro vite mandate al macero). Pensiamo a Babel7 e a Mejerchol’d8, pensiamo ad Ante Zemljar rinchiuso a Goli otok, penso agli ungheresi Tibor Tardos, Gyula Háy e Tibor Déry (ne leggiamo alcuni scritti nella “Irodalmi Ujság”, la Gazzetta letteraria del 2 novembre 1956 in una preziosa edizioncina Laterza del 1957), e l’elenco sarebbe infinito. Qui cominciò a morire il nemico più formidabile del capitalismo, e non cessò di morire fino al biennio 1989 – 1991, e muore ancora ogni giorno in molte e molti di noi, in noi marrane/i affannate/i a risollevarne il nome, perché ne sentiamo l’intima necessità, che è necessità politica ed esistenziale.
EPPURE MANCA
Eppure manca, manca il comunismo, quello di cui parla lo storico Jean-Jacques Marie, collaboratore de ‘La Quinzaine littéraire’, alla fine del suo eccellente libro su Lenin: “…Il pensiero di Lenin è, in realtà, attualissimo. Il capitalismo ha assunto le caratteristiche da lui descritte in L’Imperialismo, fase suprema del capitalismo come esiti della proprietà privata dei mezzi di produzione: subordinazione completa del capitale industriale a quello bancario; distruzione delle forze produttive a causa di una deindustrializzazione sempre più rapida; sviluppo eccezionale d’una speculazione finanziaria che non corrisponde più a alcuna produzione di merci, e d’un capitale fittizio sotto forma mafiosa; deperimento di ogni istituzione democratica in favore di organismi dittatoriali (dal Fondo Monetario Internazionale ai Commissari dell’Unione Europea) che mandano in completa rovina alcuni settori e Paesi interi con i loro ‘piani di aggiustamento strutturale’ al fine di nutrire gli appetiti insaziabili dei mercati finanziari; svalutazione sistematica della forza-lavoro e del suo prezzo; liquidazione dei diritti sociali strappati dal movimento operaio; messa in discussione degli Stati-nazione e ritorno a regioni di tipo feudale; saccheggio distruttore del mondo intero ad opera dell’imperialismo statunitense che tenta di mettere al potere ovunque i suoi lacchè sotto il pretesto d’un libero scambio sottoposto ai suoi interessi e il cui esercito, per imporlo, è accampato ovunque nel pianeta, dal Giappone alla Colombia…”9. Lunga, devastante descrizione del nostro presente (inoltre dal 2004, quando Marie scrive, a oggi la situazione si è ulteriormente complicata), descrizione che fa emergere un’assenza: quella di una forza, oppure di forze plurime, che sappiano contestare e contrastare, fino a rovesciarlo, l’odierno stato delle cose. Questo rovesciamento potrebbe ricominciare ad avvenire attraverso il sogno di una cosa che, non più sognato, sta trascinando l’umanità in un sonno di morte. Questo sogno di una cosa è il nemico vero da ricostruire. A questo lavorano le nostre Lettere marrane.
Gianluca Paciucci
4 Novembre 2016
* Le foto sono di Gianluca Paciucci
1 Stefano Galieni, “La guerra invisibile sulla pelle dei migranti”, 4 novembre 2016, http://www.zeroviolenza.it/editoriali/item/74329-la-guerra-invisibile-sulla-pelle-dei-migranti?utm_source=sendinblue&utm_campaign=Newsletter_Zeroviolenza_27_ottobre&utm_medium=email
2 Anna Bravo, “La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet”, Laterza, Roma-Bari, 2013, pp. 245. È un libro generoso, ma a tratti sconcertante, come quando l’autrice tesse le lodi di guerre evitate, sul suolo europeo, grazie a nuove spartizioni coloniali. Emblematica la risoluzione della crisi relativa al Marocco, nel 1911, che rimandò di qualche anno lo scoppio tra le potenze europee predatrici grazie al fatto che “Parigi ottenne il riconoscimento sul protettorato [del Marocco, nota di chi scrive], Berlino alcuni territori appartenenti al Congo francese” (pag. 25). Francamente desolanti, però, alcuni passaggi in cui vengono assolti i potenti della terra che invece d’essere “malefici guerrafondai, come vuole un potente luogo comune, appaiono, spesso, negoziatori più o meno efficaci, a volte incapaci” (pag. 27); in quest’ottica “il sistema internazionale non necessariamente produce conflitti, al contrario ha un potenziale stabilizzante” (pag. 27). Come infatti non dimostra il sistema (capitalistico) internazionale, senza rivali plausibili negli ultimi decenni, che si regge in sereno equilibrio su montagne di cadaveri e distruzioni irreparabili.
3 per un commento come sempre acutissimo, rimando a Annamaria Rivera, http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-barricate-caserecce-di-gorino-e-gli-imprenditori-politici-del-razzismo/ , che così conclude: “…se vale la pena di parlare del caso Gorino (e dei tanti simili sparsi per la Penisola) è perché esso illustra in modo esemplare non già il popolare teorema, infondato, della ‘guerra tra poveri’, bensì una tesi che sosteniamo da lungo tempo. Per dirla in breve, il razzismo popolare è, in fondo, rancore socializzato: l’insoddisfazione e il risentimento per la condizione che si vive, il senso d’impotenza e di frustrazione di fronte alle trasformazioni della società e alla crisi economica, sociale, identitaria sono indirizzati verso capri espiatori, grazie all’opera svolta dagli imprenditori politici e mediatici del razzismo.”
4 vedi per un quadro d’insieme l’ottimo libro di David E. Stannard, “Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo”, Bollati Boringhieri, Torino, 2001 (ed. or. 1992), pp. 455. I padri fondatori, Washington, Jefferson, Jackson si espressero con violenza criminale. Il raffinato Jefferson, intellettuale classicheggiante, affermò che il Governo statunitense era obbligato “a perseguitare i nativi fino allo sterminio”. Questo accadde. Come insegna il caro amico Giorgio Stern, hanno perciò ragione i nativi d’America quando affermano che “noi il terrorismo lo combattiamo da 500 anni”, dal 1492: terrorismo bianco, euroamericano, implacabile.
5 Giulio Regeni, un giovane ricercatore originario di Fiumicello, un paese non lontano da Trieste, venne rapito il 25 gennaio 2016: il suo corpo senza vita e con chiari segni di tortura, fu poi ritrovato il 3 febbraio. Dell’assassinio sono sospettate le forze dell’ordine del regime egiziano. Striscioni di Amnesty International con su scritto “Verità per Giulio Regeni” sono in tutta Italia, ma soprattutto nella Regione di Trieste. Sul Palazzo del Comune di questa città, invece, lo striscione è stato rimosso in ottobre per decisione della giunta di estrema destra (berlusconiani, Lega, cattolici tradizionalisti) che ora governa la città. Il sindaco, tale Dipiazza, ha affermato che rimuovendo lo striscione si “è tolto un dente cariato”, così “ora non ci sono più problemi”(http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2016/10/08/news/il-sindaco-dipiazza-rimuove-lo-striscione-per-giulio-regeni-1.14215879). Questo il repellente sindaco di Trieste, eletto da un popolo vile e avvilito.
6 pag. 12 in “L’indimenticabile ‘56”, numero speciale della rivista Micromega, 9/2006. Importante anche il n° 29 della rivista Athenaeum, “Al bivio del ’56. Letteratura, cultura, critica”, a cura di Sandro de Nobile, Solfanelli editore, 2016. In questo numero di Athenaeum segnaliamo il saggio di Gianni Cimador “Il 1956 e l’ ‘ostinato rifiuto’ di Franco Fortini”.
7 ancora Fortini: “…se non sapete dire / perché abbiamo fatto morire / Babel e gli altri; e chi ha in noi premuta, / vent’anni, la sua bocca; // non parlate, non scrivete / prefazioni, non dorate / quei nomi per la pietà…” (‘Per le opere di Isaac Babel, a I. Ehrenburg autore della prefazione’ – prefazione “reticente”, è scritto in nota).
8 su quest’ultimo, un volume a cura di Fausto Malcovati, “Vsevolod E. Mejerchol’d. L’ultimo atto. Interventi, processo e fucilazione”, La casa Usher, Firenze, 2011, pp. 233. Scrive Mejerchol’d nella ritrattazione delle sue dichiarazioni, estorte sotto tortura nelle carceri di Stalin: “…Qui mi hanno picchiato –un vecchio malato di sessantacinque anni: mi mettevano sul pavimento con la faccia in giù, picchiavano con un cordone di gomma sui talloni e sulla schiena…” (pag. 212). Un “vecchio di sessantacinque anni”, il comunista Mejerchol’d, uno dei più straordinari registi teatrali di tutti i tempi.
9 pag. 473 in Jean-Jacques Marie, “Lénine. 1870 – 1924”, Balland, Paris, 2004, pp. 504.
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