LIBERARE GRAMSCI
Liberare Gramsci vuol dire prestare ascolto ai/alle migranti, contro la reazione e le sterili sinistre di governo, e contro quelle mutile all’opposizione.
L’atmosfera di intrigo che si respira nei partiti (soprattutto in vista delle elezioni), nei movimenti e nelle aggregazioni della cosiddetta società civile è tanfo che cresce e che piglia alla gola. Si entra in luoghi pre o postmoderni –coscienti che la modernità è finita da un pezzo, e che quindi anche ciò che da questa ha preso l’abbrivio, pre o post, non esiste più, se non deformato/degradato- e dopo i convenevoli iniziali, in cui tutto sembra gradevole, ci si accorge che molto è stato deciso prima e in altri luoghi, e che quindi la presenza dei cittadini e delle cittadine a riunioni spacciate per decisive e decisionali è pura finzione; non passano pochi minuti che cominciano le asprezze con vecchi e nuovi rancori, ed arcaici ego, a balzare sul tavolo delle trattative e a imporre un altro ordine del giorno, anche questo deciso altrove, nelle stanze di qualche celeste timoniere o in precedenti simposi di parole torbide e democrazia sbeffeggiata. Sembra di essere in qualche pagina de La nausea di Sartre, in cui il mondo pieno esclude il povero soggetto che smarrito cammina ai bordi: questi gli incontri della politica, per decidere il nome di un sindaco (quasi ovunque al maschile) o l’appartenenza a una coalizione, ma anche dell’umanitario, spesso luogo altrettanto fanatico di combine e di giochi di potere. Luoghi pieni, senza di me: ma questo me è la maggior parte delle persone perbene, coinvolte e subito messe in un angolo, impossibilitate a partecipare effettivamente alle scelte. Leader minimi d’infimi partiti, leader maximi di partiti infami, scout, preti, animatori, gente del sindacato, gruppi di femministe le une armate contro le altre o capocondomini, poco cambia: le stesse tristi parole, e sgrammaticate, per riconoscere i propri simili e gettare ai margini gli/le altri/e. Quando fuori da quello che ormai banalmente viene chiamato il cerchio magico si aggira qualche giovane che per abiti di scena e lessico sembra assomigliare a quelli di dentro, scatta la cooptazione. Questa è la vera antipolitica che, sommata alle altre forme del neoqualunquismo contemporaneo (l’assolutizzazione del web come luogo della democrazia, lo stupidario dei social network e le primarie di certi partiti, che sostituiscono i congressi –è stato sottolineato- così esaltando accordi illeciti, brogli e voto di scambio), spoliticizzano in profondità il presente in cui siamo e in cui possono farci di tutto.
L’INFINITO CARCERE
Terribile è accorgersi di questa catastrofe quotidiana al termine di una vita spesa per la causa (poco importa quale), spesso vissuta nel sacrificio di sé e nel dolore dei propri cari, trascurati/e. Terribili queste parole: “…Certe volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per me) errore, un dirizzone…”, scritte da Antonio Gramsci a Tania Schucht il 27 febbraio 1933. Le lettera è riportata in appendice a “I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista”1 e ampiamente commentata nel sesto paragrafo del primo capitolo di questo libro. L’impianto del testo di Lo Piparo è stato da molti sottoposto a critiche severe, e anche a mio avviso ne va ridimensionata la capacità di rottura perché cede troppo alla ormai dominante vulgata anticomunista e antitogliattiana: sembra che a uccidere Gramsci ostacolandone la liberazione sia stato Togliatti, allora capo indiscusso del PCI, e non il fascismo. Ora questo non è vero, semplicemente. Chi scrive è un antitogliattiano di ferro, non foss’altro che per il cedimento ideologico sull’articolo 7 della Costituzione italiana, immane sciagura: aver permesso di inserire nella carta costituzionale il concordato firmato nel 1929 tra il fascismo e la chiesa cattolica, cioè tra un regime violento e nei fatti antireligioso, e il Vaticano, ovvero uno stato straniero, autocratico e alleato di Mussolini, è macchia indelebile e vulnus giuridico che ancora oggi mina le fondamenta della Repubblica. Ma ritenere Togliatti responsabile di un complotto ai danni di Gramsci e della manomissione dei “Quaderni dal carcere” sulla base di prove inesistenti, ovvero di pure illazioni, ce ne passa. Però anche chi condivide le critiche al libro di Lo Piparo, e penso a Sergio Luzzatto2 , inserisce il suo articolo in un contesto in cui l’occhiello è ‘Addio al comunismo’ e il sommario recita ‘Da Franco Lo Piparo una rilettura esemplare di una lettera esopica dell’intellettuale sardo, che sarebbe stato vittima di una censura del Pci persino più severa di quella del regime fascista’. Certo, c’è quel condizionale, ‘sarebbe’, con cui titolisti e autore dell’articolo prendono in parte le distanze dall’assunto principale del testo, ma il tono complessivo è inequivocabile, e scontato: fascismo e comunismo come assassini di Gramsci. Si tratta di un punto di vista persino farsesco ma alla moda, e che può passare solo nella retriva Italia di questi anni: depotenziare Gramsci presentandolo come uno studioso traviato dalla politica cui si sarebbe dato solo per una piccola parte della sua vita3 o farne un liberale o, peggio ancora, “un patrimonio per l’intera democrazia italiana”4 è operazione di bassa qualità ma che ha come risultato ultimo quello di depotenziare la democrazia nei suoi aspetti più irriducibili a pensieri e pratiche alternative allo squallido quotidiano sfarsi della forza dei popoli, in questo inizio di terzo millennio. Questo è l’infinito carcere di Gramsci. Proprio il comunismo eretico di Gramsci, proprio la sua curiositas per ogni cosa, innestata nel profondo di azioni rivoluzionarie, proprio il suo dimenarsi in carcere come un leone catturato (la sua capigliatura nell’iconografia che abbiamo tutti/e in mente è una criniera) ma intenzionato a venirne fuori5, rappresentano un lascito altissimo: non il suo (presunto) addio al comunismo, ma il suo corpo rinchiuso per comunismo nel carcere fascista ci dice come si possa pensare ed agire. Non a caso almeno da trent’anni a queste parte gli sono capitate sciagure su sciagure: strattonato a destra e a sinistra, letto e usato dai ‘fascisti del terzo millennio’ (trogloditi come quelli del secondo), usurato dai rossobruni, non amato dagli anarchici6.
DIRIZZONI, ABBAGLI
Questo Gramsci diventato mentore di imprese politiche raccogliticce e padre tutelare dei più diversi partiti e movimenti, fortunatamente a qualcuno sta ancora antipatico, per certi eccessi linguistici giovanili: a Roberto Saviano, ad esempio, che se la prende, dall’alto dell’indiscutibilità delle sue opinioni, con una certa sinistra, fuori dal parlamento, “che vive di dogmi” ed è fatta di “sopravvissuti di un estremismo massimalista che sostiene di avere la verità unica tra le mani”. Queste ed altre perle infarciscono un articolo-recensione del 20127. Un articolo pieno di banalità, di ‘dogmi’, i suoi, che sommano disprezzo e imprecisioni a dualismi di quarta categoria: ai ‘massimalisti’ (Gramsci ed epigoni) si contrapporrebbero, ieri come oggi, i ‘riformisti’ (Turati ed epigoni). Ma chi sono i riformisti, oggi? Quel criminale di guerra a piede libero che risponde al nome di Tony Blair e che scatenò la seconda Guerra del Golfo, in base a una documentazione da lui stesso oggi, in un’intervista alla Cnn del 24.10 2015, dichiarata falsa (una confessione in piena regola, quella dell’ex premier laburista): egli, con il suo padroncino Bush, ha sulla coscienza un embargo negli anni Novanta che ha causato mezzo milione di morti in Iraq, e poi una guerra che ha distrutto un Paese e causato altre centinaia di migliaia di morti, fino al disastro attuale. C’è qualche giudice che possa spiccare un mandato di cattura internazionale? E cosa ne pensa il Tribunale dell’Aja? Il riformista Blair meriterebbe di marcire in una prigione, magari nella stessa cella (dorata) di un Mladić, di un Karadzić, dilettanti massimalisti e pallidi imitatori del criminale su larga scala Blair. Uguale trattamento si dovrebbe riservare al riformista Renzi, complice della dittatura del generale Al Sisi in Egitto e che sta per scatenare un’ennesima tempesta di fuoco sulla Libia, così come i riformisti Hollande e Valls, i democratici Obama e, in un futuro prossimo, Hillary Clinton (che votò per l’intervento in Iraq) e quanti, quanti altri e altre, i cui modi urbani grondano veleno. Saviano dimentica le guerre, sangue del Novecento e del terzo millennio, sangue dei popoli sparso da dittature come da democrazie e con la stessa disinvoltura che ne rivela lo sprezzo della vita umana (ladri di vita, si diceva –ma riformisti, e questo li salverebbe); e dimentica le guerre economiche, le guerre di saccheggio ai danni del pianeta. Perché andremo in guerra in Libia? Lo dicono un articolo e una cartina pubblicati da Il Sole 24 ore8: una lettura agghiacciante. L’autore parte da una considerazione banale ma che, finora, si poteva leggere solo in siti proibiti (antagonisti, estremisti, terzomondisti, rossobruni, massimalisti, etc.): “…la Libia era al primo posto in Africa nell’indice Onu dello sviluppo umano, adesso è uno stato fallito…”; ma la Libia è soprattutto “un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto nel caso che un ipotetico Stato libico, magari confederale e diviso per zone di influenza, tornasse a esportare come ai tempi di Gheddafi…”. Come ai tempi di Gheddafi? Ma allora perché l’avete braccato e ammazzato come un cane? E poi: zone di influenza? Sì, tre, con la Tripolitania assegnata all’Italia, il Fezzan alla Francia e la Cirenaica alla Gran Bretagna (guardare, nel giornale, la cartina accanto, fonte Africa-confidential.com- 2014, prestando attenzione a questa data…), il tutto con la supervisione strategica statunitense. Neocolonialismo, quindi, e non lotta al terrorismo. E bottino (tre occorrenze decisive, nell’articolo), bottino di guerra, come al tempo delle peggiori razzìe dei secoli passati. Con la Russia a far capolino (“…anche i russi, estromessi nel 2011 perché contrari ai bombardamenti, vogliono dire la loro: lo faranno attraverso Al Sisi al quale vendono armi a tutto spiano insieme alla Francia…”) e la Francia, cui l’articolista dedica tutta la parte finale: “…Sarkozy attaccò Gheddafi senza neppure farci una telefonata. Oggi sappiamo i retroscena. In una e-mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile 2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivela che Gheddafi intendeva sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra moneta panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente da Parigi (…). Poi naturalmente c’era anche il petrolio della Cirenaica per la Total…”. Questo il liberale-liberista Sarkozy, non una iena fondamentalista, in combutta con gli altri governi dell’occidente democratico. Non mi fido dei siti massimalisti, e in questo sono d’accordo con Saviano, ma del quotidiano della Confindustria sì. Sfacciati criminali, senza pudore: ecco i riformisti, alla guida della macchina capitalista che è essenzialmente macchina bellica.
SABOTANDO L’ORRORE
I potenziali nemici di questa macchina, i sabotatori (non i criminali jihadisti finanziati da padroni capitalisti in Arabia Saudita, Turchia, Qatar) sono però bloccati nelle sabbie mobili del non pensiero, della non azione. È loro (è mio) il dirizzone di Gramsci, l’abbaglio, l’inganno che diventa autoinganno in chi ancora oggi entra in polverose stanze oppure frequenta altrettanto polverosi social network. Ogni parola, ogni gesto che si immette nell’arena pubblica è subito sporcato, reso vilissimo fango; l’intrigo, la non fiducia, il non entusiasmo e la non speranza regnano. Scrive Gramsci (ovvero il sabotatore in carcere), nella lettera sopra citata: “…Da tutto l’insieme sento che sto attraversando la fase più critica della mia esistenza e che tale fase non può durare a lungo senza determinare, fisicamente e psichicamente, risultati e complicazioni da cui non si può tornare più indietro perché decisive…”. Questo sta accadendo a noi, si parva licet, figli del sospetto reciproco, incapaci di alzare il capo e di aprirsi all’altro/a, incapaci di quell’ “ampliamento del dovere” (Marc Bloch) di cui parlammo nella precedente lettera marrana. E anche meschini, siamo, poveri dentro: a una manifestazione pacifista lo scorso 16 gennaio (anniversario della prima Guerra del Golfo) un leader maximo, ma solo per stazza, caccia dalla piazza un uomo palesemente disturbato ma inoffensivo, gridandogli con disprezzo “va’ via, ‘mbriagon” (vattene, ubriacone); l’uomo viene accolto da un paio di poliziotti in tenuta antisommossa, molto più umani, nel frangente, del leader anticapitalista. Immagini come questa mi spezzano. Nel frattempo le peggiori paure di cui parlammo già nelle prime Lettere marrane si stanno rivelando autentiche; e tremano le mura delle nostre città sotto la spinta di barbari che le guerre occidentali-orientali stanno spingendo a milioni fuori dai meravigliosi Paesi, ora in macerie, in cui sono vissuti per secoli e millenni. Tremiamo e ci armiamo. Forse non siamo ancora nella fase culminante, nel momento di massima tensione: “…Viviamo in tempi che nessuno –per quanto vigliacco- è sicuro di svegliarsi domani nel letto…”, scrive Cesare Pavese all’inizio del cap. XIV de “La casa in collina”, romanzo ambientato tra il 1943 e il 1944 (straziante ne è l’ultimo capitolo). Non è ancora così, oggi, qui da noi, e le dominanti norme e normalità sono per il momento salvaguardate: ma fino a quando? Migliaia di donne e uomini sono bloccati nel gelo dei Balcani, intere città nella Siria civilissima –nonostante la canaglia Assad- sono ceneri di carni e di case bruciate, come nella civilissima Palestina, nel Libano, in tutto l’arco della mezzaluna fertile. Alcuni si illudono di potersi salvare: così Israele, che abbatte case di palestinesi e con quelle antiche pietre costruisce le proprie nuove-antiche abitazioni9; così in Italia, con le politiche di distruzione di quel che resta dello stato sociale e con i continui richiami alle ruspe per campi nomadi e altri alieni (secondo spregevoli leader leghisti); così i suprematisti bianchi o gialli del pianeta. Ma non così a Grozny, a Kabul, e altrove: da decenni lì uomini e donne non sono sicuri/e di svegliarsi l’indomani nel letto. Le case vengono abbattute, gli esseri umani schiavizzati. Necessità di un nuovo principe planetario, per restare con Gramsci? Quale occasione migliore di questa? Se non fossimo stati polverizzati, sfiniti dentro, ridicolizzati.
IL NOSTRO MALE VIENE DA PIÙ LONTANO
Traduco da Alain Badiou: “Penso che la funzione fondamentale d’uno Stato come lo Stato in Francia, è mettere in riga [discipliner] la classe media. Ed è quello che sta facendo la sinistra. La sinistra è straordinaria quando si tratta di mettere in riga. Quand’ero giovane, durante la guerra d’Algeria, la sinistra che, con Guy Mollet, guidava il governo, ottenne poteri speciali per lanciare una guerra totale. Sembra proprio che per mettere in riga la classe media dicendole La guerra! La guerra!, cosa, la guerra, che non è più nelle sue abitudini, sia necessaria la bella faccia di un socialista matricolato” –così come solo un Renzi qualsiasi è riuscito a fare in Italia, mentre non era riuscito a un Berlusconi o a un Monti, e la ciliegia dell’intervento in Libia in questo 2016 potrebbe sancire il nuovo ordine renziano, grazie anche all’ennesimo tradimento degli intellettuali, muti e servili, quanto invece erano scatenati e sguaiati contro Berlusconi-; e, appena più oltre: “…La Francia, ciò che la rendeva speciale (…) era la tradizione rivoluzionaria. Repubblicana, inizialmente. Poi socialista, anarco-sindacalista, comunista e, infine, d’estrema sinistra [gauchiste], tra il 1789 e, diciamo, il 1976. Ma tutto ciò è finito. È finito…”10. Ciò che è venuto dopo, in Francia e in Europa, è come un tempo supplementare in cui stancamente giocare in attesa dei rigori, che vengono continuamente rinviati perché non c’è nessuno per calciarli. Solo i corpi delle migranti e dei migranti, e di chi è oppresso/a e offeso/a, solo dalle piaghe delle carni finalmente a due passi da noi, impigliate e straziate tra fili spinati e muri, potrà venire la sveglia e l’inizio di una fase di rinnovamento globale: solo così potremmo uscire dall’abbaglio. Se a quelle carni, se a quelle piaghe riusciremo a prestare ascolto senza ulteriori vani egoismi. Solo così Gramsci uscirà finalmente dal carcere.
Gianluca Paciucci
* Nelle foto opere di Anish Kapoor
1Franco Lo Piparo, “I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista”, Roma, Donzelli, 2012, pp.144. Questo testo si trova anche alle pagg. 688-692 delle “Lettere dal carcere 1926-1937” nella bella edizione a cura di Antonio A. Santucci, Palermo, Sellerio, 1996, 2 voll., pp. XLI+888.
2Sergio Luzzatto, “Lo strappo di Gramsci”, Il Sole 24 ore, 12.02 2012. Vi si trova scritto: “…Quanto all’ipotesi di Lo Piparo secondo cui Togliatti in persona avrebbe provveduto a far sparire uno dei trenta quaderni vergati in carcere da Gramsci, è una teoria che il miglior conoscitore dei quaderni, Gianni Francioni, dichiara oggi ‘destituita di ogni fondamento’…”.
3È la tesi di un altro volume di Lo Piparo, “Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere”, Roma, Donzelli, 2014, pp. VI+186; volume peraltro affascinante attorno al triangolo Gramsci-Sraffa-Wittgenstein.
4Luzzatto, art. cit.
5Sulla prigionia di Gramsci è da qualche mese in libreria l’ottimo volume di Giorgio Fabre “Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato”, Palermo, Sellerio, 2015, pp. 529, che fa giustizia di “visioni mitiche o, all’opposto, di dietrologie complottarde” (cito dall’eccellente risvolto di copertina).
6Penso al volume di Richard J. F. Day, “Gramsci è morto. Dall’egemonia all’affinità”, Milano, Eleuthera, 2008 (ed. originale “Gramsci is dead. Anarchist Currents in Newest Social Movements”, London, 2005), pp. 247.
7Roberto Saviano, “Elogio dei riformisti” (http://www.robertosaviano.it/articoli/elogio-dei-riformisti).
8Alberto Negri, “Un bottino da (almeno) 130 miliardi”, Il Sole 24 ore”, 06.03 2016.
9“…Nelle colonie abitate dagli israeliani in Cisgiordania si trovano case che sono state costruite usando le pietre raccolte nei villaggi arabi demoliti. Pietre secolari. Passando in questi luoghi, chi non conosce le nostre vicende potrebbe essere facilmente tratto in inganno: colonie israeliane sorte vent’anni fa sembrano più antiche dei villaggi palestinesi. La loro politica, sommata alla nostra ignoranza, ha prodotto questo risultato…”: sono le parole di Osama Hamdan, docente di conservazione dei beni culturali presso l’Università Al Quds di Gerusalemme, riportate nello sconvolgete testo di Laura Sudiro e Giovanni Rispoli “Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente”, Milano, Skira, 2015, pp. 187, dedicato alla figura di Fabio Maniscalco, archeologo al seguito dell’Esercito italiano e ucciso da un tumore al pancreas, conseguenza diretta dell’esposizione all’uranio impoverito.
10Pp. 54-55 in Alain Badiou, “Notre mal vient de plus loin. Penser les tueries du 13 novembre [Il nostro male viene da più lontano. Pensare le stragi del 13 novembre]”, Fayard, 2016, pp. 63. Si tratta della trascrizione di una conferenza tenuta il 23 novembre 2015, dieci giorni dopo i fatti di Parigi.
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