“…la gente persa e derisa che ride e non osa…” (Franco Fortini)
Questa lettera marrana nasce attorno a un mio libro di poesie, Rictus delle verità sociali 1, e me ne scuso. Un libro di poesie e immagini: le fotografie di Guido Penne che mi ritraggono in fauno (e “Faunoterapia” è intitolata la serie di immagini, terapia del Fauno per uscire dal suo stato selvatico e terapia che si serve dello stato faunesco per far uscire l’essere umano dalla brutalità della vita quotidiana) e, per finire, uno scherzo poetico dedicato a Osip Mandel’štam, con in mente il Gadda che, nella Cognizione del dolore scrive: “l’io è il più lurido di tutti i pronomi…” (ma ce ne sono altri di pronomi luridi, ad esempio il Noi del capolavoro antitotalitario di Evgenij I. Zamjatin – o forse sono luridi tutti i pronomi dal momento che sostituiscono persone e cose, privandole di ogni diritto). Un libro che contiene nel titolo due opposte prospettive, due direzioni, oggi unite nella miseria del presente: il “rictus”, innanzitutto, ovvero una contrazione spasmodica dei muscoli facciali che provoca l’apertura della bocca in un sorriso forzato (leggo da un dizionario). Questa contrazione, questo spasmo è il tempo in cui viviamo, è il blocco delle prospettive storiche, è la corazza che ci si stringe addosso –“corazza caratteriale”, avrebbe detto Wilhelm Reich, corazza societaria, corazza di forza-, estenuandoci. “Rictus”, ho poi scoperto, ha la stessa targa automobilistica della mia città d’origine, Rieti: RI, Rictus di Rieti, buio nelle strade, nessun percorso leggibile in superficie, nessun malessere né inquietudini capaci di produrre pensiero critico, qualche semaforo a specchiarsi in pozzanghere, qualche giovane che parte e fa fortuna altrove, mentre lì restano banche e mafie a godere della serenissima vita di provincia. In secondo luogo, il “rictus” è quello delle “verità sociali” del dolce inno anarchico “Addio Lugano bella” di Pietro Gori, in un magazzino linguistico che è quello dei poeti della rivolta, Rapisardi, Cavallotti e il grande Lucini: verità impigliate nella rete che tutti ci ha pescato, mentre provavano/provavamo a fuggire. Dopo questo tentativo (i numerosi tentativi dei due secoli passati), può la verità restare in piedi e suggerirci ancora percorsi da intraprendere? La scommessa del libro è questa, credere nell’illusione che la verità, logorata e avvilita dalla nostra spossatezza a raggiungerla, sia là ad attenderci, alla fine di un percorso accidentato, alla fine di una costruzione la cui responsabilità è soltanto nostra. Guardo le guerre, i terrorismi, le ingiustizie sempre più profonde e beffarde (la loro risata ci seppellirà, ci seppellisce ogni giorno): ecco il livido percorso ma, al tempo stesso, anche l’occasione di uscirne integri e liberi –e segnati, certo.
Le “verità sociali” sono depositate nei galeoni affondati in un oceano o in un piccolo mare di provincia: sono le corde delle vele finite sul fondo delle acque dopo un naufragio, sono le vene che lì ancora pulsano e che solo, come vecchio oracolo o sibilla, andrebbero interrogate perché possano, una volta tirate a riva, diventare corde per funamboli e acrobazie, per donne e uomini d’un circo d’oggi che si reggano per mano in equilibrio e riprendano il cammino interrotto dallo spasmo. Senza queste corde (e carte) segrete niente potrà ricominciare a scorrere e a camminare nel vuoto o, meglio, nel pieno del passato. L’errore violento commesso soprattutto nell’ultimo trentennio, è stato quello di ridurre queste corde a sedimenti incrostati di un’epoca subito antica, gloriosa e luttuosa, in cui i lutti (la morte inferta e subita) di gran lunga sarebbero più numerosi dei parti gioiosi; un passato in ogni caso irricevibile, di cui pentirsi e dolersi (“…mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati…”, nell’Atto di dolore), nel linguaggio parareligioso oggi usato e che ha minato le parole della politica. Questo ci hanno detto, e lo hanno spiegato benissimo, nelle stanze falsarie dei media e nelle autostrade informatiche. E noi chini e chine –sia pure nell’ostinazione di un’azione continua e a volte ricca di sorprendenti sentieri nel bosco-, quasi convinti/e che forse hanno ragione loro, i padroni del tempo. Aver accettato questa frattura tra il passato e il presente è stato quanto di più terribile e funesto ci sia capitato. In fondo si tratta dello scontro esemplare tra due possibili interruzioni della storia: quella ordinaria che il capitalismo (compreso il capitalismo di stato) realizza mettendo al lavoro falangi di donne e uomini in ogni parte del pianeta, all’interno di una macchina sempre più oliata e impersonale capace di travolgere ogni cosa incessantemente, progressivamente (orribile il progresso che divora, forse la faccia più lurida del tempo, che divora e genera guerra); e quella messianica capace invece di annunciarsi e di accadere oppure, meglio, capace di suggerire percorsi, capace di darci particelle d’oro d’un futuro a portata di mano, che sono però solo anelli cui reggersi per volteggiare in attesa, sulle corde di cui sopra, riportate a riva.
Messianesimo e storia, preferibilmente con messia bizzarri e impresentabili –come il “messia apostata” Shabbatai Tzevi- che irrompono e squarciano il velo del reale. E questo reale è fatto di trappole, di continue dissacrazioni, profanazioni di tombe e templi (anche non frequentati da divinità). Scrive Walter Benjamin nella sesta delle “Tesi di filosofia della storia” (1940): “…anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se questi vince. E questo nemico non ha smesso di vincere…”. Scoprono le tombe, impalano cuori, devastano, saccheggiano: Occidente e Oriente insieme, vanno a caccia di sepolture per impedire che esca dai corpi lì distesi, oppure dalle ceneri disperse, la parola che unisce e protegge, “la parola che illumina e che giova”, come in un verso del triestino Giuseppe Amedeo Tedeschi (1881 – 1957) 2. Si stupiscono del fatto che oggi le armate criminali del califfato islamista devastino meravigliose città morte e distruggano musei, e gridano “sono peggio dei nazisti” (così titola a nove colonne Il Giornale dell’arte) 3. Ma in modo più cupo interviene Domenico Quirico in un articolo intitolato “I provvidenziali furti d’arte dell’Occidente” 4 con una tesi aberrante già dall’incipit: “Di fronte all’avanzare del blasfemo piccone del miliziano islamista è arrivato, forse, il momento si smontare uno dei recenti rimorsi dell’Occidente, l’aver cioè saccheggiato le antiche civiltà per trasformarne testimonianze di pietra, di marmo, di sabbia in musei, i nostri musei (…). L’idea di estrarre dalla sabbia il passato per conservarlo e rileggerlo nei suoi oggetti è un’idea occidentale: come la democrazia e i diritti dell’individuo…”. Quirico interpreta la storia del mondo come quella di una nitida linearità in cui l’Occidente, con la debita maiuscola, sarebbe la culla d’ogni bene apparso sulla terra, culla e scopo: questa sì che è un’idea totalitaria! Basandosi su un negazionismo di fondo –di tutti i crimini dell’Occidente (accettando questa categoria dagli ambigui confini)-, essa rilegge il passato in modo unilaterale e conformista. Dalla presunta altezza dell’attuale nostra civiltà, tutto il passato viene ridotto a una sequenza di barbarie la quale altro non aspettava che l’arrivo dei nostri, militari / mercanti / missionari e, infine, provvidenziali ladri d’arte per ottenere un senso, per dotarsi di senso. La tesi, ripeto, è aberrante perché potrebbe sfociare, e di fatto così è, in un passo ulteriore rispetto al negazionismo: cioè nel giustificazionismo di ogni atto compiuto dai nostri nel passato e, di conseguenza, nel presente.
I crimini del colonialismo, gli atti scellerati di sovrani cattolicissimi (il belga Leopoldo II, ad esempio), le Guerre mondiali, i campi di sterminio nazisti (sono anche questi Occidente, oppure no?), gli assassinii mirati e i colpi di stato dell’epoca postcoloniale, lo sfruttamento delle risorse, la devastazione di intere regioni scavando e abbattendo, la guerra al napalm in Vietnam (è anche questa Occidente, oppure no?), la brevettazione del vivente, e via discorrendo: tutto questo viene ormai nei fatti accettato ed accolto come dovuta difesa di chi solo ha il diritto di difendersi, anche preventivamente, dai crimini futuri che le popolazioni, opportunamente massacrate, avrebbero di sicuro commesso. Quanta protervia, quante approssimazioni! In Congo di David van Reybrouck 5 si leggono i crimini spaventosi degli sgherri di Leopoldo II che, dal 1885 al 1908, gestì il Congo come un’immensa proprietà privata: centinaia di migliaia di vittime, episodi di sadismo graziosamente occidentale, rapina delle risorse (avorio e caucciù), scempio del territorio. In questo straordinario libro a un certo punto si legge: “…Alcuni missionari distrussero in questo modo migliaia di feticci…”, e subito il pensiero va alle immagini iniziali del bellissimo Timbuktu (2014), film di Abderrahmane Sissako, in cui fanatici islamisti distruggono a colpi di mitra alcune statue votive lignee nella splendida città maliana. Da chi hanno imparato questi ultimi? L’opera di chi stanno portando a compimento? Ma tornando dalle nostre parti, quante chiese sono state ridotte a bivacco di soldataglia nella storia degli ultimi secoli, quante altre sventrate da bombe negli immani conflitti della “guerra civile europea” (1914 – 1945) del Novecento, quanti monaci passati per le armi in rappresaglie stolte e sanguinarie (i duemila monaci copti uccisi dai fascisti italiani il 21 maggio del 1937 a Debra Libanos, in Etiopia, i buddisti in Vietnam appena ieri e oggi in Tibet – in altri Paesi sono i monaci a devastare e a opprimere). Il nostro Occidente non ha fatto in tempo a cominciare a ragionare sulla propria storia che si è già assolto per poter proseguire nel massacro solito, qui e ora: anche attraverso questa autoassoluzione passa la riconferma del dominio presente. Orrore delle religioni costituite, orrore della religione del capitale e dei suoi falsi nemici, orrore degli Stati moderni, coscrizione e guerra obbligatorie (ce lo ha insegnato più di tutti un monarchico, George Bernanos, con tutte le sue furie e ambiguità).
Perché una cosa ha dimenticato Domenico Quirico nel suo elenco dei grandi trionfi dell’Occidente: al museo, alla democrazia, ai diritti dell’individuo, si devono aggiungere il pentimento e il rimorso, da cui intellettuali serventi vorrebbero ora liberarlo per poter consentire il dominio incontrastato e perenne. Parole strane: parareligiose, le ho definite prima, insieme ad altre come tramonto, declino, decadenza che segnano percorsi intellettuali che da Spengler e Rilke (infinito poeta, peraltro) arrivano ai poveri epigoni d’oggi, un Éric Zemmour o un Michel Houellebecq (narratore a lunghi tratti banale, peraltro). Questi ultimi dicono che l’Occidente è in declino perché femminilizzato 6, perché svirilizzato, senza palle (espressione ridicola, in bocca a troppi e a troppe), grazie soprattutto alla ferocia degli ultimi vent’anni di femminismi trionfanti –ma allora, perché l’Occidente sarebbe stato in decadenza già tra fine Ottocento e inizio Novecento?, sempre colpa delle donne e degli omosessuali?-, e sostengono che l’Islam acquisterebbe potere e conversioni grazie alla forza del sesso maschile, del fascinum sguainato: “…Il sogno femminista si è sostituito al sogno comunista. Si sa come finiscono questi sogni. Nel resto del mondo, non si è a questo punto. Gli americani, i cinesi, gli indiani, gli arabi, i russi adottano la forza, la violenza, la guerra, la morte, la virilità. Al di fuori del mondo occidentale, siano musulmani, buddisti o indù, gli uomini difendono gelosamente la loro egemonia, come un tesoro, e rifiutano di allineare lo status delle loro donne a quello delle europee…” 7. Islam da ammirare, dunque, come tutti coloro ancora non asserviti alla dittatura piagnucolosa e svenevole che ci opprime… Confusione e miseria di intellettuali: non varrebbe la pena occuparsene, se l’autore non fosse ovunque a difendere il suo credo. Ma di quale rimorso, di quale pentimento tutti costoro parlano? Si tratta di categorie morali che accompagnano quello che è, invece, il momento di massimo splendore dell’Occidente: militarmente imbattibile, economicamente potentissimo (ripeto, ha messo al lavoro tutto il pianeta, come in un vero regime schiavista) ma psicologicamente fragile, dicono. Ecco, iperpotenza dell’Occidente e sua decadenza proclamata da letterati, filosofi, gazzettieri: però le due cose vanno insieme da quasi due secoli e l’una sostiene e sprona l’altra. Messo al lavoro è anche il proprio declino, è anche il proprio tramonto. Il fatto di essere in apparente crisi non si concluderà in una resa, anche tranquilla, all’Islam, come pronostica Houellebecq nel suo Sottomissione, ma in un rinnovato trionfo capitalistico sulle ceneri di popoli e città, con milioni di morti 8. Gli schizzi di sangue che arrivano fino a noi possono essere tranquillamente gestiti e deviati dai potenti inaccessibili, dalle classi da essi favoriti e dalle polizie che oscillano tra lassismi sconcertanti ed efficacissime repressioni.
Per tornare là da dove è partita questa quinta “Lettera marrana”, eccomi di nuovo a quelle corde profonde del canto politico e sociale che legano la poesia della rivolta tra fine Ottocento e inizio Novecento ai versi dei grandi delle ‘trenta gloriose’ (1945 – 1975), Franco Fortini e Amelia Rosselli soprattutto, qui in Italia, per approdare al terzo millennio dell’era comune. Scrive Fortini: “…ora ci tocca ringraziare / di non portare frutto, di non vedere ogni giorno / crescere i nostri errori negli occhi di un figlio / se questa è la folla che porta le mie verità // la gente persa e derisa che ride e non osa.” (‘Decennale’, 1955). Scrive Amelia Rosselli: “…Il fondo della giornata è quella / hanno voluto celebrare il / quinto anniversario della vittoria / hanno convinto perfino te che tu sei andata / ad annegare, tutti / attorno non vincevano, ma perivano…” (in “Documento”, 1966 – 1973). Decennali, anniversari, celebrazioni: questo è avvenuto, per più di quarant’anni. Celebrare una vittoria che non c’era stata, o che è stata subito sfregiata come una tela in un museo mal sorvegliato. Un’illusione di vittoria, nella stagione del ‘compromesso socialdemocratico’, una narrazione bloccata anch’essa in un rictus, fino al brutto risveglio degli anni Ottanta: quelli delle corde ancora più a fondo tagliate (comprese le corde vocali), quelli dell’impoverimento e dell’esplosione del mondo attorno, quando vecchi nazionalismi e vecchi fascismi, rinati dalle macerie dei comunismi reali, ripresero a danzare, e ancora oggi volteggiano. Ora, in questo 2015 iniziato con gli spari di Parigi, poi in Nigeria e a Tunisi, con le guerre incistate in Ucraina, Iraq, Afghanistan, Siria e Libia, con fughe e deportazioni nuove, e con il capitale trionfante che su tutto questo mette la sua bandiera di sangue e di profitti, come riprovare a sciogliere lo spasmo delle “verità sociali” così a lungo trascurate/oscurate? Forse con il canto continuo, con la pratica sociale di vite ed esperienze alternative, con la forza pulita di un quotidiano alzare il capo e insorgere, persino episodicamente zitto e nascosto, ma pieno di entusiasmo, sempre. È l’entusiasmo il grande assente, nell’atonia del disfarsi e arrendersi al presente, troppo spesso facendo pagare ad altri queste nostre stanchezze e disillusioni. Con l’operare entusiastico e fedele si potrà arrivare al giorno in cui la realizzazione sarà compiuta senza che nessuno di noi se ne sia accorto; il giorno in cui il Messia, come è scritto in Kafka, sarà arrivato dopo il suo stesso arrivo, quando non ci sarà più bisogno di lui. Egli o Ella troverà la tavola imbandita a festa, da tutte e tutti noi preparata con il lavoro comune.
Gianluca Paciucci
1 Gianluca Paciucci, Rictus delle verità sociali, Infinito editore, Formigine (MO), 2015, pp. 96; prefazione di Francesco Improta e fotografie di Guido Penne.
2 Giuseppe Amedeo Tedeschi, Particelle d’oro, Mosetti, Trieste, 2014, pp. 108.
3 Edek Osser, “Sono peggio dei nazisti”, Il Giornale dell’arte, anno XXXII, n. 351, marzo 2015, in prima e a pagina 8.
4 La Stampa, 11 marzo 2015.
5 Feltrinelli, Milano, 2014, pp. 674 (ed. originale olandese 2010).
6 Éric Zemmour, Sii sottomesso. La virilità perduta che ci consegna all’Islam, Piemme, Milano, 2015, pp. 143. Interessante la storia del titolo di questo libercolo: il titolo originale è “Le premier sexe”, Denoel, 2006, che diventa nella prima edizione italiana “L’uomo maschio”, Piemme, 2007, e assume l’attuale titolo solo nell’edizione italiana del 2015, forse per sfruttare il successo del ben più valido Sottomissione di Houellebecq? Presunte epiche battaglie miste a mezzucci di infima categoria, perché due copie in più bisogna pur venderle e rivenderle. Intanto Zemmour, come altri, imperversa nei media francesi ed è invitato anche in Italia per conferenze e dibattiti, puntualmente dicendosi perseguitato da uno stato totalitario retto da donne e omosessuali. Si spacciano per intellettuali politicamente scorretti, quando invece sono spacciatori di conformismo. Una stroncatura mirabile di Sottomissione è “Ma gueule de métèque [La mia faccia da straniero]” –ricordando Georges Moustaki, ebreo corfiota dai mille sangui- di Natacha Andriamirado, in La nouvelle Quinzaine littéraire, n° 1124, 16-31 marzo 2015, che così conclude (traduzione mia): “…Houellebecq ha detto che Marine Le Pen non aveva bisogno del suo libro per far passare le proprie idee. E noi…con le nostre facce da stranieri, ne avevamo bisogno?”.
7 Zemmour, cit., pag. 140.
8 Scrive Tommaso Di Francesco: “Sono un milione e 300mila le vittime delle ‘nostre’ guerre al terrore dopo l’11 settembre 2001, in Afghanistan, Iraq e Pakistan: parlano da soli i dati del rapporto di alcuni organismi internazionali indipendenti, tra cui il prestigioso ‘International Physician for the Prevention of Nuclear War’, Nobel per la Pace nel 1985. Cifre per difetto: sono infatti esclusi i conflitti più recenti di Libia, Siria e l’ultima a Gaza…” (“Noi più dei tagliagole”, Il Manifesto, 5 aprile 2015).
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