Al tempo del coronavirus, colpevolizzazioni e angelizzazioni eternizzano il presente. Chi si rivolta e muore, non può che essere cancellato. Definitivamente.
“…ciò che deve essere superato, deve essere raccontato…” (Christa Wolf)
Non siamo in guerra, dicono gli spiriti più progressisti e le anime pie (i reazionari, invece, gioiscono dello stato di guerra). Certo, qui non siamo in guerra: c’è solo morte senza causa o con causa invisibile. E c’è senso di morte, come da tempo non si provava in Occidente, quell’Occidente che ha rimosso la morte, che l’ha spinta ai margini del suo mondo, quell’Occidente per cui i suoi morti valgono infinite volte quelli degli altri. Les blancs sont contés, i bianchi sono numerati, a uno a uno, noi no (disse un saggio africano, in Costa d’Avorio, al caro amico Enzo Barnabà). Quell’Occidente che può uccidere, ma non venire ucciso: ai margini, solo ai margini la morte può mietere, come è abituata a fare da sempre. E così qui non c’è guerra ma solo mancanza di vite. Da qui partono sanzioni, embarghi, blocchi economici contro popoli innocenti e si muovono flotte per farli rispettare; da qui partono gli aerei e i droni che dicono di voler fare giustizia, ma che causano distruzioni formidabili: da qui parte la distruzione del pianeta con la diffusione di un modello economico terribile perché onnivoro. Non che altri modelli abbiano mostrato efficienza e rispetto: il fallimento delle economie pianificate è sotto gli occhi di tutti; altri modelli hanno corto raggio. Ma mai si era visto un tale accanimento, un tale perseverare nell’odio contro la vita che inoltre (è qui il capolavoro) si spaccia per cura: il compromesso socialdemocratico del secondo dopoguerra ha dato lunghe speranze di vita a popoli a patto che ne accettassero le guerre e gli asservimenti ai margini. Per la prima volta nella storia dei governi non hanno, apparentemente, fatto la guerra ai propri popoli, anzi li hanno cullati e curati. Poi qualcosa si è incrinato e tutto è tornato nella normalità: sono i popoli, anche i popoli bianchi, che devono capire di aver vissuto al di là delle proprie possibilità, di aver speso troppo, di aver goduto di un benessere immeritato (questo ci ripetono). Ed ecco altre cure, sotto forma di violenza economica, tagli alla sanità e all’istruzione pubblica, lotta al lavoro per l’asservimento di nuova generazione.
COLPEVOLIZZAZIONI
Così è iniziata l’era delle colpevolizzazioni che, in questi giorni di pandemia, sta giungendo al suo culmine. “Una delle strategie più efficaci messe in campo dai poteri forti durante ogni emergenza consiste nella colpevolizzazione delle persone, per ottenere dalle stesse l’interiorizzazione della narrazione dominante su ciò che accade, al fine di evitare qualsiasi ribellione verso l’ordine costituito…”, scrive Marco Bersani1, e continua: “…Un sistema sanitario come quello italiano, fino a un decennio fa tra i migliori al mondo, è stato fatto precipitare sull’altare del patto di stabilità: tagli da 37 miliardi complessivi e una drastica riduzione del personale (46.500 fra medici e infermieri), con il brillante risultato di aver perso più di 70.000 posti letto, che, per quanto riguarda la terapia intensiva di drammatica attualità, significa essere passati dai 922 posti letto ogni 100mila abitanti nel 1980 ai 275 nel 2015…” Cure da cavallo, come si suol dire, contro l’unica cura possibile: preservare la vita ed accompagnarla dalla nascita alla morte, per noi gettati su questa terra (Heidegger). Se foste entrati in un ospedale in tempi precedenti al coronavirus, in un pronto soccorso: avreste visto lo scandalo di corpi su corpi gli uni sugli altri, lunghissime ore di attesa, lotteria dei codici, servizi igienici al di sotto di qualsiasi dignità e sicurezza, veicolo di quelle malattie che si dicono, con termine dotto, iatrogene, e cioè causate dalle stesse modalità della cura. Ma al termine della lotteria, alle cinque del mattino, magari, ecco la visita: portate/i in reparto da infermiere/i stanchi a uno dei due medici che hanno retto le urgenze di un centinaio di persone in una media città del nord. Personale medico che viene subito, e a ragione (nel contesto dato), angelizzato, eroicizzato. L’angelizzazione e la colpevolizzazione sono le due forme della narrazione dominante contemporanea: vengono angelizzati e colpevolizzati gli stessi che, in forme diverse, sono vittime di ben riuscite trame, come quelle di una serie televisiva che dura da trent’anni. L’età di Tersite2 l’ha ottimamente chiamata Luca Rastello in uno dei romanzi più forti degli ultimi anni, Piove all’insù 3, età in cui “dichiariamo con enfasi la nostra adesione assoluta alla vita com’è. Facciamo il nostro ingresso, piccoli e spettrali, nell’impero del kitsch” (pag. 165). Che è l’epoca della fine di ogni possibile rivoluzione e in cui il regno dello sfruttamento e dell’opinione torna ad essere l’unico in cui vivere. E che è l’epoca degli angeli. “…il nostro mondo ha il suo manifesto, oggi: la pagina di Repubblica dove i bambini morti nella scuola crollata sono chiamati gli ‘angeli’: cronache dal funerale degli angeli, interviste, la giornalista premurosa che dimostra con cura di essere sul luogo, descrivendo i giocattoli e gli zainetti fra le macerie, e il sangue, e c’è anche una colonna con le colpe degli amministratori, la ristrutturazione fatta al risparmio, i soccorsi lenti, qualcuno pagherà. Ma pagherà entro i limiti di una facciata e mezzo, perché a destra in basso, massima visibilità, ingombro mezza pagina, campeggia un’enorme scarpina con il tacco sottile da signorina. Sta lì, zitta e incongrua, senza che nessuno le chieda i documenti, nera su fondo bianco. Niente scritte tranne il marchio: Prada…” (pag. 237) Il crollo della scuola è quello che si verificò a San Giuliano di Puglia il 31 ottobre del 2002 in seguito a una scossa di terremoto in cui morirono 27 bambini e una maestra e che, altrove, provocò pochissimi danni. Per questo crimine, in realtà, sono stati condannati in via definitiva costruttori, progettisti, tecnico comunale e sindaco. Ma l’altro crimine, impunito, è stata l’angelizzazione sponsorizzante dei morti (i bambini morti che sponsorizzano Prada) cui, in altre occasioni, si unisce quella dei salvatori: oggi con il coronavirus, ad esempio, medici ed infermieri, in altre occasione i vigili del fuoco (però mandati allo sbaraglio senza copertura assicurativa INAIL…), in una eroicizzazione che viene effettuata proprio da chi ha responsabilità tremende nell’avvilimento delle professioni, nell’attacco allo stato sociale, nell’umiliazione di interi settori della nostra società. Così per gli/le insegnanti che vengono chiamati missionari ma che, in documenti meno ipocriti sono definiti/e come incapaci di superare “polverose pratiche obsolete”, e loro stessi/e una classe obsoleta, in via di sparizione, come i medici di base e altre specie animali.
DOPO L’INNOVAZIONE
Nell’età di Tersite è evidente che nulla può essere mutato e che, soprattutto, a nessun soggetto autonomo viene data la possibilità del compiere mutamenti: anzi, è tentare il movimento/mutamento il crimine supremo. Se mutamenti devono esserci, che siano guidati passo dopo passo; se innovazioni devono prodursi (perché il nuovo è altra parola-chiave del tempo) esse siano prudenti o catastrofici sconvolgimenti che però non guastino l’ordine dei mercati globali. Dopo l’innovazione, anche sotto forma di trauma (guerra o epidemia/pandemia), tutto dovrà tornare come prima. Allora, riprendendo la metafora della guerra su cui abbiamo riflettuto all’inizio di questo testo, hanno forse ragione i reazionari: sì, siamo in guerra, anche qui da dove partono le guerre (e le innovazioni e i miti attraenti), da dove partono gli embarghi, i blocchi economici, le punizioni. Siamo in guerra perché abbiamo le bandiere italiane ai balconi; siamo in guerra perché abbiamo un nemico da sconfiggere, il virus, e quelle umanità inferiori “che mangiano topi vivi” e che, con altri comportamenti irresponsabili (di nuovo la colpevolizzazione, di intere nazioni/civiltà), permettono il cosiddetto salto di specie4. Per gli intellettuali-teppisti di ogni inizio secolo (Marinetti, Papini – pronti a diventare Accademico d’Italia, il primo, nel 1929, e a convertirsi a un cristianesimo aggressivo, dopo averlo definito “pecorismo nazareno”, il secondo- e oggi troppi altri, ma persino meno coraggiosi dei due qui citati) la guerra pulisce/purifica/salva. Per altri intellettuali, più miti, sconvolti dall’orrore del presente e che pure troveranno la morte nel grande macello, la guerra è un’espressione canonica dell’essere umano e delle sue categorie. Renato Serra (1884, Cesena – 1915, sul Podgora) nel suo celebre Esame di coscienza di un letterato 5 scrive a più riprese di questo: “…È una vecchia lezione! La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura”; e poi: “…la guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia. Il cuore dura fatica ad ammetterlo. Vorremmo che quelli che hanno faticato, sofferto, resistito per una causa che è sempre santa, quando fa soffrire, uscissero dalla prova come quasi da un lavacro: più puri, tutti. E quelli che muoiono, almeno quelli, che fossero ingranditi, santificati: senza macchia e senza colpa. E poi no. Né il sacrificio né la morte aggiungono nulla a una vita, a un’opera, a un’eredità. Il lavoro che uno ha compiuto resta quello che era. Mancheremmo al rispetto che è dovuto all’uomo o alla sua opera, se portassimo nel valutarla qualche criterio estraneo, qualche voto di simpatia, o piuttosto di pietà…”. Grandi desolate verità in questo, come in altri passaggi dell’opera. E infatti niente cambiò, dopo l’immane tragedia: l’orrore venne riprodotto, anche l’orrore che voleva rimediare all’orrore (la Rivoluzione), e si moltiplicò con furia di fanatici ovunque. Così accadrà a noi, fanatici o meno, colpevoli o meno, e più o meno angeli: anche chi non ha potuto dormire o non è riuscito a farlo si risveglierà dal sogno/sonno di queste settimane con le solite violenze quotidiane da affrontare, alle prese con la morte data o subita, alle prese con i conti che non tornano e che verranno fatti pagare a un’umanità indistinta e minacciata cui si chiederanno sacrifici, e di togliersi il pane di bocca. L’ultima lettera di Serra alla madre, datata 20 luglio 1915: “…un saluto in fretta anche stamattina, alzàti all’alba. Niente di nuovo: le solite vicende di temporale e sole, e lo spettacolo di un’azione che si intravede e si sente rumoreggiare sui monti circostanti. Noi sempre al nostro posto, con molte faccende dei servizi di seconda linea…”6 Echi di Qohèlet, “niente di nuovo sotto il sole. / Ciò che è storto non si può raddrizzare/ né ciò che manca si può contare…” (età di Tersite e di Qohèlet). Faccende, faccende da sbrigare, dentro la faccenda appena maggiore della guerra, in lontananza: che si avvicinerà e chiederà il conto. E Serra l’accoglierà, tenendosi in piedi in trincea: così esponendosi al fuoco nemico e chiedendogli di uccidere la sua mitezza.
PRIGIONI
Altre faccende da sbrigare, come un niente: dentro la morte di questi giorni, le 14 morti di carcerati nelle rivolte del 10 marzo, nelle prigioni (Modena, Rieti –la prigione modello di Rieti…)7. “Il Pd chiede di verificare una possibile regia criminale” (se così fosse, sarebbe ben riuscita, 6000 in rivolta sui 61.000 ospiti delle carceri italiane); un altro progressista, di cui è bene tacere il nome, scrive che si è trattato di “rivolte di criminali, non dimentichiamolo, che in un momento così difficile della nazione si permettono di rompere tutto…”; i più avanzati sospendono il giudizio e dicono di aspettare gli esiti delle indagini e delle autopsie (morti per overdose, vero?, e quando arriveranno i risultati di queste autopsie? – quando nessuno se ne accorgerà più, nel silenzio dei complici…)8 Così come per la morte del georgiano Vakhtang Enukidze, nel CPR di Gradisca (in provincia di Gorizia), il 18 gennaio di quest’anno; per i contagiati dentro le carceri ma perfino dentro le case di riposo –morire in solitudine, chiusi nel proprio corpo che si rattrappisce, non accompagnati, senza riti, senza un grido che possa essere ascoltato… Un immenso oblio, un oblio immediato, senza ripensamenti. Polvere sotto il tappeto, spazzatura. Per chi ha creduto nell’umanizzazione delle carceri (non dico nella loro eliminazione, cui pure occorrerà lavorare, prima o poi) un’ulteriore ferita. “Una volta, in tempi di redenzione nazionale o sociale, si diceva che la storia di un paese è scritta sui muri delle sue galere….”9 Non è più così, ma dovremmo batterci perché così torni ad essere: ora nelle galere finisce tutto ciò che una società pur onnivora non riesce a digerire, senza compassione, senza uno sguardo esterno che possa provare a capire, non a giustificare, ma a capire!, almeno questo sì, e ad agire perché non può andar bene, perché la violenza che prigioni, anche prigioni modello, esercitano su chi vi finisce dentro è infinita e mai scusabile. Se in tempi di coronavirus la rivolta del 10 marzo è stata presto cancellata e se non una parola di cordoglio è venuta dal corpo della società, vuol dire che la nostra era ed è una società malata, ben prima d’esser stata contagiata dal coronavirus, malata nelle sue viscere profonde. Ai 14 morti, “qualunque colpa sia” (Erri De Luca in ‘Considero valore’), va il nostro pensiero di compassione e di rabbia: sono stati i soli a ribellarsi, ingrati! E che qualcuno/a racconti tutto questo: pena la nostra colpa ribadita, la nostra perenne complicità.
Gianluca Paciucci
9 aprile 2020
1 https://www.italia.attac.org/virus-scatta-la-colpevolizzazione-dei-cittadini/ ; anche sul Manifesto del 20.03 2020.
2 Un Tersite letto in modo completamente diverso da come aveva fatto Concetto Marchesi in Il libro di Tersite uscito per Mondadori nel 1950 e ora leggibile in edizione Sellerio. Per Marchesi il Tersite che si oppone ai comandanti della spedizione incitando gli Achei ad abbandonare l’assedio di Troia e che viene rimesso al suo posto (di inferiore, brutto, goffo e pavido) da Ulisse, che lo percuote, è l’emblema della cacciata dalla Storia, e dalla letteratura occidentale, del popolo (appunto brutto, goffo e pavido – o solo amante della vita?) Una lettura potentemente suggestiva. “Rude razza pagana”, avrebbe scritto Mario Tronti in Operai e capitale (1966), prendendone le parti, dalla parte di Tersite, nelle sue debolezze e nelle sue oltranze.
3 Luca Rastello, Piove all’insù, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, pp. 259. Rastello (1961-2015) è stato autore di alcune delle opere più formidabili dell’ultimo trentennio, da La guerra in casa (sul conflitto jugoslavo) al romanzo I buoni (sull’umanitarismo) per finire con un frammento di romanzo e altri materiali, usciti postumi, nel 2018, da Chiarelettere, dal titolo Dopodomani non ci sarà. Sull’esperienza delle cose ultime. Su Piove all’insù ha scritto ottime pagine Carlo Tirinanzi De Medici in Il romanzo italiano contemporaneo. Dalla fine degli anni Settanta a oggi, Carocci, Roma, 2018, pp. 317; le pagine dedicate al romanzo di Rastello sono da 244 a 255.
4 A questo proposito vedi Sofia Rizzi, “SARS-CoV-2: il pipistrello espiatorio”, http://lameladinewton-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/04/08/sars-cov-2-il-pipistrello-espiatorio/
5 Sulla “Voce” del 30 aprile 1915, tre mesi prima che Serra morisse, il 20 luglio “al cader del sole” (scrive Luigi Ambrosini nella “Prefazione alle ultime lettere”, contenuta nell’edizione dell’ Esame…, EST, Pordenone, 1994, pp. 102).
6 si può leggerla a pag. 102 dell’edizione EST, cit.
7 Su questo vedi https://www.repubblica.it/politica/2020/03/11/news/rivolta_carceri_bonafede_relazione_parlamento-250921236/?ref=RHPPLF-BH-I250922842-C8-P3-S2.5-T2 ; https://ilmanifesto.it/rivolta-nelle-carceri-altri-cinque-morti-cera-un-contagiato/ ; https://www.ildubbio.news/2020/03/13/quel-ragazzo-e-morto-nella-rivolta-di-modena-sarebbe-uscite-solo-tra-due-settimane/ Da quest’ultimo articolo de ‘Il dubbio’: “Nove morti, ancora senza nome e la maggior parte tunisini e moldavi. Parliamo dei detenuti che erano ristretti nel carcere di Modena, teatro di una grande rivolta che ha portato all’inagibilità di alcune sezioni. (…) Tra i cinque morti rinvenuti già morti [sic] al carcere modenese, Il Dubbio è a conoscenza del caso di uno di loro. Si tratta di un tunisino nato nell’84 che stava scontando poco più di due anni di carcere per piccolo spaccio. Una pena che poteva essere scontata attraverso una misura alternativa. Ma purtroppo, come accade spesso, soprattutto per gli stranieri che non hanno un vero e proprio domicilio, non ha avuto la possibilità di usufruirne. Non risulta, almeno per il momento, che il ragazzo fosse in carico dal Sert, perché si sarebbe dichiarato non tossicodipendente. Saranno comunque i risultati dell’autopsia a sciogliere ogni dubbio. I suoi genitori vivono in Tunisia e ancora attendono la verità, ma soprattutto le spoglie del proprio figlio per poterlo piangere. La storia lascia una grande amarezza: il ragazzo avrebbe finito di scontare la pena tra due settimane. Ma non ha fatto in tempo…”
8 Per chi muore lungo le rotte delle migrazioni, non si aspettano nemmeno le autopsie: i corpi colano a picco nei mari o vengono riassorbiti dalla terra.
9 A pag. 129 di quel bel libro, cruciale per umanità da parte che uno ha vissuto il carcere da dentro, che è Le prigioni degli altri di Adriano Sofri (Sellerio, Palermo, 1993, pp. 195). Sull’abolizione del carcere occorre rimandare ad Angela Davis, Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale, Minimum fax, Roma, 2009 –ed. originale 2003-, pp. 265, con un importante saggio di Guido Caldiron e Paolo Persichetti, “Il welfare della galera. Neoliberismo e populismo penale”. Per scritti interessanti su questo argomento, ricordiamo le pagine di Carmelo Musumeci (Gli uomini ombra, Nato colpevole, ed altri).
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