I corpi migranti portano libertà e contraddizioni. Ma né loro né altri possono salvarci. Nel lavoro lento e d’improvviso guizzante nascono pratiche di liberazione.
…solo gli alberi hanno radici…*
(Juan Octavio Prenz, scrittore, Ensenada, Argentina, 1932 – Trieste, 2019)
Questo intervento è fuori luogo, come i corpi fuori posto della mostra di Emanuela Zampa1 che illustrano questa Lettera marrana. Fuori luogo, ma infinitamente meno sofferente, certo. Tra psicoanalisi e psichiatria, nelle trame di questo confronto, si intromettono queste nostre parole che parlano di altri passaggi di condizioni, di metamorfosi rapide e solo a tratti dolci, più spesso di colpi spietatamente portati ai corpi. Corpi senza habeas corpus: parafrasando Carl Schmitt, è sovrano, oggi, chi non deve più giustificare e motivare uno stato di detenzione. Il diritto occidentale è qui incriminato, inchiodato a questo tradimento di sé. Dall’Afghanistan, dal Pakistan vengono, e dalla Siria, Palestina, Iraq, Algeria –molti kabili- e altrove. Un paio di ragazzi, la settimana scorsa, dallo Yemen –se abbiamo ben capito-, con qualche dito dei piedi congelato per l’attraversamento con scarpe inadeguate di montagne già piene di neve, da quello Yemen dove anche le bombe italiane fanno bella mostra di sé, merce perfetta, perfettamente obsolescente, si usano una volta e via! Lasciano terre di sangue e vengono nella nostra Europa che terra di sangue è stata e che ora solo gestisce, ma in buona parte ancora provoca, il sangue degli altri. Se l’Europa, con il Novecento che ha alle spalle, abbassasse solo un po’ la testa e desse meno lezioni (mentre esporta armi e istiga guerre per procura), non sarebbe un gran male. E se si rendesse conto che i suoi interventi, o non interventi, nella maggior parte dei casi socialdemocratici (Mitterrand, Blair, Peres, D’Alema…) hanno portato ulteriore male là dove già ce n’era in abbondanza, sarebbe un passo epocale, di epocale lucidità e correzione di rotta. E invece il male continua a essere immaginato esterno a noi (extraeuropeo, extracomunitario, non occidentale), portato sempre da altri (e noi sempre vittime), male che ci contamina come un’infezione, e male in buona parte presentato come metafisico mentre ha tremende radici terrene.
IL SEGRETO DELL’EUROPA
Ma gli altri (maschi e giovani, soprattutto) vengono, continuano a venire da terre dove la ferocia fondamentalista è stata generata e combattuta in secoli di tentativi occidentali (inglesi, russi, statunitensi) di impadronirsi di quelle regioni per sfruttarle e modificarle. Tentativi fondamentalisti anche questi. E vengono con ogni mezzo, ma molti muoiono in cammino, asfissiati in stive, in camion o annegati; oppure uccisi da brutali polizie: quella turca, ad esempio, feroce alleata del feroce Occidente che la finanzia abbondantemente perché si comporti come un aizzato mastino (e che può ricattare il suo padrone, come ha fatto recentemente, ai tempi dell’ultimo suo crimine in Kurdistan: se non mi lasciate fare, vi mando tre milioni di profughi, così minacciò Erdogan ai padroncini dell’U.E., in un dialogo di malavitosi). E la polizia croata2, che si fa guardiano della fortezza Europa bloccando donne e uomini al confine con la Bosnia ed Erzegovina (a Bihać, a Velika Kladuša, a Kljuć, città, paesi in sofferenza da ormai trent’anni per guerra e dopoguerra infami, e che ora accolgono e respingono i nuovi arrivati) braccando, catturando, picchiando, distruggendo cellulari pieni di voci lontane e di mappe. E quando arrivano da noi, inseguimenti e disprezzo, ma anche qualche conforto, almeno finché il tessuto dell’accoglienza reggerà e non verrà ulteriormente smantellato da ottusi governanti. Governanti vecchi e nuovi, di ogni governo: è del 17 dicembre di quest’anno l’apertura a Gradisca d’Isonzo, a 50 chilometri da qui, di un C.P.R. (Centro di Permanenza per i Rimpatri), struttura rinnovata per un vecchio crimine di Stato: l’enfermement, la prigionia/reclusione per uomini e donne innocenti, colpevoli di clandestinità/vagabondaggio, colpevoli di essere ancora in vita dopo mesi e mesi di cammino. L’assemblea No Cpr – No Frontiere del Friuli-Venezia Giulia scrive che “in sordina, senza grandi annunci, alla fine apre il Centro di Permanenza per i Rimpatri di Gradisca d’Isonzo. È questo l’obbiettivo perseguito senza ripensamenti da ben tre diversi Ministri dell’Interno (Minniti, Salvini e Lamorgese), di colori politici formalmente diversi, ma uniti nel praticare una politica migratoria all’insegna della chiusura delle frontiere di fronte a un’umanità dolente in cerca di una vita migliore”. Ministri che fanno a gara a chi espelle di più o con maggiore o minore umanità: umanità un tanto al chilo (meno se ne ha e più si vince, nelle farse elettorali, oggi diventate molto più che negli anni Sessanta del secolo scorso pièges à cons, trappole per creduloni), vergognosa politica-spettacolo contro chi viene ma anche contro chi abita, istupidito da sozza propaganda. Ma ancora, qui, tutto è tranquillo, troppo tranquillo, ancora non succede niente, tutto è morbido ed è sereno il cielo, in fondo. In Montaigne questo è il segreto dell’Europa, il suo mistero attraente: “Dissero [i selvaggi brasiliani] che si erano accorti che c’erano tra noi uomini pieni fino alla gola di ogni sorta di agi e che la loro metà, cioè, nella loro lingua, gli altri uomini, stava a mendicare alle porte di quelli, smagriti dalla fame e dalla povertà: e trovavano strano che quelle metà bisognose potessero tollerare una tale ingiustizia, e che non prendessero gli altri per la gola o non appiccassero il fuoco alle loro case” (Essais, I, 31). Queste parole –che riguardano non solo la questione migranti, ovviamente-, scrive in un commento Carlo Ginzburg, “non hanno smesso di ferirci”3. Ma solo in pochi si sentono feriti. Fino a quando riusciremo a sopravvivere e a farci belli, persino con la solidarietà, con questa vergogna dentro?
QUELLI CHE VANNO A PIEDI…
Vengono anche a piedi (ma qualcuno in automobili con certi passeur4, il cui ruolo andrebbe studiato in profondità con passione antropologica), soprattutto percorrendo così l’ultimo tratto di strada, quello balcanico (non parliamo, qui, né del Mediterraneo tra l’Africa del nord e la Sicilia, né di Ceuta o Lesbo). “…quelli che vanno a piedi non possono essere fermati…”, scrive Erri De Luca; ma i piedi possono essere presi in trappole di ghiaccio e diventare cancrena, ci dicono gli amici Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, che viaggiano fra Trieste e alcune località bosniache per vedere e sostenere. Altre malattie, altre ferocie si fanno avanti. Il cupo Occidente, il mistero Europa non vuole capire né soccorrere in profondità, e cioè senza emergenze, la vita nuda dei/delle migranti, che portano domande di libertà e giustizia, ma anche di contraddizioni taglienti, fatte di credi e fedi apparentemente inaccettabili ma che possono allearsi con le norme qui dominanti (riconoscimento reciproco tra diverse versioni del patriarcato, quello apparentemente leggero in Occidente, quello apparentemente arcaico in ciò che Occidente non è). Qui da noi il lamento può ancora essere ascoltato e accolto –“scatta la solidarietà”, si esclama con vanto-, ma non le domande nette, non i corpi che le veicolano, non gli universi che ne sono il contesto. E così si avviano stucchevoli dibattiti sull’integrazione, che è innanzitutto disintegrazione delle vite e delle storie di partenza, e svalutazione del cammino fatto da terre lontanissime. Terre dove siamo, dove l’Occidente c’è, ed è promessa che non deve essere mantenuta: che deve essere fatta (zone pedonali di vetrine luminose, libera circolazione delle merci, possibilità per tutte e tutti) ma che non deve essere mantenuta. Ti chiamo, ma se rispondi alla mia chiamata devo respingerti (e se qualcuno o migliaia faccio passare –di nascosto- è perché le mie macchine ne hanno bisogno, spiega l’imprenditoria illuminata che è il volto inquietante e progressista di questo moloch, in Europa ma anche in Cina e negli altri Paesi emergenti). Paradosso delle divinità oggi vincenti, che chiamano per respingere: spetta al nuovo fedele capire le ragioni per cui viene rifiutato come quelle per cui viene accolto. Sommersi e salvati, si potrebbe dire con l’ultimo testo di Primo Levi, senza banale comparatistica, però.
IL SILENZIO DEI MIGRANTI
Vengono ma poi, qui, devono tacere. L’analfabetismo cui più del 70% della popolazione afghana e percentuali alte di altre popolazioni sono condannate non basta a comprendere il perché di tanto silenzio di migranti, di silenzio pubblico, intendo (soprattutto in Paesi come l’Italia, che non hanno ancora una letteratura o una musica o un cinema post-coloniale), se non richiamando un divieto non codificato ma ugualmente chiaro e netto: il silenzio, come l’invisibilità, deve essere il prezzo da pagare per essere accettati, e danno noia conversazioni di stranieri ad alta voce in un autobus perché alludono alla possibilità di altre prese di parola, perché rendono immediatamente visibile ciò che dovrebbe essere messo sotto il tappeto. State pure qui, sembriamo dir loro, ma non sfiorateci, non disturbateci, essendo questi sfioramenti e questi disturbi ciò che va evitato (il contatto, il contagio): a noi servono vite parallele che mai si tocchino proprio per evitare lo scandalo, la pietra d’inciampo che ci permetta di capire. E magari anche di fermare, sia pure per un solo momento, l’orrendo sabba della vita quotidiana. Qui a Trieste il luogo-cardine per capire la città e il mondo sono la stazione dei treni e degli autobus e il piazzale antistante: Piazza della Libertà, statua dell’imperatrice Elisabetta d’Asburgo e bidoni della spazzatura rigonfi di abiti lasciati da migranti per vestirsi a nuovo (e alla moda, se possibile) e riprendere il viaggio, meno riconoscibili, meno facili prede. Se ogni presa di parola pubblica è la base di ogni possibilità democratica (la parresia e, soprattutto, la isegoria dei greci, che è diritto/dovere di prendere la parola in assemblea), impedirla è negare la democrazia, negarne le possibilità di nascere e crescere perché si ritiene che uno solo debba essere il flusso delle informazioni: da un palco a un uditorio; e chi non è nemmeno uditorio, stia ai bordi della piazza, o frequenti solo le piazze della disperazione, ma non s’immischi, non cerchi di farsi avanti. Raccolga le cartacce e le lattine schiacciate, dopo. Pulisca, in nome di un decoro che è una delle parole più di successo della neolingua che ci domina (nostro è il decoro, loro è il degrado). Giovani uomini, dicevamo: la cui forza interiore è sospesa tra il luogo da dove si è partiti, e che diventa oggetto di nostalgia, il luogo del cammino (le tappe intermedie di un percorso) e il luogo d’arrivo, sempre incerto, sempre provvisorio, spesso non cercato, in una dolorosa forma di serendipity. Però la parola si irrobustisce, nelle diaspore, sia perché meno costretta da divieti e imposizioni di gendarmi e polizie (anche se, ripetiamo, il silenzio è norma a cui attenersi anche da noi, per chi non è di qui ma anche per molti nostri infelici) sia perché il viaggio e l’approdo hanno consentito l’accumulo di esperienze potenti, a volte tragiche, capaci di rendere il protagonista uomo diverso da quel che era, come nei più esemplari romanzi di formazione.
UNA PRESA DI PAROLA
Qualcuno infine riesce a prendere la parola, anche in modo alto. Nelle poesie di Farhan Shabbir, un giovane poeta e musicista pakistano5 si legge: “…La tragedia non è il fatto che quelle povere creature siano state uccise. / La tragedia è che i loro nudi cadaveri innocenti sono stati trascinati per le città. / La tragedia, quella vera, è che gli sono stati affibbiati peccati che non hanno commesso. / La tragedia, sarà che i loro predecessori hanno dovuto ascoltare elegie su cadaveri umiliati…” (da “E’ tragico”). Non è nelle uccisioni in sé, pur spaventose, di cui sono gonfie certe città lontane, ma è nel rito pedagogico/demagogico che segue e nelle parole usate per imporre una versione falsa, che sta la tragedia forse definitiva, perché ciclica. Allora la presa di parola poetica, e di tante altre arti, forse proprio a questo può servire: a cominciare a sabotare, a intaccare il ciclo del sempre uguale, cerimonia dell’eterna attività della violenza nella storia. Un nodo infine emerge: “…Il continente dei migranti, dispersi ovunque nel globo, è un enorme e variegato popolo in movimento che sfida le frontiere dell’ordine mondiale. Contro questo popolo si erge lo Stato, ultimo baluardo del vecchio assetto, dell’obsoleto nomos della terra. Da qui scaturisce il conflitto acuto tra la sovranità statuale e il diritto di migrare, tra una cittadinanza ristretta ai confini e una nuova cittadinanza deterritorializzata.”6 Ma non possiamo affidare ai/alle migranti gli esiti di questa partita, persone che già penano a salvarsi individualmente, ma anche perché è finita l’epoca di un soggetto salvifico che combatta anche per noi, come pensavamo potesse essere la classe operaia nel Novecento e altri pensavano fosse un dio o la sciagurata bellezza; né affidarli a un capitalismo che delle deterritorializzazioni sa approfittare per i suoi scopi. Sta invece ai restanti, sta a chi abita collaborare al mutamento delle prospettive in dialogo con chi arriva e insieme a chi vive le miserie di questa fase, ancora storditi, ancora stupiti dall’orrore presentato come condizione di natura. Collaborare al mutamento, ma con con esiti costituenti.
Gianluca Paciucci
29 dicembre 2019
Si ringrazia per le fotografie Emanuela Zampa, dalla “rotta balcanica” e dalla sua mostra “Corpi fuori posto”.
Questa Lettera marrana è la relazione scritta per l’incontro “Psicoanalisi e deistituzionalizzazione” svoltosi a Trieste il 19 dicembre 2019 presso l’ex Ospedale Psichiatrico Provinciale e la Casa del popolo di Ponziana, a cura delle associazioni “Piotr Tchadaeev” (Versailles) e “Tina Modotti” (Trieste).
* Juan-Octavio Prenz, Solo gli alberi hanno radici, La nave di Teseo, Milano, 2017, pp. 317. Uno dei romanzi più importanti degli ultimi anni. Su Prenz rimandiamo a questa nostra breve nota: https://www.potlatch.it/poesia/poeti-poeti/juan-octavio-prenz-gianluca-paciucci/
1 https://www.meltingpot.org/Bosnia-with-Blood-Report-sui-Campi-OIM-al-confine-Bosniaco.html#.XgT_TBdKjyg Ringraziamo Emanuela Zampa per aver permesso l’uso delle sue fotografie a dare forza a questa Lettera marrana.
2 di seguito il testo della petizione di Lorena Fornasir su change.org (più di 50.000 firme, ma ignorata –finora- dal Parlamento europeo): “Le persone migranti che provengono da Paesi devastati dalla guerra e da estrema povertà, pur avendo diritto a richiedere asilo in Europa, secondo la normativa internazionale, sono bloccate in condizioni disumane ai confini tra Bosnia e Croazia. Lo scorso Febbraio Alì era stato catturato e la polizia croata, dopo vari maltrattamenti, dalla Croazia lo aveva respinto in Bosnia, tra la neve il gelo, levandogli vestiti e scarpe. Alì era ritornato a Velika Kladuša a piedi, tra la neve, vagando per ore. I suoi piedi si erano congelati ed erano andati in necrosi. Dopo mesi di sofferenze, Alì è morto sabato 21 settembre a causa della disumanità a cui era stato destinato dalla polizia.
Mercoledì 25 settembre ho incrociato Adnan lungo la strada che scende dal confine di Velika Kladuša in Bosnia Erzegovina, dopo che era stato catturato, seviziato e respinto dalla polizia croata. Gli avevano tolto le scarpe e lo avevano torturato con una sbarra incandescente scorticandogli la gamba. Poco tempo fa, un minore di 15 anni catturato nei boschi è stato seviziato con scariche elettriche. Questi crimini si chiamano tortura. La Croazia, che ha ricevuto milioni e milioni di euro per “contenere” i flussi migratori, è stata dotata di strumenti tecnici sofisticati per la cattura di esseri umani. Sono già state denunciate le sevizie che utilizza in maniera indiscriminata su uomini, donne, bambini. Ora è giunta a perpetrare anche la tortura. Chiedo alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di condannare con forza le violenze perpetrate dalle forze di polizia croata contro persone inermi. In particolare, chiedo sia preso in esame il trattamento inumano e degradante, l’uso della tortura fisica e l’applicazione della tortura psicologica tramite minacce di morte.”
3 a pag. 77 del capitolo “Montaigne, i cannibali e le grotte”, in Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 337.
4 Passeur (Buchet Chastel, 2015) è il titolo di un ottimo romanzo-réportage di Raphaël Krafft, dall’altro lato dell’Italia, tra Italia e Francia, Ventimiglia e Mentone e, più a nord, le Alpi.
5 suoi testi, insieme a quelli di altri poeti migranti, sono raccolti in Maria Paola Mioni (curatrice), Non essere triste, viaggiatore. Poesie dell’esilio, Infinito editore, Formigine (MO), 2019, pp. 93. La nostra relazione è in parte un rifacimento della postfazione a questo volume, “Cedersi”.
6 pag. 105 in Donatella Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, Torino, 2017, pp. 280. Utilissimi, in questa direzione, i testi di Ermanno Vitale, soprattutto Ius migrandi. Figure di erranti al di qua della cosmopoli, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, pp. 161; e, di Ottavia Salvador e Fabrizio Denunzio, Morti senza sepoltura. Tra processi migratori e narrativa neocoloniale, Ombre corte, Verona, 2019, pp. 107, con uno scritto di Abdelmalek Sayad.
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