Morte dei pacifismi, estetizzazione della politica. Sabotare, combattere e curare
come azioni possibili contro le guerre, nel nome di Vivante e di Langer.
Delle guerre in corso ci interessiamo a geometria variabile, e in genere quando al criminale di turno (ora sono in voga Assad-Putin e alleati iraniani) può essere attribuita una strage di dimensioni immani. Spesso invece le stragi prodotte dalle nostre coalizioni vengono messe sotto silenzio e non fanno scandalo. Alle stragi degli altri si levano forti grida di riprovazione, che non terminano nemmeno quando la falsificazione delle prove portate è convincente. In un quadro bellico come quello siriano, è evidente che ciascuno porta responsabilità spaventose: innanzitutto il regime di Assad1 che ha reagito in modo cruento alle prime manifestazioni democratiche nel 2011; ma su questo si sono poi innestate le volontà egemoniche dei Paesi dell’area e delle maggiori potenze –tutte- che hanno cominciato a sponsorizzare i propri uomini sul campo, col risultato di contribuire al peggioramento della situazione e a incrementare quella guerra contro i civili che è ormai ogni guerra moderna. Su questo si innestano le furie di protagonismo di leader sotto ogni soglia di decenza, il longevo Putin e il nuovissimo Trump, nemici che più complementari non si può: gara di maschi triviali, di missili, di droni, di stupide spie, di ancor più stupidi strateghi. Come ogni maschio triviale, Trump ha spesso sulle labbra il nome madre e l’applica, insozzandolo, a ordigni che segnano un prima e un dopo, nei simboli: quella che tecnicamente è la “GBU-43 Massive Ordnance Air Blast bomb”, diventa anche l’acronimo di “Mother Of All Bombs”, “Madre di tutte le bombe”, ed è stata provata in Afghanistan il 13 aprile, pare senza un ordine diretto di Trump, ma poco cambia. Un’inutile dimostrazione di forza e d’arroganza, pari a quelle dei dirigenti nordcoreani, affamatori del proprio popolo ma che lanciano missili come se fossero giocattoli (e un paffuto bambino criminale è l’amatissimo leader). La differenza tra le democrazie occidentali e le dittature –per definizione orientali– è che le prime provano sui civili o altre cavie umane le armi di distruzione di massa (Hiroshima, l’“agente arancio” in Vietnam –a proposito di armi chimiche…-, etc.), mentre le seconde no, o forse semplicemente non fanno in tempo o almeno non possono vantarsene, pena ritorsioni delle democrazie. Questo ribadisce la superiorità dell’Occidente sull’Oriente, e della Democrazia sulla Dittatura. Di Putin si sa che, meno mammome di Trump, sta preparando il padre di tutte le bombe, naturalmente più potente della madre. Si tratta di una saga familiare di pessimo gusto, in cui entrambi forniscono armi e soldi ai parenti più stretti (i criminali regnanti sauditi per Trump e gli altrettanto criminali ayatollah iraniani per Putin, che si combattono anche nello Yemen) per non far cessare la faida. Interessanti le reazioni dei mercati all’attacco statunitense contro la Siria del 6-7 aprile scorso, in reazione al presunto (e non provato) uso di armi chimiche da parte dell’aviazione di Assad a Idlib: i cinque grandi fornitori della Difesa statunitense (Rayheon –che ha fornito i missili Tomahawk per l’attacco-, Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman e General Dynamics), dal fatturato che va dai 24,5 ai 94,6 miliardi di dollari, hanno avuto una buona impennata in borsa, venerdì 7 aprile, dal +0,8 (Boeing) al +1,5% (Rayheon, premiata dagli azionisti, perché il mercato è razionale)2. Tutto è perfettamente in ordine: che lo sappiano i milioni di profughi siriani e gli ammazzati, il loro sacrificio non è vano. In questi giorni, per estendere il modello, si parla di “soluzione siriana” per il Venezuela. Questo ci consola ulteriormente.
FALSITÀ NON FALSIFICABILI
Per muoversi in un campo doloroso, più volte attraversato in queste note (lo scempio del patrimonio storico-artistico in Iraq e Siria), che da questi Paesi e da tutta l’Asia occidentale arrivino notizie false è confermato dall’intervista al docente universitario di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino oriente antico all’Università di Genova, Paolo Brusasco3. Egli afferma: “…In Iraq e Siria, contrariamente a quanto evidenziato dai media internazionali, recenti studi statistici dimostrano che le distruzioni intenzionali prendono di mira soprattutto i monumenti dell’arte islamica, in particolare i santuari sciiti e sufi dedicati al culto dei santi, profeti e imam, e in maniera minore i monumenti cristiani, yazidi e le testimonianze preislamiche. Il dato è interessante perché apre nuovi orizzonti sulle finalità di una guerra che appare interna al mondo musulmano e che l’Occidente tende invece a rappresentare piuttosto come scontro con la civiltà cristiana…”. Guerra interna al mondo musulmano: non dimentichiamo queste parole. E nemmeno l’esemplare frase di Edward Luttwak, in un’intervista al Guardian del 9 dicembre 2015 in cui l’eminente stratega lodava G.W. Bush per aver scatenato, con l’intervento in Iraq, “una guerra tra sunniti e sciiti che durerà mille anni”. Ugualmente utili i dati sul terrorismo: “…la miopia morale occidentale (e cioè il perenne uso di due pesi e due misure sul terrorismo) trova una conferma nel fatto che solo una minima parte degli atti terroristici colpisce l’occidente (meno del 3%)…”4; e quelli sulle migrazioni, che solo in piccola parte investono l’occidente anche se qui da noi, però, si continua a parlare di invasione, di orde, di sostituzione della razza bianca europea con popolazioni aliene, barbare, inferiori. Pure falsità non falsificabili, perché l’egemonia nel campo dell’informazione e, soprattutto, nella fabbricazione/invenzione dei miti, è ormai stabilmente nel campo delle destre, di quelle cosiddette moderate alla Macron come di quelle estreme alla Le Pen. Ora, a qualche giorno dal primo anniversario della strage di Nizza, il 14 luglio del 2016, è difficile ragionare su queste cose, qui, mentre passeggiamo sulla Promenade des Anglais, con ben freschi nel cuore di tutte e tutti noi i segni del delitto di un fanatico islamista. Ma è proprio nella connessione tra quanto accade qui, nelle nostre vie e quanto accade fuori, anche per nostra responsabilità (per responsabilità dei nostri governi, meglio), che risiede l’occasione per pensare diversamente il mondo, non più ingigantendo il nostro ruolo di vittime e non più vedendo nell’altro solo l’immagine di un orco. Per questo cambiamento di prospettive però non bastano solo le riflessioni di ogni singolo/a cittadino/a, ma occorrerebbe un movimento, un luogo vasto e attivo dove le opinioni e lo sdegno possano trovare condivisioni e un esito politico. Ora è evidente che, soprattutto nel campo dei conflitti, questa possibilità non esiste più da tempo, se non in piccoli settori, coraggiosi senza essere residuali (penso a chi si sta battendo, proprio in questi giorni, per il bando delle armi nucleari, in discussione all’ONU – vedi il sito http://www.disarmo.org/ican/). Il grande scomparso è il movimento pacifista nelle sue varie forme ed espressioni. Assurto a “grande potenza mondiale” nel 2003 (le manifestazioni in tutto il mondo contro la seconda guerra del Golfo), esso ha subito una cocente sconfitta, senza nemmeno aver avuto la possibilità di battersi: è bastato non essere ascoltato da quella coalizione di bugiardi al potere (Bush, Blair e codazzo di servi) per spazzarlo via. Per molti anni ancora, scrive Dal Lago, “le bandiere arcobaleno restarono appese alle finestre di mezzo mondo. I governi ignorarono le voci che salivano dalla strada, e che rappresentavano (…) i sentimenti di centinaia di milioni di persone, anche in occidente. Questo disprezzo per i loro concittadini è perfettamente espresso, se si esaminano le fotografie dell’epoca, dai volti vacui di Bush, Blair, Aznar, Berlusconi, i volti di quella grottesca ‘coalizione dei volonterosi’ naufragata nei disastri iracheno e siriano…”5. E prosegue: “…Abbattere regimi dittatoriali senza alcuna idea di che cosa li sostituirà provoca una catena interminabile di conseguenze perverse. [corsivo nel testo] (…). Se si considerano i costi umani degli interventi occidentali si arriva alla conclusione che sono stati di gran lunga superiori alle vittime dei regimi di Saddam Hussein e Muammar Gheddafi…”6.
L’IDEA DI NAZIONE
È qui il problema, è in noi, è nell’Occidente: prima dell’esportazione della democrazia esso si è specializzato nell’esportazione dell’idea di nazione, concetto imposto innanzitutto al continente europeo e alle sue appendici coloniali, e poi all’intero pianeta, quando anche da noi era, ed è, misterioso, nebbioso, fonte di permanente disagio, tra identità e alienazione, tra orgoglio ed esclusione provvisoria o definitiva dell’Altro/a. “…Quell’oscuro fenomeno che è il fenomeno nazione…”7, scriveva l’intellettuale triestino Angelo Vivante, l’ebreo socialista, autore di Irredentismo adriatico (1912), alle soglie della prima guerra mondiale. Sconfitto anche lui, come milioni di uomini e donne in quel biennio maledetto, 1914-’15, e anche per questo suicida, il 1° luglio 1915, giù dalle scale dell’Ospedale psichiatrico di Trieste. Mistero dell’idea di nazione, esportata con tutte le sue ombre, e mistero della costruzione di una nazione: ambiguo diritto all’autodeterminazione, confini, esercito e polizia, lingue e religioni, import/export. Progresso rispetto alle strutture precedenti oppure cammino inesorabile verso la follia definitoria/identificatoria? Paradossale il fatto che, nei casi di Iraq e Siria, per costruire una nazione secondo i criteri occidentali (e qui la Russia è pienamente Occidente), si debbano distruggere le nazioni e gli Stati esistenti, al cui crollo segue un ritorno verso il tribalismo, il clanismo e il settarismo religioso (quante tribù e clan e sette nascano e vivano dentro le democrazie occidentali, è altra storia).
Quale pacifismo è così finito? Quello puramente novecentesco, nato nel secondo dopoguerra in clima di guerra fredda e sotto choc per gli eventi appena passati, Auschwitz e Hiroshima (non il gulag, praticamente ignorato persino dai nemici di Stalin – ma non da poche figure isolate): in qualche modo il pacifismo novecentesco ha seguito la china del confronto USA-URSS (con momenti altissimi negli anni Ottanta, contro i missili a Comiso e contro gli SS-20), è poi sopravvissuto alla fine del mondo sovietico ma non all’unipolarismo statunitense. Frange, queste sì residuali, continuano a vivere nel mondo chiuso del cosiddetto campismo e credono a uno schieramento antiimperialista che riunisce tutti i nemici dell’unica potenza militare globale, gli USA, in un fronte indistinto che va dalla Corea del Nord al “laico” Assad. Vale poco spendere parole per queste ottuse frange; come residuali sono anche coloro che, pacifisti negli anni Settanta-Ottanta, si sono poi convertiti/e al realismo, che è invece solo paravento per le ragioni del mondo occidentale. Il problema di queste ottuse frange (che ci coinvolge tutte/i), opposte ai campisti, è che esse sono state e sono al potere in molti Paesi europei: basta leggere le biografie di Joschka Fischer, Xavier Solana, Ivan “Janez” Janša, e dei nostri Paolo Gentiloni e Roberta Pinotti, pacifisti finiti dall’altra parte. Che cosa è la realtà? Per i campisti è ciò che non muta mai; per i realisti è ciò che contraddistingue il passaggio dall’utopia, un po’ scema e nei fatti violenta, alla solidità dell’esistente così com’è. Né gli uni né gli altri hanno mai fermato una guerra: per tutti e tutte costoro basta solo schierarsi, in fondo convergendo. Un fortissimo momento di crisi per il movimento pacifista, soprattutto per quello italiano, furono le guerre in Jugoslavia nei primi anni Novanta: la riapparizione nel cuore del nostro continente di campi di prigionia, di stupri di massa, di guerra sistematica contro i civili mise in difficoltà il campo della pace. Figura emblematica di questa fase fu il mai troppo compianto e rimpianto Alexander Langer che alla fine di una vita spesa per la convivenza tra i popoli e le genti (a partire dalla sua Bolzano) e visto il fallimento dei suoi sforzi (si era appena consumato a Tuzla l’ennesimo massacro di civili, il 25 maggio del 1995), decise di mettere fine ai suoi giorni, il 3 luglio dello stesso anno. Di luglio si suicidò Angelo Vivante, di luglio Alexander Langer, ottant’anni dopo: di luglio decidono di andarsene i nostri, sopraffatti, spossati, offesi. I crimini in Jugoslavia scossero il movimento per la pace, e il pacifismo drammatico di Langer (vicino al socialismo drammatico –definizione di Luca Zorzenon8– di Vivante): Langer giunse ad invocare “un intervento internazionale (politico, certo, ma con l’uso giudizioso e mirato anche della forza armata) per fermare la guerra in Bosnia e prevenire una sua ulteriore estensione in altre parti dell’ex Jugoslavia…” in un articolo in cui avanzava la proposta di un “pacifismo concreto, con dei partner concreti” del tutto opposto a due tipi di pacifismo già allora –prima metà degli anni Novanta- obsoleti, il pacifismo “tifoso” e quello “dogmatico”9.
Troppo crudi erano i crimini, a due passi da noi, con ripercussioni dirette su parte delle nostre vite: la guerra in casa la chiamava il grande giornalista Luca Rastello, precocemente scomparso. Come mettere fine a un conflitto che stava spazzando via decenni di convivenza pacifica in uno Stato coraggiosamente nato dalle macerie della Seconda guerra mondiale? E come mettere fine, oggi, agli innumerevoli conflitti con cui abbiamo a che fare, ormai pressoché endemici, quasi orwelliani? Al pacifismo concreto di Langer accostiamo quello pratico suggerito da Dal Lago che si chiede, in questa fase di impotenza, come sia possibile “ottenere, se non un’utopica pace perfetta, una riduzione dei rischi di guerra e dei suoi costi umani?” e che in altra pagina evoca un “qualche accordo tra le potenze mondiali che limiti la tendenza alla guerra”10. Se Langer è il combattente per la pace sconfitto (come Vivante), Dal Lago è colui che ripensa al sogno pacifista, sogno giusto ma ora nella polvere, e che, armato di sconforto, prova a limitare l’orizzonte della sua azione: ma la sua proposta di affidarsi al buon volere delle “potenze mondiali” è anch’esso sconfitto in partenza. Non può esistere buon volere, nel concerto degli Stati, ma solo politica di potenza (planetaria, regionale), solo ragion di Stato, appunto, che si esplica in atti di difesa / offesa condotti solo dall’interesse. Né esistono entità sovranazionali riconosciute cui affidare il controllo delle situazioni più gravi nelle quali, eventualmente, intervenire anche con l’uso della forza: l’ONU è morta a Sarajevo, è stato ben detto, e da allora ha accumulato brutte figure (squallida quella di Srebrenica) e progressive diminuzioni del suo potere politico, sbeffeggiata dai signori della guerra locali come dalle grandi potenze e dalla NATO, organizzazione di parte che tanto ruolo ha avuto ed ha nella destabilizzazione di intere aree –pensiamo all’Europa dell’est e all’espansione dell’Alleanza Atlantica fino alle frontiere con la Russia. È vero che l’ONU è ancora in vita e che, come abbiamo sopra scritto, può essere interlocutrice efficace nelle campagne per il disarmo, ma certo il suo ruolo è oggettivamente minore: sono le grandi potenze a governare (e a finanziare) questa istituzione, e a scavalcarla quando essa osa disubbidire.
DA MOSUL
In realtà tutti i pacifismi sono stati sconfitti senza rimedio: da quello tifoso, dogmatico e campista, per aver difeso l’indifendibile (Milošević appena ieri, Assad oggi) a quello concreto. Cosa resta? La possibilità di sabotare intellettualmente la grande mascherata della guerra, individuando obiettivi raggiungibili, nel pensiero e nell’azione (un porto da cui vengono imbarcate armi per Paesi in conflitto; una banca che investe in armamenti – ritirando tutti i propri risparmi dalle banche armate). La possibilità di combattere, come hanno fatto decine di antifascisti arruolatisi nelle milizie kurde in Rojava, ad esempio, con in tasca il ricordo delle Brigate internazionali tra il 1936 e il 1939 in Spagna. La possibilità di andare a curare, a lenire la sofferenza (è la soluzione di Emergency, la più radicale e concretissima delle organizzazioni cosiddette umanitarie).
Proprio come fa un medico triestino, Marino Andolina, con cui si può degnamente terminare questa Lettera marrana. Questi, calunniato in Italia da marabutti scientisti (contro di lui una campagna sistematica dalle colonne de Il Sole 24 ore, quotidiano confindustriale all’epoca diretto da un giornalista poi indagato per false comunicazioni sociali al mercato e costretto a dimettersi) e da esponenti di una pseudosinistra micidiale, dagli anni Novanta alterna l’impegno professionale e politico a Trieste con le attività di medico di guerra, in Jugoslavia, Iraq, Siria. Proprio in questi giorni è in Iraq, a Mosul, da cui invia brevi pagine di diario, laceranti e strazianti noi che viviamo nelle nostre comode case. Riporto, da facebook, questa nota del 28 giugno: “Stamane alle 4 sveglio per il caldo e i vari pruriti da punture. Alle 7.30 senza fare colazione, né essermi lavato vado a dare un’occhiata all’ambulatorio. Trovo un’ambulanza che porta due feriti gravi. Ad uno provo il massaggio cardiaco senza successo, l’altro muore nonostante le cure dei miei colleghi della Cadus [un’organizzazione umanitaria tedesca]. Contemporaneamente una madre mi sollecita di occuparmi di suo figlio, un lattante dal brutto aspetto. Irritato le dico di aspettare, mentre cerco di rianimare il soldato. Così perdo cinque minuti ed il bambino va in arresto cardiaco. Un’iniezione intracardiaca di adrenalina fa ripartire il battito, ma alla fine la battaglia è persa.
Non ho finito di scusarmi in ginocchio davanti la madre per il mio ritardo nelle cure, che dalla porta entra una fiumana di mamme con bambini. Bambini gravemente denutriti per la mancanza di latte (le bombe tolgono i mariti e il latte alle donne) con diarrea (acqua contaminata per tutti). Chiedono latte, ma lo abbiamo finito ieri. Posso dare loro dei disinfettanti intestinali, ma niente da mangiare. Forse del latte mi arriverà dopodomani da Erbil grazie a Sally Becker. Intanto solo acqua. A mezzogiorno il maggiore in comando mi guarda in faccia e preoccupato mi ordina di andare a riposare. Due ore di sonno e poi il lavoro ricomincia tale e quale.
Andiamo a dormire presto perché domattina succederà qualcosa di terribile. I medici vengono sapere degli attacchi prima degli stessi soldati.
Ora tutti a letto.
Luce blu pulsante e sirena. Devo correre.
Aiuto.”
Qui c’è pacifismo concreto e pietà secca. Che non fermerà i combattimenti dell’infinita guerra endemica, ma che prova a salvare vite e anche demistifica l’estetizzazione della guerra (e della politica) che è l’essenza del fascismo. Nell’ultimo mediocre film di Emir “Nemanja” Kusturica –accanto al suo nome musulmano, egli ha voluto quello ortodosso-, On the Milky road- Sulla via Lattea (2017, 125’) i combattimenti sembrano battaglie di soldatini e se al candido protagonista un cecchino fa saltare un orecchio, c’è subito una fatina che glielo ricuce, il tutto in mezzo a feste balcaniche: esibizione del peggiore folklore, ma in occidente piace. Scrive, tra i tanti, Luigi Paini su Il Sole 24 ore del 4 giugno 2017, nell’articolo “Festa mobile e tragica”: “Kusturica è così e basta. Danza, vola, sogna. La realtà gli è sempre andata troppo stretta. Soprattutto la disperata realtà dei Balcani, con i suoi odi millenari, sangue, odi e vendette. Ma anche scatti improvvisi di follia ‘buona’, musica e danza, alcol a fiumi…”. Quanta paccottiglia orientalista e razzista in tre righe! Kusturica non danza non vola non sogna, ma si schiera apertamente: presenta la guerra come un gioco in mezzo al quale le anime candide possono passare indenni (persino un campo minato diventa l’occasione di un bel fuoco d’artificio con pecore a esplodere insanguinate), ed eventualmente poi espiare (per la fine dell’amata) tra segni della croce –ortodossa- e cammini di penitenza. Inganno del sogno, inganno della bellezza. Noi preferiamo la pietà secca di Marino Andolina, e di quelle/i come lui, e i versi, altrettanto secchi, di Ferida Duraković11: “…Quando la patria iniziò a sparire, tu eri grande e vecchia come il dolore, / mentre il mare si ridusse alla sola Neum e si fece di sangue. // Poi c’erano i cantanti folk, che tutto avevano in pugno…” (da “La scomparsa della patria”); oppure: “Qual è la differenza fra prima e dopo la guerra? / La pace è arrivata. / La libertà è in attesa. / La pace è arrivata 150.000 vite umane più tardi…”.
Gianluca Paciucci
* Le foto sono di Gianluca Paciucci
Note
1 Interessante il libro di Alberto Negri, Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente, Rosenberg&Sellier, Torino, 2017, pp. 126, con una pessima postfazione di Lucio Caracciolo, direttore di Limes. Vi è una sorta di marranesimo nella dissimulazione praticata dagli alauiti “per sopravvivere in ambiente ostile” (pag. 70). Ma quando chi dissimula, anche dopo secoli, giunge al potere, come si comporta? Il clan alauita degli Assad ha mostrato ferocia.
2 fonte Marco Valsania, “Gli strateghi di American first”, Il Sole 24ore, 9 aprile 2017. Se poi gli statunitensi evitassero di metter ai loro ordigni di guerra nomi –come Tomahawk, appunto, o Apache, per degli elicotteri da guerra- presi dalle lingue dei nativi d’America sterminati dai bravi WASP (bianchi/anglosassoni/protestanti), il mondo ne sarebbe felice. O almeno chi scrive queste righe.
3 Giulia e Piero Pruneti, “Incontro con Paolo Brusasco”, in Archeologia viva, n. 183, maggio/giugno 2017.
4 pag. 55 in Alessandro Dal Lago, Pacifismo in pratica. Sun Tzu e il terrorismo, Il Melangolo, Genova, 2016, pp. 155. Dal Lago trae queste informazioni da un articolo comparso su La Stampa (F. Femia e U. Leo, “La mappa delle vittime del terrorismo”, La Stampa, 17 novembre 2015).
5 pp. 130-1 in A. Dal Lago, op. cit.
6 pp. 85-6, in A. Dal Lago, op. cit.
7 Angelo Vivante, “I don Basilio della borghesia. Giulia ed Alsazia. Le deformazioni fondamentali”, in L’Avanti del 23 gennaio 1914.
8 da uno scritto inedito dello storico triestino Luca Zorzenon, “Far parlare Angelo Vivante” (1° luglio 2017).
9 Alexander Langer,”Pacifismo tifoso, pacifismo dogmatico, pacifismo concreto”, nell’antologia Pacifismo concreto. La guerra in ex Jugoslavia e i conflitti etnici, Edizioni dell’Asino, Roma, 2010, pp. 78. La più completa raccolta di scritti langeriani è ancora Il viaggiatore leggero. Scritti 1961 – 1995, Sellerio, Palermo, 1996, pp. 332. Per il nostro discorso, importanti i testi “Uso della forza militare internazionale nell’ex-Jugoslavia?” (da un’intervista radiofonica del 6 luglio 1993) e “Di fronte ai giovani massacrati a Tuzla” (da L’Alto Adige del 30 maggio 1995).
10 Dal Lago, op. cit., pagg. 130 e 135.
11 Ferida Duraković, Si paga con la vita. Sarajevo 1991- 2012, Il Ponte del Sale, Rovigo, 2015, pp. 131 (traduzione di Alice Parmeggiani, testo bosniaco a fronte). La cittadina di Neum nei versi citati è la più importante in quel piccolo affaccio sul mare che è rimasto alla Bosnia Erzegovina dopo la fine della Jugoslavia.
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