“Uccidere un uomo per difendere un’idea, non è difendere un’idea, è uccidere un uomo”
(Sébastien Châteillon, 1554, citato in Notre musique, 2005, film di J-L. Godard)
La morte rossa, come ogni morte causata da un atto politico, può essere morte subìta o morte data. Della prima, a sinistra, si è parlato per decenni: martirologio della Resistenza, in Italia e altrove (il PCF partito dei “75.000 fucilati”, ad esempio, da ridurre a circa 4.000, secondo recenti ricerche), violenza delle repressioni fasciste oppure ad opera di Stati democratici (ma non delle democrazie popolari: lì i morti erano considerati controrivoluzionari, e non contavano), e anche morte da fuoco amico nelle sanguinose lotte interne al movimento operaio e contadino, come a Barcellona nelle giornate del maggio 1937, guerra agli anarchici e ai marxisti devianti dall’ortodossia sovietica, guerra intestina che ancora genera terrore. Un libro di Fabio Giovannini si è occupato del rapporto tra i “marxisti e la morte”1. Importante il quadro teorico complessivo (Marx, Ernst Bloch, Heller ma, purtroppo, niente De Martino, niente Di Nola, ovvero nessuno di coloro che unirono al marxismo una forte riflessione antropologica, e ricerca sul campo), forti alcuni passaggi: “…lo stalinismo innescò una serie di ‘doppie morti’ (…). Doppiamente vittima della morte rossa è stato (insieme a moltitudini talora ignote) un comunista come Michail Koltsov, che ha incontrato di persona i due aspetti violenti della morte rossa: giornalista, inviato in Spagna durante le fasi più dure della guerra civile, si trovò a faccia a faccia con l’ecatombe di antifascisti provocata dalle armate di Franco (…); rientrato in patria, venne arrestato e, nel 1942, morì in carcere in circostanze misteriose, vittima di un’altra ecatombe, quella della repressione staliniana. Koltsov, che era entrato a vent’anni nel partito comunista e nell’Armata rossa, ebbe come troppi altri in sorte di sfuggire alla morte rossa subita, ma non alla morte rossa data…” 2
ANNI SETTANTA
Però Giovannini nel suo saggio non parla della morte che appena prima degli anni in cui scriveva era dispensata in modo oculato (non stragista) dai rossi: anni del terrorismo comunista delle Brigate Rosse, ma anche di altre bande armate che insanguinarono gli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta con una stupida ferocia che è concausa e parte centrale del problema oggi chiamato scomparsa della sinistra (comunista, ma non solo). Se la demonizzazione –ora egemone- di quanto accaduto e la sua riduzione a una lunga fila di crimini è ridicola, ugualmente ridicola è l’angelizzazione del movimento operaio e studentesco che, soprattutto nelle sue derive più estreme, cozza con la spietata realtà dei fatti. Stato, destra eversiva con le sue complicità con i servizi segreti, e terrorismo di marca brigatista: tutti uccisero, ma più spaventose di tutte sono le morti provocate dai tuoi, da coloro con cui molto si era condiviso e che pure scelsero strade dirette in vicoli ciechi, così contribuendo alla cecità dell’oggi. Il delitto Mattei a Roma la notte tra il 15 e il 16 aprile 1973 (militanti di Potere operaio appiccarono il fuoco alla porta della casa di Mario Mattei, segretario della sezione MSI di Primavalle; morirono due dei figli del militante missino), il delitto Mazzola e Giralucci a Padova il 17 giugno 1974 (due militanti del MSI uccisi nella sede padovana di questo partito da un commando delle Brigate rosse) o l’assassinio di Sergio Ramelli a Milano il 13 marzo 1975 (uno studente di diciotto anni ucciso a colpi di chiave inglese da militanti di Avanguardia operaia) sono solo tre dei tanti fattacci di quella storia, lontana nel tempo ma prossima per ferite aperte. Sconcerta la desolante leggerezza con cui si pensavano atti atroci di cui non si potevano non prevedere le conseguenze. L’orrore dei tempi non giustifica: non giustifica i giudici nella Storia della colonna infame di Manzoni che avrebbero potuto non condannare i presunti untori (Manzoni –in questo, e altro, apprezzato da Sciascia- crede nel libero arbitrio, al contrario di Pietro Verri che nel suo Osservazioni sulla tortura pensa che non vi fosse altra strada per giudici del tutto immersi nella mentalità chiusa e superstiziosa del primo Seicento lombardo); come non giustifica le taniche di benzina, gli inneschi, le spranghe e le pistole usate con stupida e criminale leggerezza. Non giustifica le modalità adottate, lo slogan “uccidere un fascista non è un reato”, le vigliaccherie di agguati e controagguati. Vigliaccherie da entrambe le parti: l’autoassoluzione, autoinnocentizzazione da parte del mondo fascista per le sue violente bravate è irritante. Ne sono testimonianza due opere mediocri come il fumetto su Almerigo Grilz o il romanzo Nessun dolore di Domenico Di Tullio3. In questi testi vengono messi in scena gruppi di compagni, regolarmente più numerosi dei camerati e regolarmente vigliacchi: invece il manganello usato sistematicamente da picchiatori dell’estrema destra, alcuni dei quali immischiati in vicende di spaccio, in queste e altre opere viene sempre considerato un’arma di difesa, quando invece squadracce imperversavano e terrorizzavano interi quartieri. Ma ancora: nemmeno questo giustifica i rossi, i nostri. Che al tempo tentarono una lettura obliqua dei fatti: chi uccide in nome del comunismo non può essere un comunista; può essere solo, ed è, un fascista. “…un compagno non può averlo fatto…”, si canta nella Ballata per Pinelli: vero, nel caso dell’anarchico milanese accusato di un qualche ruolo nella strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969, verso il cinquantesimo anniversario…) e poi ucciso nei locali della questura di Milano; falso in moltissimi altri casi. I compagni e le compagne hanno ucciso, a cominciare dal commissario Calabresi, proprio in nome del comunismo. Il caso delle Brigate Rosse è esemplare. Scrive Andrea Colombo in Un affare di stato: [della cultura comunista] “le Br condividono quasi tutto: l’etica lavorista, la sfiducia nella spontaneità dei conflitti e il primato assegnato alla mediazione politica, l’identificazione del soggetto sociale privilegiato e unico portatore di innovazione con una classe operaia tradizionale che nel ’78 aveva già perso ogni centralità…”4. Sono personaggi centrali nella storia brigatista –Mario Moretti, Barbara Balzerani, Prospero Gallinari, Alberto Franceschini- a insistere sulla filiazione della loro vicenda da quella del Partito Comunista Italiano. Conclude Colombo: “…Pur non unica, la componente brigatista che deriva direttamente dal Pci è determinante nell’indirizzare la cultura politica e la mentalità delle Br…”5 Le altre componenti –quella cattolica, quella libertaria, quella terzomondista con il sogno di una guerriglia di stampo sudamericano- rimandano in ogni caso alle varie famiglie della sinistra italiana e internazionale/internazionalista. Scrollarsi questa storia di dosso con una scrollata di spalle, significa lavarsi con troppa leggerezza la coscienza.
L’ORIENTE ROSSO
Anche le vicende più estreme del comunismo novecentesco fanno parte della storia di questo movimento/pensiero. Quella della Cambogia di Pol Pot e dei khmer rossi, cui si attribuisce uno degli ultimi genocidi del Ventesimo secolo. Per i rapporti tra questa vicenda, rinnegata ed espulsa dall’immaginario progressista, e il mondo delle sinistre occidentali soccorre ancora Fabio Giovannini in un altro suo importante libro: “…Al contrario di quanto affermato da tanti opinionisti e politici della sinistra, e tra gli stessi comunisti, Pol Pot non è un’anomalia, un corpo estraneo. Pol Pot è viceversa pienamente interno alla tradizione delle forze politiche marxiste e comuniste del Novecento. E la sua rivoluzione (un’attuazione integrale degli schemi derivati dal ‘socialismo scientifico’) è stata affine per esiti alle tante rivoluzioni socialiste del Novecento (…). Il mistero di Pol Pot, forse, è racchiuso nelle poesie francesi che amava citare, soprattutto le Ariettes oubliées [Ariette dimenticate, nota di chi scrive] di Verlaine imparate durante i suoi studi giovanili a Parigi. Un amore per Verlaine che svela la sua formazione nella cultura occidentale, nutrita da un marxismo razionalistico…”6 Così Giovannini apre ogni capitolo del libro con un’arietta malinconica: “C’est bien la pire peine / De ne savoir pourqoi / Sans amour et sans haine / Mon coeur a tant de peine” (E’ la pena peggiore / Di non saper perché / Senza amore e senza odio / Il mio cuore soffra così)… Non certo il miglior Verlaine, ma quello cantabile e significativamente amato da Pol Pot: malinconia e crimine, crepuscolarismo e genocidio possono andare a braccetto, senza scandalo. A collegare l’interpretazione data dalle varie sinistre, soprattutto italiane, al fenomeno brigatista con quella usata per Pol Pot è lo stesso Giovannini, commentando un articolo dedicato nel 1997 alla vicenda cambogiana dal quotidiano comunista Liberazione: “…Come non si volle vedere la parentela tra il marxismo e l’estrema sinistra, come si negò ‘l’album di famiglia’ del comunismo nostrano, così si acquisisce la falsa coscienza di un Pol Pot che non appartiene alla propria storia, ma che diventa una pedina del nemico di classe”7/sup>, servo degli Stati Uniti, nel caso specifico. È per tutto questo – è anche per tutto questo – che le sinistre arrivano spossate al Terzo millennio, incapaci di fare i conti con il proprio passato e quindi incapaci di leggere il presente: sovranisti e liberisti d’ogni razza sono invece più attrezzati, più robusti nell’inganno, più armati rispetto alla falsità e alle ripetute negazioni di cui è ricca la loro storia. Ecco perché è possibile che interi parlamenti, anche in Europa (Polonia ed Italia, ad esempio), siano ormai privi di rappresentanza qualificata a sinistra; ecco perché dall’egemonia delle sinistre di buona parte del secondo dopoguerra si è passati all’attuale crisi e al discredito. Al disprezzo, che si tocca con mano in incontri pubblici e in discussioni colte in autobus. In questa situazione quasi tutti gli ex, dai più rozzi ai più raffinati, sono ridotti al ruolo di smemorati custodi della memoria, con sporadici scattini di rivendicazioni militanti: una manifestazione antifascista (spesso ipocritamente indignata e isolata da ogni contesto di reale contraddizione), una raccolta di indumenti per i più poveri, un flash mob, qualche piazzata d’orgoglio di qualche sguaiato sindacalista. Ma niente, niente che somigli a una analisi (dell’attuale mercato del lavoro e del trionfo del caporalato, ad esempio) e a una costruzione, a un processo/progetto, alla posa di una prima pietra, tranne là dove, spesso nel silenzio, i corpi e i pensieri si uniscono e in solidarietà elaborano condivisioni: nel rispetto dell’altra/o, senza prevaricazioni, senza superbia.
LA TERZA ASSOLUZIONE
La terza autoassoluzione, o meglio assoluzione proveniente dal collegio giudicante dei media, è quella dello Stato. Una lettura innocentizzante dell’operato degli apparati della Repubblica italiana può essere trovata nei volumi, peraltro molto articolati, di Vladimiro Satta. Egli scrive: [nel periodo che va] “dall’inizio degli anni Sessanta alle prime settimane del 1968 (…) l’Italia si distingueva per l’alto livello di libertà civili e politiche garantite ai singoli cittadini e alle associazioni. Sussisteva innanzitutto –e non venne mai meno- la più larga facoltà di esercitare i diritti politici in maniera democratica…”8 Tutto questo in pieno boom economico e con forze di sicurezza in parte rese meno violente dalla presenza di un governo di centrosinistra. Dal 1968 agli anni Ottanta, invece, in questo paradiso si scatena una guerra a bassa intensità di cui però non si capiscono le cause, e Satta non aiuta minimamente a farlo. Secondo lui lo Stato, soprattutto negli anni di piombo, si sarebbe comportato in modo impeccabile: “…gli errori e le manchevolezze di vario tipo –operativo, amministrativo, giudiziario, normativo e politico- furono compensate da decisioni opportune e da successi che, messi insieme, portarono alla vittoria finale…”9 Vittoria finale: su chi e per chi? Contro l’insorgenza armata, sicuramente, ma anche contro ogni possibile opposizione allo sviluppo capitalistico, e a quello gemello del socialismo reale, che infatti venne soffocata già nei primi anni Ottanta sia in Italia (marcia dei 40.000 alla FIAT, referendum sulla scala mobile) sia nel resto del pianeta. Il ciclo aperto nel 1945 si chiuse, forse in modo definitivo, nella potentissima reazione guidata da Reagan, Thatcher e Giovanni Paolo II: questa è l’ulteriore vittoria finale. Stupisce il fatto che Satta, nell’elogio dei successi dello Stato italiano, non consideri la furia di questo stesso Stato negli anni dal dopoguerra a oggi: basta leggere documenti di intellettuali schierati, ma capaci di radicale onestà, per capire come si siano comportate le forze dell’ordine in tutto l’arco della vicenda repubblicana. Per questo rimandiamo ai volumi di Cesare Bermani e di Oreste Scalzone10: le cifre riportate nei due volumi sono impressionanti (vedi nota). A questo altissimo numero di morti occorre aggiungere le complicità acclarata dello Stato con le varie mafie, la distruzione del paesaggio e delle tradizioni (sacco di Roma, sacco di Palermo, etc., ad opera di ministri e sindaci democristiani), la forzata industrializzazione di cui ancora oggi paghiamo le spese (l’oscenità assassina della siderurgia –Taranto, Gela, Cornigliano, Livorno-, l’amianto, i morti sul lavoro, per cancri e incidenti). Questo è lo Stato che ha conseguito la vittoria finale non solo sul terrorismo rosso ma su ogni possibilità di opposizione alla megamacchina tecno-capitalista (è una buona definizione coniata da Scalzone) che tutto assoggetta e mette al lavoro: è una vittoria di cui rallegrarsi? O meglio, è la vittoria di uno Stato di cui esser fieri e da cui sentirsi protetti?11
USCIRE DALLA STORIA
Le tre (auto)assoluzioni che hanno fondato il nostro presente si basano su ideologie che hanno in comune l’accettazione delle cose così come stanno e, al tempo stesso, il loro tumultuoso e incessante desiderio di trasformarle radicalmente (ma solo il capitalismo è riuscito, in questo, e riesce); nelle tre si rintracciano elementi di continuità e contiguità, tanto da far pensare a tre fasi diverse di uno stesso processo storico, costruito sulla complicità oggettiva: il capitalismo ha bisogno dei fascismi per difendersi dal pericolo rosso (durante la guerra civile europea dal 1914 al 1945, e oggi con rinnovato zelo) o dell’aborrito Stato, quando serve (il new deal, i salvataggi delle banche da parte di Obama nel 2008); il comunismo bolscevico ha bisogno dei meccanismi del capitale per difendere la propria vittoria (la NEP di Lenin) o per sviluppare il Paese (la Cina del dopo-Mao); i fascismi sempre pronti ad essere il braccio armato del capitale oppure a diventare di sinistra/nazionalsocialismi con un welfare da fare invidia alle migliori socialdemocrazie, condito da imprese imperialistico-razzistiche. Ma non sono, tutte queste, forme di un solo flusso, di una fiumana che – positivisticamente – tutto trascina con sé senza curarsi dei “deboli che restano per via”, dei “fiacchi”, dei “vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi affrettati anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani” (Verga, prefazione ai Malavoglia, 1881)? Se la “Storia è il risultato delle azioni patriarcali”12, e tutte le azioni descritte in questa Lettera marrana lo sono, non è proprio questa Storia che va sabotata, spezzata, fatta uscire dai binari o sgangherata. Sgangherare la Storia significa uscire dalla guerra, e anche dalla guerra civile, senza niente risparmiare o perdonare ai poteri. Le chiavi inglesi sulla testa di Ramelli o altre spaventose azioni, in un quartiere di Roma o a Phnom Penh, non hanno fatto altro che confermare la Storia nel suo lato più oscuro, nel suo crimine quotidiano, ineffabile, naturale.
Gianluca Paciucci
Foto di Gianluca Paciucci
1Fabio Giovannini, La morte rossa. I marxisti e la morte, Dedalo, Bari, 1984, pp. 117.
2pag. 65, Giovannini, op. cit.
3AA.VV., Almerigo Grilz. Avventura di una vita al fronte, Ferrogallico editore, s.l., 2017, pp. 112, con appendice fotografica; Domenico Di Tullio, Nessun dolore. Una storia di Casapound, Rizzoli, Milano, 2010, pp. 226. Si tratta di opere falsanti perché autoinnocentizzanti, ma assolutamente da leggere per capire una mentalità e una comunità. Ugualmente importante, ma ben diversamente sconvolgente, il volume di Marco Carucci e di Paola Ramella Sergio Ramelli. Quando uccidere un fascista non era reato, Ferrogallico editore, s.l., 2017, pp. 142. Per una visione d’insieme, sostanzialmente corretto e non proveniente da un’area interna ai movimenti di estrema destra, è il volume di Luca Telese, Cuori neri. Dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli. 21 delitti dimenticati degli anni di piombo, Sperling&Kupfer, Milano, 2006, pp. 801.
4pag. 88 in Andrea Colombo, Un affare di stato. Il delitto Moro 40 anni dopo, Cairo editore, Milano, 2018, pp. 287.
5A. Colombo, op. cit., pag. 89. Il ’77 presenterà elementi nuovi, in questo senso: “…Scrive il Nucleo Autonomo di Quarto Oggiaro di Milano, protagonista degli scontri del ’75: ‘Noi non abbiamo miti di fronte ai quali inchinarci!!! Non siamo marxisti, tanto meno leninisti. Siamo delle coscienze rivoluzionarie. Ci sta bene tutto ciò che è realmente radicale. Seppelliamo i cadaveri delle vecchie ideologie!!!’…” (pag. 211 in Oreste Scalzone, 77, e poi…Da una conversazione con Pino Casamassima, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 333). Né le BR né il PCI, anche in questo accomunati, riuscivano a capire quanto stava accadendo nelle periferie delle principali città italiane in cui agivano soggetti/vittime del violento passaggio alla realtà post-industriale.
6pp. 8-9 in Fabio Giovannini, Pol Pot. Una tragedia rossa, Datanews, Roma, 1998, pp. 135.
7pag. 124 in Fabio Giovannini, op. cit., 1998.
8pag. 13 in Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica. Storia degli anni di piombo, Rizzoli, Milano, 2016, pp. 894.
9pag. 11 in V. Satta, cit.
10Cesare Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotte di classe in Italia (1943-1976), Odradek, Roma, 1997, pp. 325. Vedi soprattutto il capitolo “La democrazia reale”, pp. 265 – 313, che prende in considerazione anche le vittime della famigerata legge Reale che permetteva alle forze dell’ordine di ricorrere alle armi in modo sistematico. Scrive Bermani di “un migliaio di proletari uccisi nella guerra di classe nel periodo che va dal 25 luglio 1943 alla fine degli anni ‘70” (pag. 309); alla legge Reale, e quindi direttamente alle forze dell’ordine, vanno attribuiti 254 morti tra il 1975 e il 1989 e circa 175 dal 1989 al 1997. Il secondo volume che evochiamo è di Oreste Scalzone, vedi nota (5). A pag. 57 di questo testo leggiamo: “…la violenza poliziesca, nell’Italia repubblicana, ha una lunga storia costellata di morti ammazzati: dal ’46 al ’69, quindi in ventitré anni, le forze dell’ordine hanno fatto 171 morti, braccianti che occupavano le terre, operai ai picchetti (…). Poi ci sono stati morti non imputabili a iniziative dirette di corpi dello Stato, come a Portella della Ginestra…”. Bermani e Scalzone, da punti di vista diversi, nell’uguale radicalità delle posizioni, sono tra i pochi a negare l’angelizzazione dei movimenti, e le angelizzazioni tout court, comprese –ovviamente- quelle dei fascisti e dello Stato.
11lucidamente Scalzone scrive, a pag. 132 del suo volume sopra citato: “…Fare del negazionismo rispetto al problema della violenza significa occultare che la legalità è violenta, così come è violento lo Stato, come lo sono i giudici in quanto rappresentano e incarnano quel ‘monopolio statale della violenza legittima’ che si chiama Legalità…”; e aggiunge a pag. 145, per illustrare la violenza invisibile del capitale: “…ci mettono al lavoro anche quando non lavoriamo, anche quando facciamo la spesa o guardiamo la televisione. Lavoriamo, per loro, ventiquattr’ore su ventiquattro! È la nostra vita a essere messa a valore, il nostro tempo, tutto il nostro tempo…”.
12pag. 20 in Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, et al. edizioni, Milano, 2010, pp. 127. In questa edizione sono raccolti scritti del periodo 1970 – ’72.
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