Le virtù quotidiane oscillano tra il compromesso e un nascosto eroismo. Come farle diventare strategia e non comoda fuga? Tra Richter, Montale e de Certeau.
a Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi
Questa Lettera parte dai giorni in cui si è ricordato il genocidio di Srebrenica (iniziato l’11 luglio 1995), ancora contestato nella natura e dimensioni da negazionisti e giustificazionisti di ogni specie (particolarmente odiosi quelli di orientamento sedicente ‘marxista’1 e di cui si è riparlato nell’occasione del Premio Nobel per la letteratura a Peter Handke –lirico difensore di Milošević–, anche altro occorre ricordare. Una morte e un libro di poesie. Melita Richter è la donna morta e Alcune ragioni minime2 la sua ultima opera. Ricordare cioè ‘riportare al cuore’ i versi e una presenza indimenticabile che però l’orrendo sabba del quotidiano tende a ingoiare e a far precipitare nell’oblio o, peggio, nella dimenticanza: leggerissima e crudele, quest’ultima parola – un fatto trascurabile, una cosuccia cui si pensa di poter porre rimedio, mentre niente è rimediabile3. E irrimediabile è anche la perdita di Melita Richter, da Zagabria dove nacque nel 1947 a Trieste dove visse dal 1979, con suo marito e i due figli, e dove si spense il 1° marzo di quest’anno, tra i tanti orribile. I versi di Alcune ragioni minime –versi liberi, prosastici, ma a volte improvvisamente e altamente lirici- ci dicono di una terra lacerata, la sua Jugoslavia, dalle guerre degli anni Novanta e dai meno sanguinosi ma avvilenti dopoguerra di mafie politico-religiose-affaristiche che si sono impadronite dei processi di pace in quasi tutti i Paesi dei Balcani occidentali. Due parole-chiave, “Europa” e “sorellanza” unite nei versi di ‘Alcune ragioni minime per cui mi sento europea’, testo-cardine della raccolta: “[mi sento europea] Perché credo all’Utopia, / all’Altro, / alla Sorellanza…”. E prosegue, per finire, “…Mi sento europea / perché varco i confini considerandoli soglie e mai più frontiere / sentendomi a casa nel Mondo. / Gioco stupendo questo conguaglio / Mondo – Europa, / Europa – Casa. / Ma forse mi sbaglio.4
SOGLIE/CONFINI
Di soglia in soglia (Celan), soglie da attraversare, ripetutamente impalpabili, ma anche barriere stolte e feroci per chi non ha le carte in regola e piomba nell’abisso dell’irregolarità/clandestinità, ormai un reato in Italia (come nel Novecento più atroce). Però le soglie si ispessiscono e si ispessisce il numero dei respinti in entrata nel nostro Paese dopo mesi e anni di viaggio e che viene ad arenarsi nella “rotta balcanica”, e in uscita, tra Italia e Francia, per furia di polizie di frontiera, furia di dispositivi e regolamenti che imitano e riproducono i meccanismi da cui i/le migranti erano fuggiti (nel mondo barbaro che pensavano di aver lasciato alle loro spalle e che invece si ripropone davanti ai loro occhi e dentro le loro carni, barbarie della ragione e della tecnica trionfanti). Si ispessisce anche la leggerezza torbida delle pagine del “Piccolo”, il quotidiano di Trieste, città di soglia, tra fine giugno e i primi di luglio: “Salvini ‘minaccia’ il filo spinato contro i migranti in Slovenia”; “Ribadita l’idea di alzare barriere tra Italia e Slovenia”; “Fedriga [presidente leghista della regione FVG] scivola sul filo spinato” (ha proposto una “barriera lungo i 243 km del confine italo-sloveno”); “Sigillerò quel confine”, etc. Leggerezza torbida e cattiva. Non sanno, o sanno benissimo, del filo spinato, cosa sia e cosa rappresenti, perché conoscono bene quanto valga il simbolico. Un volumetto di Olivier Razac, cui far ricorso per capire, Storia politica del filo spinato5: dall’America della conquista del West (“…Il 1874 è una data oscura e tuttavia di decisiva importanza nella storia degli Stati Uniti. Un colono del’Illinois, J.-F. Glidden, ottiene il brevetto per l’invenzione del filo spinato…” pag. 12) alle trincee della prima guerra mondiale ai campi di concentramento e sterminio, e oggi. Ecco di quale storia parla il filo spinato: “etnocidio degli indiani d’America”, l’“assurdo bagno di sangue della guerra mondiale” e i “campi di concentramento”, scrive Razac. Usato innanzitutto per le greggi e poi, con scivolamento nella destinazione (come spesso accade – da qui l’utilità di un pensiero anche antispecista), per gli umani, o meglio quei sotto-umani che per i bianchi sono chi viene da lontano. Ora un quotidiano locale e alcuni leader di spessore regionale e nazionale si permettono di evocarlo con la protervia dei fanatici, e il coro sguaiato dei social network a inseguire questo dibattito falsato, drogato dalla sovraesposizione mediatica di leader senza scrupoli e da chi ne riprende e moltiplica il messaggio. Sempre “Il Piccolo” di Trieste ci ragguaglia su quanto muri e altre barriere siano ormai la normalità in Europa, e non solo6. Un tradimento dell’89 che segue ed esalta il tradimento del ’68, in un rovescio simmetrico di date. Mai più muri e libera circolazione delle persone e delle merci: furono queste le parole d’ordine dell’89, come “vietato vietare” furono quelle del ’68 tra Parigi e Praga, ma poi i poteri hanno rapidamente riassorbito il potenziale rivoluzionario di tali fasi storiche per ingabbiarlo in nuovi assetti di oppressione e repressione, in nuove gabbie, anche alla lettera, in cui oggi vengono tenuti alcuni migranti, dopo che il game, la rischiosa partita per entrare in Europa, è fallito. Orrore di polizie, quella croata, in particolare, che rintraccia e arresta, rinchiude, tortura, spacca cellulari e smartphone, spacca ossa e volti d’occhi di vita7. E fa tutto questo su preciso mandato dell’Unione Europea che appalta la difesa dei suoi sacri confini a sgherri abituati, per razza e storia (dicono i nostri tecnocrati) a compiere il lavoro sporco, lungo le krajine, le zone di frontiera, da difendere contro il nemico assoluto, l’infedele, l’alieno, che oggi ha il volto dell’umano.
EUROPA
Era questa l’Europa sognata da Melita Richter? Per lei fu già una sconfitta il moltiplicarsi dei confini e dei controlli dentro il territorio ex-jugoslavo tra Repubbliche un tempo sorelle, e ora ostili. Pessime guardie di confine che, non per antica usanza titina (gli sgherri di Tito, peraltro, non scherzavano) ma per nuova arroganza nazionalistica, esibiscono i muscoli (degli altri) tra Croazia e Bosnia Erzegovina; pessime innanzitutto nei confronti di coloro che fino a poco tempo prima erano gli abitanti della stessa Repubblica federativa di Jugoslavia. Ore e ore ai nuovi confini, perquisizioni, arroganze teppistiche e affaristiche di uomini in divisa: ordine e disciplina, nel disordine planetario. “Patria / Matria / geometria scombinata / sfilacciata / asimmetrica (…) / Ha ancora da nascere il tempo senza guardiani e / senza vanità…”8; Anche perché mancano Padri e Madri (quanti i ‘minori non accompagnati’?), mancano i buoni passeur (qualcuno ce n’è), volti e bocche della verità che ci guidino verso l’immediatezza di una realizzazione. È sempre Melita Richter a ricordare un’altra morte, un’altra sparizione dolorosa, altro buco non al centro di una bandiera dell’89, ma nel cuore di molte e molti di noi: “… È morto l’uomo che ha vissuto in balia della speranza / di sogni / di Utopia. / È morto il poeta-patria mia”9, il 2 maggio del 2002 è morto Izet Sarajlić, quello della Sarajevo degli amanti, quello della contraddizione tra il sogno formidabile dell’Utopia e il crepuscolo adorato (le mezze luci, la pioggia lenta e fitta, l’ultimo tram per Ilidža…), quello della resistenza a una guerra, tra il 1991 e il 1999, sentita come estranea eppure sorgente dalle viscere dell’amata terra. Laceri buchi nelle bandiere, voragini nella terra dei poeti (la voragine-Izet, la voragine-Melita), e squarci nelle pance aperte da sniper democratici e amanti della libertà… Ora chi torna in quei luoghi, penso ai volontari più radicali che io conosca, Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, ci manda foto e video di desolazioni devastanti con un solo elemento in comune con la cecità nostra e della nostra Europa, cecità costituente ai tempi delle guerre jugoslave: l’indifferenza, l’impossibilità di uscire dalla rete del quotidiano, l’impossibilità di cambiare passo, quello dei singoli come quello di un’intera civiltà. Il quotidiano è rete che avvolge e cattura oppure web che mette in comunicazione, ma anche quest’ultimo libera e, al tempo stesso, prende ostaggi. È rispetto dei lenti processi, di ciò che accade giorno dopo giorno, di ciò che costruisce la forza dei transiti e delle transizioni lavorando sulla trasmissione dei saperi: è ciò che costruisce il tessuto delle nostre città a volte fatto di inganni, a volte unica salvezza da un salto nel vuoto (‘cadere nella rete’ può essere negativo o positivo). È ciò che da un lato rende l’essere umano pigro e prigioniero delle proprie abitudini, in genere eterodirette, oppure attento alle piccole cose (sensibili alle foglie, direbbe Renato Curcio, che però ne ha calpestate molte, prima di capire), umile e sublime, terreno e celeste. Dall’altro esso è anche ciò che salva ed è proprio dei gruppi subalterni: lo ha scritto benissimo Michel de Certeau10. A volte la tattica sembra essere viltà, e rischia di diventarlo quando assume il volto del quietismo compromissorio, della giustificazione continua della propria inazione e inettitudine, quando la propria ‘superfluità’ si trasforma in comoda connivenza. Fu Montale, invece, a rivendicare il ruolo del silenzioso agire, in “Piccolo testamento”. Ricordiamone alcuni versi: “…Solo quest’iride posso / lasciarti a testimonianza / d’una fede che fu combattuta, / d’una speranza che bruciò più lenta / d’un duro ceppo nel focolare. / Conservane la cipria nello specchietto / quando spenta ogni lampada / la sardana si farà infernale / (…) Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato / non può fallire nel ritrovarti. / Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio / non era fuga, l’umiltà non era / vile, il tenue bagliore strofinato / laggiù non era quello di un fiammifero.” (in La Bufera e altro, 1956).
LA STORIA-VULCANO
Due elementi: il primo consiste nella costruzione, lascito e custodia di un qualcosa che sarà essenziale quando “la sardana si farà infernale”, e cioè quando la danza della Storia si farà sfrenata e non perdonerà, quando il vulcano-Storia (quello di Giacomo Leopardi e di Elsa Morante) erutterà con tutta la sua violenza e proverà a ridurre ognuno alla sua ‘nuda vita’. Essenziale non vuol dire ‘utile’, o almeno non utile in senso tradizionale (il lascito di un attrezzo, di un’arma): “la cipria nello specchietto” (cipria=ceneri…) è ciò che garantirà la permanenza di quanto è stato persino nel più buio dei momenti, quando i rapporti di forza sono tutti in favore del nemico (dell’Avversario, di un “ombroso Lucifero” – ancora Montale) e questi schiaccia, spacca, fracassa. È un lembo di futuro, un filo tenuto, una foto antica per cui non lasciarsi andare. Secondo elemento: ciò che facemmo, il “tenue bagliore”, non era “quello di un fiammifero” ma resistenza minima (non sono “minime” anche le ragioni di Melita Richter?), opposizione ferma e nascosta, conservazione di un piccolo fuoco che tornerà a risplendere una volta rientrata la sardana e asciugata la lava con dentro la vita anteriore. Senza questo elemento di conservazione/trasmissione niente potrà tornare a vivere. Il rischio –proprio di ogni forma di marranesimo- è che le virtù del vivere nascosto conservando si trasformino in adattamento e piena acquisizione dei metodi e delle pratiche dominanti, oppure in un’assenza radicale e presuntuosa. Tremendo è quel “… Vissi al cinque per cento, non aumentate / la dose.”, sempre montaliano (“Per finire” in Diario del ’71 e del ’72, 1973). Senza dover obbedire ad imperativi etici e a costrizioni furiose, certo è che tutta la vicenda della superfluità e della inettitudine otto-novecentesca è finita male. È finita nell’assenza da Sarajevo (assenza dell’Europa come soggetto politico e di ciascuno/a dei suoi esponenti/componenti, anche se presenti furono molte e molti, Alexander Langer, Susan Sontag, Luca Rastello, Adriano Sofri, Francis Bueb, e tanti/e anonime che lì si recarono e vissero anche per noi, montaliani); nell’assenza, oggi, dalla continuità dell’intervento sulla rotta balcanica o in mare o in altre contraddizioni feroci (condizioni del lavoro, periferie, violenza dei colletti bianchi, femminicidi, etc.). Facciamo altro, è vero, arrivando stremati alla fine della giornata con opera nascosta e forse utile per qualcuno, coltiviamo rapporti e proviamo a rafforzare il legame sociale, là dove questo scompare perché distrutto dalla violenza del capitalismo trionfante e senza nemici, se non quelli che esso stesso nomina e costruisce. Ma questo non basta: si è sempre in difetto di militanza, in difetto di ‘santità’. Il kairòs o, più prosaicamente, l’occasione (termine machiavelliano): come riconoscerlo, come praticarlo? Se il “tenue bagliore” non fosse solo tattica ma strategia forse qualcosa accadrebbe: se facessimo diventare le virtù quotidiane virtù cairologiche, virtù di strategia, messe dentro un fluire più grande, allora avrebbe un senso, non certo “vivere al cinque per cento” ma dedicarsi alla cura, all’accompagnamento, al prodigarsi mattina e sera, al lusso dell’assistenza, allo studio e all’insegnamento. Molte di queste virtù di strategia non abbiamo. “Ma forse mi sbaglio”…
Gianluca Paciucci
Foto di Gianluca Paciucci
(luglio-ottobre 2019)
1Ricordiamo il caso della rivista inglese “Living Marxism” che dovette chiudere le pubblicazioni nel 2000 dopo aver perso un processo relativo al suo negazionismo sui campi di concentramento di Omarska e Trnopolje, vicino Prijedor (ora Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina). E ricordiamo tanti ‘nostri’ che in Milošević riconoscevano, e riconoscono, un combattente antiimperialista… Su Srebrenica, in collegamento con le attuali migrazioni, segnaliamo il recente volume di Elvira Mujčić, Consigli per essere un buon immigrato, Elliot, Roma, 2019, pp. 89, autrice anche di altri volumi su questi temi.
2Edizioni Kolibris, Ferrara, 2018, pp. 76.
3La lettura che Emanuele Severino fa di Nietzsche: “…L’atteggiamento tradizionale dell’uomo europeo consiste, per Nietzsche, nel predisporre un rimedio e una difesa contro la minaccia e il terrore del divenire. E il ‘sentimento di sicurezza’ è l’elemento decisivo dell’allestimento di tale riparo e difesa…” (pag. 113, “Oltre il rimedio: Nietzsche”, in E. Severino, La filosofia contemporanea, Rizzoli, Milano, 1986, pp.268).
411 e 12 di Alcune ragioni minime, cit.
5Edizioni Ombre corte/tracce, Verona 2001 (ed. originale francese Histoire politique du barbelé. La prairie, la tranchée, le champ, 2000), pp. 94.
6Stefano Giantin, “Dalla Turchia al Baltico, in Europa quasi mille chilometri di muri”, Il Piccolo, 2 luglio 2019.
7Vedi “Il capo dello Stato ammette la violenza contro i migranti”, di M. Man., “Il Piccolo” 16.07 2019. La presidente croata Kolinda Grabar Kitarović ha affermato che “ovviamente, quando si adopera il metodo di ‘push-back’ è necessario usare anche un po’ di violenza”. Ovviamente… È di questo ottobre La petizione –indirizzata alla Corte europea dei diritti dell’uomo e che al 15 ottobre 2019 ha raggiunto 44.311 firme- si trova su change.org (promotrice: Lorena Fornasir).
8Richter, op. cit., pag. 19, “Il divenire d’Europa”.
9Richter, op. cit., pag. 14, “Due maggio duemiladue”.
10“…Mille modi di giocare o mettere a nudo il gioco dell’altro, vale a dire lo spazio istituito da altri, caratterizzano l’attività sottile, tenace, resistente di gruppi che, non avendo uno spazio proprio, devono cavarsela in una rete di forze e di rappresentazioni stabilite. Bisogna adattarsi. In questi stratagemmi di combattenti si forma un’arte del portare colpi, un piacere a rovesciare le regole di uno spazio oppressivo…” (pp. 35-6 in Michel de Certeau, L’invention du quotidien. 1. Arts de faire, Paris, Gallimard, 1990, pp. 350 – prima edizione 1980). ‘Tattiche’ per poter sopravvivere dentro le ‘strategie’ dei sistemi. In Italia il testo di M. de Certeau è stato pubblicato nel 2010 dalle Edizioni Lavoro.
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