Un attentato in una chiesa in pieno centro, a Nizza, e altre vicende chiarissime. Fino alla pace inquieta in una chiesetta di campagna, da dove cercare ancora…
“…Vi auguro felicità. / Vi auguro inquietudine, / sonni agitati. / E sete di futuro…”
(Viktor B. Šklovskij in L’energia dell’errore, 1981)
Cosa dire dei fatti di Nizza, dell’assassinio in chiesa, Notre-Dame, in pieno centro città? Un delinquente senza testa ha decapitato, ha ucciso tre persone disarmate, miti, oranti. Un sagrestano, una collaboratrice domestica di origini brasiliane e una parrocchiana. In molte chiese tra una funzione e l’altra, in Francia come in tutta la cristianità, si trova spesso pace, pensiero (la preghiera non è il contrario del pensiero, benché così creda una certa vulgata laicista), colloquio con sé stessi e con sé stesse e magari anche con una divinità che è lo specchio fraterno e sororale dei nodi che abbiamo dentro. Questo al di là di ogni giudizio che si voglia portare sulla corruzione e sulla violenza delle chiese nella storia, ieri e oggi. Scrive Marx in Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel: “…La miseria religiosa è da una parte l’espressione della miseria reale e dall’altra la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo spietato, come è lo spirito di una condizione priva di spirito. Essa è l’oppio del popolo…”[1] Di solito si ricorda solo quest’ultima icastica, tagliente affermazione (che grande scrittore è, quest’ “ebreuccio tedesco”…): noi con amore ricordiamo anche quell’altra, meravigliosa: “…sospiro della creatura oppressa…”, segnalazione di crisi e difficoltà (anche nel fervore e nello slancio), manifestazione di un dolore che è fisico e metafisico ma che poi, quando lo si scopre frutto dell’azione di esseri umani in carne e ossa e di assetti sociali violenti, può venire individuato come crimine sociale e ingiustizia da cancellare. Quanti credenti abbiamo incontrato nei nostri cammini (altri anche in cammini opposti, feroci, certo… – come certi di noi)! Spesso molte e molti di loro fino alla fine hanno creduto e agito, mentre troppe compagne e compagni se ne sono andati altrove, sulle sponde di un pensiero scettico e avvelenante, e di compromissioni comode con il presente. Troppe, troppi compagni, più di quelli che vi hanno lasciato la vita o che ve l’hanno perduta in un modo o nell’altro, infinitamente più di quelli che ancora tessono tele.
AL MATTINO IN UNA CHIESA…
Pregare al mattino in una chiesa, nel silenzio, tra profumi e luci assopite eppure improvvisamente abbacinanti: cosa c’è di più nonviolento? Eppure nella chiesa di Notre-Dame è entrata la violenza. Violenza dal basso, orizzontale[2], duello asimmetrico ma bastante a riportarci nel cuore della morte e del fanatismo: troppe volte in Francia, negli ultimi anni. La stessa Nizza già colpita il 14 luglio del 2016, festa nazionale: 87 morti, incluso l’attentatore (leggiamo in wikipedia). Accanto al luogo in cui morirono tutte quelle persone falciate da un camion – arma del delitto- la pietà popolare mise fiori e lumini, piccole scritte, la maggior parte di pace, senza ferocia, senza desiderio di vendetta: una scritta, un fiore accanto a ciascun posto dove morirono, disseminati sull’asfalto, vicino al mare. 86 piccoli altari lungo la Promenade des Anglais, in una città che è stata e che è ancora animata da gente semplice, molto oltre il mito di ricchezza e di trionfi, di lusso e di mafie. Solo per l’87esima vittima, l’attentatore, si formò un cumulo: un cumulo di immondizie. Non immondizie a sfregiare un corpo morto –anche a lui andò la pietà popolare- ma a indicare la sporcizia di un pensiero e di un atto, del fanatismo religioso, dei terribili mandanti di quella strage che ha fragilizzato un tessuto sociale già precario per disparità sociali e urbanistica del disprezzo (miseria lontana dei quartieri periferici, inaccessibili). Ha fragilizzato le persone, quattro anni fa e appena ieri, nell’intimo: quella strada colpita il 29 ottobre, avenue Jean Médecin, percorsa da silenziosi tram e costeggiata di piccoli e grandi caffè, negozi, librerie, di folla festante (mescolata a smorfie di dolore, sotto il ponte della stazione) e colpita da un sole che schiaccia, non era e non è solo la celebrazione del consumo e della merce, ma anche della socialità, degli sguardi multicolori che s’incrociano scendendo verso il mare laggiù luminoso o salendo verso le prime colline, verso l’arrière-pays. Nel cuore di questa avenue, una delle più belle di Nizza, c’è una chiesa, luminosa, segno di tutte le contraddizioni ma anche scrigno di pace, per donne e uomini di ogni fede, e per noi atei[3]. Oggi sfregiati tutti, sfregiati definitivamente.
Guardando il film documentario, Salafistes[4], si capisce perfettamente la stupidità e la normalità di certo pensiero islamista (salafista, nel caso del documentario, ma molte sono le famiglie dei fanatici): senza commento né voce off, predicatori o venditori di fede vengono mostrati in tutta la loro pochezza; persino simpatici, alcuni: un tunisino che si occupa del merchandising, prodotti relativi alla fede ma anche scarpe nike che, spiega, non sono in contraddizione con il jihad. Soprattutto gli ultimi modelli: desideratissime dai jihadisti, figli di questo mondo, non mostri ma consumatori/consumisti, perversi figli di questo mondo perverso. E sfregiato è l’intero mondo musulmano, nel cui seno albergano frange di violenza come di bellezza estrema; sfregiato è il Corano, libro di libri, articolato, molteplice, affascinante, e ridotto dai delinquenti sgozzatori a prontuario di oppressione e di morte. [5] Il mandante della strage di Nizza è comunque uno e uno solo: quell’Erdogan, impunito leader turco (di un Paese che fa parte della NATO, altra organizzazione di morte). Impunito nelle sue stragi in Kurdistan, nel suo intervento in Siria, nel suo fomentare la guerra in Nagorno-Karabakh, nel suo alimentare le crisi cipriota e libica (in un preoccupante sogno neo-ottomano); impunito nella lotta che conduce agli antifascisti e, specialmente, ai comunisti turchi; impunito nel suo trasformare in moschee Santa Sofia a Istanbul (24 luglio 2020) e altre chiese come quella di San Salvatore in Chora, sempre a Istanbul (21 agosto 2020). Definire ossessivamente la laica e non sempre amabile Francia di Charlie hebdo un Paese che perseguita i musulmani (cioè il 9% della popolazione di quel Paese) è un insulto all’intelligenza e un’incitazione al crimine. Erdogan ha armato la mano dell’assassino di Nizza; e di tanti altri.
…O IN UNA MOSCHEA O SINAGOGA…
Certo, non si muore soltanto in chiese cattoliche (quelle decine di chiese distrutte in Iraq e in Siria, e centinaia di cristiani ammazzati nei luoghi di nascita del cristianesimo con milioni di fedeli, molti dei quali ora in fuga da nemici atroci…) ma anche in moschee e sinagoghe o in altri luoghi di culto, di religioni monoteistiche come politeistiche, o in luoghi di cultura e di aggregazione: “…non fa notizia in Europa il devastante attentato che ha causato 18 morti e 57 feriti in un centro educativo a Kabul. A compiere il massacro, un attentato suicida, rivendicato dai terroristi dall’Isis. Le trattative di pace tra governo e talebani non fermano quindi l’ondata di violenza che sta attraversando l’Afghanistan. (…) Oggi [27.10 2020, ndr] intanto almeno quattro persone sono morte e 34 sono rimaste ferite nell’esplosione di una bomba in una madrasa a Peshawar, capitale provinciale nel nordovest del vicino Pakistan. L’esplosione è avvenuta durante l’insegnamento del Corano. Qualcuno ha portato una borsa esplosiva all’interno del seminario religioso. L’attentatore avrebbe lasciato l’aula prima dell’esplosione. Le vittime sarebbero tutti studenti, mentre tra i feriti ci sarebbero anche due insegnanti. Nessun gruppo ha rivendicato al momento la responsabilità dell’attacco.”[6] Moschee e madrase sventrate: da crociati cattolici o ortodossi durante le guerre in Jugoslavia, e in particolare in Bosnia ed Erzegovina, durante i primi anni Novanta; da musulmani di altra scuola, negli ultimi decenni; da forze dell’Occidente; da fanatici induisti nel subcontinente indiano. Queste moderne guerre di religione sono ferocissime, come lo sono sempre state anche quando a combattersi erano cristiani di diversa famiglia.
E Attentato alla sinagoga[7] è uno dei libri più importanti che abbiamo letto negli ultimi tempi. Per parlare della morte in sinagoga dobbiamo fare un passo indietro non perché non vi siano stati atti recenti di questo genere (da Istanbul nel 1986 a Halle nell’ottobre del 2019, limitandoci all’ultimo trentennio, con decine e decine di morti per mano di estremisti palestinesi o di neonazisti) ma perché l’attentato alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982 ci permette di ragionare su un’altra delle piaghe aperte nel corpo del nostro Paese.[8] “…Sabato 9 ottobre 1982, alle 11.55, un commando legato al gruppo terroristico palestinese di Abu Nidal attacca la sinagoga centrale di Roma, lanciando bombe a mano e sparando raffiche di mitra sui fedeli che escono dall’edificio al termine della preghiera. Stefano Gaj Tachè, di soli due anni, viene ucciso. I feriti sono 37, molti di loro gravi…”[9] Questo attentato fu attuato durante la crisi libanese (la spietata invasione del Libano da parte di Israele iniziata il 2 giugno 1982) e in una fase in cui i maggiori partiti e l’opinione pubblica italiana si erano spostati, globalmente, su posizioni anti-israeliane. La piaga, che ancora è infetta, è il groviglio di parole che si creò in Italia, prima e dopo l’attentato: posizioni politiche anti-israeliane nel loro rapporto con l’antisionismo e l’antisemitismo. Piaghe di allora, e soprattutto la ferita che si aprì tra parte delle comunità ebraiche del nostro Paese e la sinistra (socialcomunista e extraparlamentare, soprattutto) ma anche la Democrazia Cristiana, data la posizione di Andreotti e di molto mondo cattolico, chiaramente filo-araba. Solo la grande intelligenza e l’umanità del rabbino capo Elio Toaff e l’ostinazione di Sandro Pertini permisero che quell’evento non segnasse la fine definitiva di un rapporto intricato ma fecondo, tra sinistre e parte delle comunità ebraiche, tristemente imputridito dal contesto di guerra fredda in cui ancora si era. Ma su questo, qui, non possiamo dilungarci: eppure meriterebbe scavare dentro i nomi, dentro le parole. Dentro le parole che coprono e che nascondono, mentre dovrebbero, per statuto, aprire e rivelare. Parole che ci scagliamo contro come insulti ormai insipidi (antisionista=antisemita /sionista e nazisionista, ad esempio)[10] e che impediscono la comprensione; come oggi l’uso farsesco del termine negazionista che, dal designare i negatori della shoah, è passato a marchiare con il fuoco chi fa seria ricerca in campo storico (vengono definiti negazionisti/e coloro che studiano il secondo dopoguerra sul confine italo-jugoslavo e non si lasciano travolgere, sulle foibe, dalla prepotenza delle destre estreme e di troppi ex comunisti) e chi nega l’esistenza del coronavirus, o almeno ne riduce la portata. Negazionista è parola che non significa più nulla: ripetuta ossessivamente serve solo a bollare qualcuno, ad infamarlo (altra parola troppo usata, negli ultimi tempi, con suono sinistro…), a screditarlo; mentre sarebbe bene andare a vedere cosa dice l’altro, per eventualmente rifiutarne gli assunti, ma dopo attento esame (che è anche auto-esame). A questo serve l’ottimo libro di Marzano e Schwarz: esso va a leggere l’altro, a esaminarne la consistenza, a scrutarne le ragioni profonde, anche magari coperte da parole sbagliate o frettolose, per scoprire anche le proprie parole sbagliate o frettolose, i propri radicati convincimenti…
IN UNA CHIESETTA DI CAMPAGNA
In una chiesetta in campagna vicino a Rieti, tra vecchi casolari, don Giovanni Olivieri, sacerdote, comunista, già docente di greco e latino presso il Liceo di quella città (umbilicus Italiae) e poeta in vernacolo, passò gli ultimi anni della sua vita. Un’umile e sublime chiesetta dedicata a San Giuseppe artigiano nel cuore della pianura tra Rieti e Terni, fertile d’acque (l’antico Lago Velino); e un parroco e insegnante. Così si era firmato, “Giovanni Olivieri, parroco e insegnante” sottoscrivendo una “Lettera ai comunisti italiani” elaborata da Raniero La Valle e Claudio Napoleoni nel 1986[11]. Dal cuore di una regione appartata, Olivieri riusciva a essere in contatto con i più grandi (come ad altri reatini era riuscito nel passato, ad esempio al grande critico letterario Domenico Petrini, 1902-1931). E quei grandi –grandi sul serio, immensi- scrivevano, nella lettera sopra ricordata, che occorreva uscire “dal sistema di dominio e di guerra (…) Quando diciamo sistema di guerra intendiamo un sistema, quale è appunto quello vigente, che assume la guerra, anche solo programmata e non combattuta, come fondamento e culmine dell’ordine politico, cioè del rapporto pubblico tra i poteri e tra gli uomini; un sistema dove la guerra non è un evento ma un’istituzione, non è una crisi ma una funzione, non è una rottura ma un cardine del sistema…”[12] Così disegnavano il sistema di allora e quello attuale, rafforzato dai conflitti costituenti degli anni Novanta, Iraq e Jugoslavia. E insistevano per il cambiamento, per l’uscita già allora irrinviabile da quel sistema, anche rendendola più lenta e così articolandola, in altra parte del libro Cercate ancora: “LA VALLE. …anche questo vedere in modo estremamente drammatico il cambiamento, l’uscita, forse non è giusto; forse l’uscita è fatta di più tentativi, di teste di ponte, di cose magari ambigue; non è detto che sia un’uscita, appunto, apocalittica; può essere un’uscita… NAPOLEONI. Processuale, certo… LA VALLE. Un’impresa di lunga lena…”[13] Anni formidabili, gli Ottanta, gli anni del ripensamento e non dell’egemonia del pensiero critico dei due decenni precedenti: con La Valle e Napoleoni, in quest’area, ecco Adriana Zarri, Giovanni Franzoni, Lidia Menapace… (La Valle e Menapace ancora vivissimi). Napoleoni morì nel 1988; poi accadde l’89, soprattutto l’89 di Tienanmen. Quante discussioni: Teresa Ridolfi, compagna e insegnante scomparsa quest’anno, ne trasse le conclusioni che si doveva ricominciare altrove, che c’era un errore forte in tutti i processi di liberazione del Novecento (ma non aveva scritto persino Vittori Vidali, lo stalinista Vidali, che “Tutto viene lontano, ha radici profonde. E se dovessimo ammettere che le radici stesse sono inquinate?”[14]) Con Giovanni Olivieri decidemmo invece che sarebbe stato bene continuare, continuare nell’errore: avevamo ascoltato intonare l’Internazionale da alcuni degli studenti e degli operai di Piazza Tienanmen (un piccolo gruppo, certo) o credemmo di aver ascoltato, volemmo credere di… Ma quante lacrime, quanti rapporti interrotti, da allora, quanta paura. La stessa di oggi: sappiamo della necessità di dover uscire dal sistema di guerra, da cui a cascata tutti i nostri sistemi sono infetti, fino alle più piccole trame, fino alle liti da cortile, alle zuffe di “galli inferociti” (scrive Montale) che ci immiseriscono; ma invece dell’uscita ecco le gabbie, vecchie e nuove. Le nuove emergenze, compresa la pandemia in corso, continuano a essere governate dall’egemonia arcaica per cui there is no alternative: nessuna alternativa è possibile, solo una gestione dell’esistente, gestione sempre più corrotta e dai confini di istante in istante più angusti e violenti. Da queste gabbie guardiamo riprodursi il potere: quello di un giovane tunisino di vent’anni che sgozza tre persone in una chiesa di Nizza, quello di uno sniper democratico occidentale, quello di un cosiddetto accordo di pace (altre parole che coprono…) che ribadisce ingiustizie, occupazioni, oppressioni in Israele e Palestina. Cosa possono fare marrane e marrani, ora che tutto è a posto, che tutto è così chiaro e che ogni segreto è scomparso? “…Nella notte della clandestinità, in assenza di ogni testimone storico, i marrani testimoniano il segreto in una esasperata anacronia, una disperata resistenza al tempo del calendario dominante, lottando, nell’attesa, per una controstoria…”[15] Dobbiamo sporcare il chiarore, imbrogliare le carte, dormire solo a tratti, tremando di “sete di futuro”. Avanguardia, anti-accademia.
ULTIM’ORE
1° novembre, in Etiopia, almeno 32 civili massacrati nell’attacco di un gruppo armato, nell’ovest del Paese (Amnesty international parla di 54 morti); 2 novembre, a Kabul, 20 morti all’Università (“…Nelle ultime settimane gli attacchi sembrano moltiplicati: almeno 261 civili sono rimasti uccisi e 602 feriti negli ultimi 50 giorni, dice il governo di Kabul…”, scrive Repubblica); a Vienna, attacco in centro (afferma il premier Kurz: “un austriaco simpatizzante dell’Isis” sarebbe l’attentatore), almeno 4 morti, una ventina di feriti non lontano da una sinagoga. Attacchi impeccabili, come d’orchestre. Il sistema della guerra si conferma, limpido, chiaro, senza sbavature. Nelle ultim’ore prima di un nuovo confinamento.
Gianluca Paciucci
2 novembre 2020
[1] Vedi pagg. 69-70 in Karl Marx-Friederich Engels, Scritti sulla religione (saggio introduttivo di Marcello Fedele), La nuova sinistra-Edizioni Savelli, Roma, 1973, pp. 376.
[2] Violenza verticale, dall’alto e da lontano, è invece quella delle Esecuzioni a distanza (titolo di un libro di William Langewiesche pubblicato in Italia da Adelphi nel 2011): pigiare un bottone in una stanza in Nevada e far alzare un drone che porta la morte, in Afghanistan. Ogni bombardamento aereo è esecuzione a distanza (Londra, Dresda, Hiroshima, Belgrado…); ogni sniper è assassino a distanza (culmine di questo orrore a Sarajevo, primi anni Novanta).
[3] Che anche le chiese possano essere inospitali, comunque, non è mistero. Ci piace riportare un aneddoto raccontato da Paolo Rumiz in Appia, Milano, Feltrinelli, 2016, pp. 362: Rumiz e un monaco etiope (cristiano) vorrebbero entrare in San Pietro ma le guardie li fanno uscire. “…L’avevano preso per un mendicante o un matto, come se matti e mendicanti non avessero diritto di accedere al Tempio. ‘Non c’è Dio, qui dentro’, concluse tranquillo il monaco…” (pag. 51).
[4] Salafistes (2016, 72’) di François Margolin e Lemine Ould Salem. Sottotitoli in inglese. Non risulta una sua circolazione in Italia.
[5] Per capire il mondo musulmano, eccellente è il libro di Biancamaria Scarcia Amoretti Il mondo musulmano. Quindici secoli di storia, Roma, Carocci, 2015 (nuova edizione; prima ed. 1998), pp. 419. Uno schiaffo all’ignoranza italica. Per il Corano ricordiamo che ne è uscita un’edizione di meravigliosa complessità, sempre in Francia, Le Coran des historiens [Il Corano secondo gli storici] (cur. Mohammed Ali Mir-Moezzi e Guillaume Dye), Paris, Ed. du Cerf, 2019, 3 voll. per complessive 2386 pagine più un quarto volume (bibliografia di studi coranici) in rete.
[6] https://www.quasimezzogiorno.org/news/nel-mirino-dei-talebani-ancora-gli-studenti-a-kabul/
[7] Arturo Marzano – Guri Schwarz, Attentato alla sinagoga. Roma, 9 ottobre 1982. Il conflitto israelo-palestinese e l’Italia, Roma, Viella, 2013, pp. 237.
[8] Segnaliamo un recente articolo su questo fatto: https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/10/09/news/attentato-alla-sinagoga-di-roma-una-nuova-pista-trentotto-anni-dopo-1.354342
[9] Dalla quarta di copertina di Attentato alla sinagoga, cit. Su Abu Nidal è ancora validissimo il saggio di Patrick Seale, Abu Nidal, una pistola in vendita, Roma, Gamberetti Editrice, 1994 (ed. originale 1992), pp. 331.
[10] In questo avvilente dibattito, del tutto strumentale e frutto di battaglie interne è l’accusa di antisemitismo rivolta a James Corbyn, “sospeso” dal partito, e al “suo” Labour party; come avvilente è l’equiparazione di Israele al regime nazista (più delle altre accuse, anche queste ridicole, a Saddam, l’Hitler del Golfo, o a Hitlerošević in una mediocre copertina dell’Espresso contro l’allora leader serbo Milošević). Altre parole che coprono: l’islamo-gauchisme (presunte collusioni tra fanatici islamisti e sinistra radicale) in un dibattito francese che ha raggiunto anche l’Italia. Da noi leader di questa corrente sarebbe… il Papa, secondo Salvini e altri grandi del pensiero.
[11] In appendice a Claudio Napoleoni, Cercate ancora. Lettera sulla laicità e ultimi scritti, Roma Editori riuniti, 1990, pp. 174.
[12] Pag. 147 in Cercate ancora, cit.
[13] Pag. 135 in Cercate ancora, cit.
[14] Citato a pag. 286 di Patrick Karlsen, Vittorio Vidali. Vita di uno stalinista (1916-1956), Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici – Il Mulino, 2019, pp. 311.
[15] Pag. 107 in Donatella Di Cesare, Marrani. L’altro dell’altro, Torino, Einaudi, 2018, pp. 113. Della stessa autrice è appena uscito (22 ottobre) Il tempo della rivolta, Torino, Bollati Boringhieri, 2020, pp. 127.
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