L’estate del 2014, da dove proveniva la prima Lettera marrana, è stata una stagione di guerra: ora la guerra è passata, pare, come una ferita al ginocchio di un bambino, di una bambina, di cui resta solo una crosticina per vantarsene nel gruppo che si frequenta. La guerra è passata in Ucraina, dove agiscono spie d’ogni dove, vengono bombardati i ribelli filorussi, e vengono devastate scuole e ammazzati civili: l’Ucraina di Poroshenko è ormai puro occidente, se può permettersi “danni collaterali” di questa portata, mentre non lo è la Russia di Putin, per colpe dello stesso genere ripudiata e isolata, e ormai spinta verso obiettivi eurasiatici, come peraltro molti intellettuali della nuova destra vorrebbero (De Benoist, Dugin, Mutti); la guerra è passata in Israele e in Palestina, se il primo ministro israeliano può permettersi di annunciare nuovi insediamenti ebraici in territorio palestinese, bacchettato persino da Obama, ma da Obama perversamente coccolato, e finanziato da lobby non ebraiche (l’antisemitismo è degli imbecilli, lo sappiamo) ma del capitale unito contro l’umanità; la guerra è passata in Siria, dove i corpi, le città e la storia devastata gridano vendetta (chi ci restituirà Aleppo?, e i luoghi pieni di civiltà che questa guerra ha sventrato, non altre guerre, non le dittature criminali di Assad padre e figlio: ma questa guerra dei complici del divano occidentale–orientale, perversi Putin Obama Sarkozy Hollande Merkel Renzi Rohani, oscuri principi sauditi e altri figuri loschi, guerra non pervenuta da cinque anni, pace sventrata sulle rovine e protervia sanguinari di integralismi convergenti, laici e religiosi). La guerra è passata come la bua –così dalle mie parti si chiamavano le piccole ferite da bambini, giocando al calcio o cadendo da biciclette-, non c’è più. Ma quale guerra? “…estate dell’ultima guerra / non quella, ma questa che c’è”, così come non troppi anni fa cantava profeticamente Enzo Jannacci della guerra permanente, senza aspettare le profezie del giorno dopo di papa Francesco. Osannate e inascoltate profezie, dai peggiori e dai migliori. Ma poi torna ad essere lui, il papa comunista, a non tradire l’elettorato di riferimento, e invita i medici all’obiezione di coscienza per aborto e eutanasia. Già in molte regioni d’Italia la 194 era ed è inapplicata: questo appello ha sulla coscienza altre sofferenze e vittime innocenti.
Questa seconda “lettera marrana”, due mesi dopo la prima, arriva da un paese ligure sommerso dalle piogge. “Se la terra abbandonata / ci si volta contro”, in un brano di Giovanna Marini, la terra alleata con il cielo, cupi contro gli esseri umani. I condoni edilizi sarebbero, secondo l’attuale ministro dell’Ambiente, dei “tentati omicidi”: eppure questo ministro dell’Ambiente – che si è già distinto per aver alzato i limiti delle sostanze pericolose nel decreto Legge Competitività1 – governa con alcuni di quelli che i condoni edilizi hanno votato e rivotato; mentre dall’Australia un primo ministro, pare di centrosinistra, invoca la “crescita”, come se non fosse stata la crescita micidiale degli ultimi trent’anni a determinare l’ulteriore stress del pianeta e morti su morti. Io ho fiducia nella natura, anche nei suoi aspetti più terribili (quella leopardiana nel “Dialogo della Natura e di un islandese”), ma non ne ho più nei confronti di noi esseri umani: che proprio domani prenderemo provvedimenti responsabili che contribuiranno al crimine e a realizzare gli omicidi tentati. Questo il quadro in cui scivoliamo e annaspiamo. Annaspiamo nelle “emergenze”: climatica, economica, e quella della sicurezza. Senza emergenze non siamo, non consistiamo, a queste ci aggrappiamo per sopravvivere, ed esse invitano ad armarsi, espressione ormai da prendere alla lettera, oltre che come metafora. Ora sono le periferie urbane il nuovo scandalo. Quanto è successo a metà novembre a Tor Sapienza è chiaro, per chi voglia credere ai fatti e non lasciarsi andare al ballo delle interpretazioni. Vi è un nucleo duro in ogni vicenda, in ogni storia, persino nella più liquida delle società: a questo nucleo possiamo e dobbiamo attenerci, pena uno slittamento dietro l’altro e il trionfo dell’arbitrio (lezione di Carlo Ginzburg in Rapporti di forza, che mai dimenticherò). E il nucleo dei fatti di Tor Sapienza è limpido: in una realtà di degrado urbano sono state inserite realtà di stranieri (richiedenti asilo, rifugiati, etc.) che pur contribuendo in trascurabile parte alla situazione di crisi del quartiere vengono ritenute responsabili di tutto il degrado, a detta di gruppi di cittadini “esasperati”. Questi gruppi decidono di farsi giustizia da sé e assediano le abitazioni dove sono ospitati gli stranieri, con presìdi, minacce fisiche e verbali, con lancio di pietre e di bombe carta, incendio di cassonetti e altre manifestazioni molto oltre il limite della legalità. Alla fine il Comune di Roma decide di trasferire almeno i rifugiati di minore età in altra zona della capitale. Questi i fatti, in modo un po’ grossolano ma non distante dal vero. Ricordo che il 18 settembre dell’anno in corso in un altro quartiere della capitale, un sano e giovane italiano uccise un 28enne pakistano, per futilissimi motivi: altri cittadini “esasperati” manifestarono per la liberazione dell’assassino2.
Che cos’è Tor Sapienza? Due buoni interventi su “Il Manifesto” ne tracciano il disegno. Nel primo, di Enzo Scandurra (“La miccia delle nostre periferie malate”, 15.11 ‘14) viene raccontata la formazione del quartiere e vengono fornite indicazioni di metodo: “…La descrizione urbanistica è necessaria se si vogliono capire i motivi degli episodi di così tanta violenza come mai ne sono accaduti in altre periferie urbane…”. Descrizioni di questo tipo ci rimandano all’immagine di uno dei molti quartieri nati con le migliori intenzioni e spesso pensati da urbanisti e architetti di sinistra in fasi in cui, tra gli anni Sessanta e Settanta, diverse realtà stavano ripensando la propria struttura, chiuso il periodo del lungo dopoguerra e del miracolo economico che così a fondo aveva trasformato il volto del nostro Paese. Per sostenere progetti urbanistici di questo tipo era necessaria una forza culturale e politica di non poco conto, altrimenti tutte le varie cité radieuse sarebbero diventate un fallimento. A Roma, ma in tante altre città, questo supporto a una visione olistica dello sviluppo urbano vi fu per un breve ed entusiasmante periodo, come ricorda Paolo Berdini nel secondo articolo di cui sopra (“Il fallimento del modello Roma”, 16.11 ‘14): “…Quei decenni erano attraversati dalla speranza di riscatto sociale e da una cultura urbana che si sforzava di pensare a una città unita e solidale. Sulla base di questa spinta culturale, a partire dal 1975 Roma ebbe la più felice stagione amministrativa –insieme a quella guidata da Nathan sessant’anni prima- che abbia mai conosciuto…”. Sindaci furono Argan e il mai troppo rimpianto Petroselli, tra gli assessori c’era un personaggio di grande levatura come Nicolini, mentre Cederna e Insolera proponevano “una nuova idea di città” da ridisegnare attorno al progetto dei Fori. Fortissime erano le ostilità, ma forte la determinazione ad andare avanti. Nelle periferie, peraltro, ancora reggeva il legame sociale costituito dalle vecchie forme di aggregazione quasi premoderne (la strada, il quartiere, il rapporto non necessariamente ostile tra vecchi e nuovi residenti, e poi la parrocchia e le sedi di partito, o meglio dei partiti e partitini spuntati come funghi in quella stagione magnificamente matta –anche di matte violenze, d’accordo). I decenni che seguirono però videro un rapido cambiamento: la struttura del capitalismo voleva liberarsi dalle maglie che la democrazia sociale gli aveva imposto dalla fine della Seconda guerra (il compromesso socialdemocratico nei Paesi anglosassoni, ma un po’ in tutta Europa occidentale). Il gigante del Capitale cominciò a scrollarsi di dosso pali e paletti, a liberarsi dalle catene, in un’immagine opposta a quella di fine Ottocento in cui si vedeva, nella iconografia del movimento operaio, il gigante del Lavoro liberarsi dal giogo del capitale: tutto accadde con la massima velocità, e venne presto l’89 e, da noi, il trionfo dell’egoismo proprietario, sostenuto dalla furia dei postcomunisti che volevano farsi perdonare crimini mai commessi, illudendosi –ma in parte anche riuscendo- di poter raggiungere il potere. Tutto questo si tradusse in una gigantesca truffa: i postcomunisti si inventarono il cosiddetto partito leggero, leggero in tutto, ma non nelle clientele e nella rete Coop (“falce e carrello”…)-Unipol-banche di riferimento-cooperative sociali, non nella gestione delle tessere e dell’apparato, mai così disciplinato e puerilmente obbediente come dagli anni Novanta a oggi. Distruzione della sinistra sociale nelle periferie e nelle città di provincia, ed erezione del tempio definito “partito di governo” e forse, tra qualche mese, “partito della nazione”: anche in questo deserto politico e sociale si è innestata la crisi degenerativa di interi quartieri lasciati a sé stessi. Ricorda Berdini che “dal 1993 al 2008 Roma è stata amministrata dalla sinistra che invece di proseguire l’opera di quegli anni lontani, ha favorito la più sconvolgente fase di speculazione edilizia che Roma ricordi. Con il Modello Roma la superficie urbanizzata di Roma è raddoppiata [la sottolineatura è mia- GP]: le periferie sono diventate troppe e ingovernabili perché la mala urbanistica ha vuotato le casse della città. La capitale ha 22 miliardi di deficit e non ha soldi da spendere nel recupero urbano…”. Su Alemanno e Marino occorre stendere un pietoso velo, ma di Rutelli e di Veltroni, sindaci per due mandati ciascuno, cosa dire? La brutale leggerezza del partito del cemento, senza un’idea globale della città e senza la forza culturale che era delle giunte Argan-Petroselli, si è già trasformata nella pesantezza e nel caos di questi ultimi anni e giorni.
In una città ormai preda della speculazione edilizia già nei primi anni Novanta (fuori dai limiti di questo articolo è il sacco di Roma degli anni Cinquanta-inizio Sessanta), cominciarono ad arrivare uomini e donne provenienti da altre zone del pianeta devastate da crisi economiche e/o “liberate” dal giogo comunista nell’est europeo. Scrive il regista Daniele Vicari: “…Lo ricordiamo tutti, spero, che la Lega nacque a ridosso dell’arrivo degli albanesi sulle coste pugliesi nel 1991?…” (“In giro per le strade della discarica umana”, Il Manifesto, 15.11. ‘14). Il crollo di intere economie e della speranza di vita nei Paesi ex comunisti (Russia, Albania, Polonia, Romania etc., per almeno un decennio allo sbando sotto l’alleanza torbida del capitalismo occidentale e degli oligarchi post-sovietici), le guerre per qualcuno finalmente ridiventate il solo mezzo atto a risolvere le controversie internazionali e i cambiamenti climatici che misero in ulteriore affanno intere popolazioni, portarono a una nuova e disperata mobilità nel pianeta, come non si era più vista dalla fine della Seconda guerra mondiale. Quello che era uno degli scopi dell’abbattimento del muro di Berlino, e cioè garantire la libera circolazione di uomini e donne, divenne subito una maledizione e un’occasione per i mercanti di esseri umani e, a casa nostra, per gli imprenditori della paura che cominciarono a lavorare ai fianchi il Paese immettendo gocce avvelenate di razzismo sottopelle e così allestendo lo squilibrio attuale. Non possiamo qui riproporre quanto altrove ho scritto, con Walter Peruzzi, sul fenomeno leghista, ma aggiornare il quadro questo sì. Con un’ellissi temporale si può giungere al presente, a quanto appena accaduto a Roma e alla forza delle nuove destre. Che il partito di Bossi e, ora, di Salvini affondasse le sue radici nel pensiero e nelle pratiche dell’estrema destra (oltre ad altre sorgenti di pensiero, si intende) era chiaro, ma ad alcune illustri menti della sinistra postcomunista sfuggiva, strumentalmente. Ma chi è riuscito a strumentalizzare chi? D’Alema pensava di far un sol boccone della Lega di Bossi, ma sul medio periodo è stata questa ad assorbire forze e voti anche dalla sinistra. Oggi essa è data in netta crescita nel consenso elettorale. Scrive Ilvo Diamanti: “…il vero progresso, in questa fase, è realizzato dalla Lega, che si avvicina all’11%. Proseguendo nella tendenza espansiva che dura ormai da mesi. E non accenna a rallentare. La Lega di Salvini: oggi è la vera “Destra Nazionale”. Pardon: la Ligue Nationale, per echeggiare le Front National di Marine Le Pen. Non per caso, d’altra parte, la “popolarità” di Salvini appare elevata anche nel Mezzogiorno (intorno al 30%)…” (“Governo giù, il premier perde 10 punti. Scende il Pd e vola la “Lega nazionale”, in Repubblica online 16.11.’14). Sorvolando sulla convergenza dei nomi che si fanno per il futuro del PD renziano (Partito della Nazione) e della Lega (Lega Nazionale, appunto), occorre interrogarsi sul ruolo di quest’ultima nell’accelerazione della crisi in corso. L’attivismo di Salvini, Calderoli, l’eminente statista che invoca la “legge del taglione”, e Borghezio, quest’ultimo ormai scortato dai fedelissimi di Casapound –povero il grande Ezra-, è ormai un’offensiva politica e mediatica vera e propria. Il quotidiano “La Padania” –che peraltro chiude le pubblicazioni anche online dal 1° dicembre, perché privo di finanziamenti pubblici ma anche per lotte interne, cui allude il comunicato del CdR3– ormai batte solo su una corda: stop all’invasione, dicono e ridicono. Manifestazione del 18 ottobre a Milano, vere e proprie incursioni, come quella di Borghezio e di militanti di Casapound presso la Scuola media ex Lombardo Radice nel quartiere romano di Casalbertone il 28 ottobre, ripetute “visite” ai campi rom, tra cui quella dell’8 novembre al campo di via Erbosa a Bologna, e infine le presenze a Tor Sapienza e ovunque vi siano situazioni di difficoltà: sono solo alcune delle iniziative degli ultimi mesi. Lotta ai “clandestini” –come la Lega definisce gli stranieri richiedenti asilo e gli immigrati cosiddetti irregolari- e antiziganismo militante, in compagnia di altri figuri della destra italiana e di un po’ di gente “esasperata”: questo è il programma, messa in un canto, per ora, l’indipendenza e strumentali i richiami alle lotte sociali, per un partito che ha servito Berlusconi fino all’altro ieri. È invece proprio quello che Serge Halimi in “Le Monde diplomatique” di gennaio 2014 definì “il tempo delle jacquerie”, e cioè della presunta rivolta / pogrom, di uomini e donne che individuano nella eliminazione di un capro espiatorio l’inizio di un possibile riscatto e l’annuncio della verità finale. Queste moderne jacquerie, spesso effimere (ricordiamo il movimento dei “forconi” di appena un anno fa) ma nell’insieme costanti e durature, nelle società occidentali hanno ormai un chiaro obiettivo: lo straniero, chiunque egli o ella sia, comunque sia arrivato nei nostri Paesi –magari qui cacciato anche dalle nostre bombe-, e l’altro per eccellenza, il popolo rom, o sinti. Xenofobia e razzismo primario si danno la mano, in luoghi degradati dall’aggressività del capitale e della speculazione finanziaria e edilizia.
Verrebbe da ricorrere al lucido Brecht quando scriveva che “molti non sanno / che alla loro testa marcia il nemico”, certo in altri tempi e in altro contesto, ma ancora oggi attuale: non possono essere i rifugiati il bersaglio di un disagio che è incommensurabile (alla lettera, che non si può misurare, ma osservare e forse alleviare sì con provvedimenti di minima decenza), non possono essere i minori così brutalmente scacciati dai luoghi che li ospitavano, a Tor Sapienza, con vile teppismo e in riti abominevoli di punizioni collettive. Forse è il caso di cominciare, o di ricominciare, a sapere contro chi volgere le armi della nostra rabbia: contro chi comanda i plotoni di esecuzione economici e politici di questa nostra Italia ed Europa, banchieri, speculatori, profittatori d’ogni razza, e imprenditori della paura, su scala nazional-planetaria e nei più piccoli paesi o quartieri periferici. E anche riprendendosi la politica e la cultura in mano, costruendo legami sociali di inclusione tra chi sta in basso, e di esclusione e respingimento per i potenti di turno. Nella nonviolenza e nella radicalità. Riconoscere il nemico comune “che marcia alla nostra testa” potrebbe essere l’azione da cui ripartire. “I nemici non sono nei barconi ma nelle istituzioni”: ho letto questo cartello tra le mani di una donna, insultata da donne e uomini, in un breve video che si può vedere in Repubblica online. C’è qualcuno e qualcuna che ha già cominciato a fare un bel cammino di ricomposizione, di ristabilimento di tutte le cose.
Gianluca Paciucci
1 http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/07/07/news/siti-inquinati-alzati-per-decreto-i-limiti-delle-sostanze-pericolose-1.172484
2 Riporto quanto scrive in proposito Annamaria Rivera: “…Esemplare in tal senso è ciò che è accaduto alla Marranella, quartiere romano del Pigneto-Tor Pignattara, dopo l’assassinio di Muhammad Shahzad Khan, il pakistano di ventotto anni, mite e sventurato, massacrato a calci e pugni da un diciassettenne romano, la notte del 18 settembre scorso. Subito dopo, un centinaio di persone improvvisarono un corteo di solidarietà verso il giovane arrestato, non senza qualche accento di rammarico per “questa guerra tra poveri”, insieme con cartelli e slogan quali “Viva il duce” e “i negri se ne debbono andare”… (http://temi.repubblica.it/micromega-online/tor-sapienza-la-violenza-razzista-spacciata-per-%E2%80%9Cguerra-tra-poveri%E2%80%9D/)
3 “L’attuale situazione è il risultato del drastico taglio del fondo sull’editoria operato dal governo Renzi” ma la Lega “nonostante le prospettive di crescita dei consensi politico-elettorali che tutti i sondaggi le riconoscono, ha deciso di non rinnovare il proprio contributo al bilancio dell’Editoriale Nord”, editore del quotidiano (La Padania, 08.11.’14)
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