Questa sesta Lettera marrana comincia da un ricordo attivo, dall’assenza viva di un uomo e di un compagno con il quale ho condiviso molto, Walter Peruzzi, morto a Savona il 25 maggio del 2014. Una scomparsa, tra le tante incomprensibili insostenibili di questi tempi brutali, su cui però l’elaborazione del lutto ha permesso qualche risultato per via di frequentazioni private (le numerose riflessioni con sua moglie Milvia Naja e con chi lo aveva conosciuto da sempre) come di incontri pubblici (la serata che la bella redazione di “Guerre&Pace” gli ha voluto dedicare il 17 maggio u.s., in cui è stato presentato il numero della rivista a lui dedicato) 1. In questa occasione una settantina di persone si sono riunite per rinnovare il patto con Walter, cioè per rinnovare un’esperienza che continuerà ad essere fondante per molte e molti di noi, e per dirgli, come in una canzone di Jean Ferrat, che “avresti potuto vivere / ancora un po’”. A noi avrebbe fatto bene.
CON WALTER PERUZZI
Cosa si faceva, e si imparava, negli incontri a volte anche burrascosi (mai per mia esperienza diretta, peraltro) con Walter? Si pensava insieme, si imparava a pensare insieme: nelle riunioni della redazione di “G&P” (in cui sono arrivato tardi, dopo anni di collaborazione esterna, ma interna al movimento per la pace), nella preparazione di un libro e, più indietro, nel sindacato scuola e nei gruppi politici che egli ha attraversato. Pensare insieme per precisare il proprio punto di vista e eventualmente trovare nodi e momenti d’accordo, per raggiungere il maggior grado di chiarezza possibile, senza mai compromessi al ribasso, e infine per riconciliarsi senza sconfitte per nessuno/a, nella contraddizione e anche nel paradosso. Magari dopo sfuriate omeriche, mi dicono. Personalmente l’ho conosciuto al tempo della Prima guerra del Golfo Persico, “splendore dell’occidente” e guerra costituente dell’attuale disordine mondiale, per poi intrattenere con lui più di un ventennio di rapporti, di discussioni, di progetti. Memorabile, per la mia famiglia, il suo “pronto sono Peruzzi”, allitterante e cortesissimo. Memorabili, su altra scala, alcune sue intuizioni politiche e i passaggi di alcuni suoi articoli, vergati sempre in uno stile impeccabilmente affilato. Ricordo, in particolare, l’editoriale scritto nell’ottobre 2001 a commento degli attentati di New York, con questo passaggio: “…L’Italia? Farà la sua parte [nella cosiddetta ‘guerra al terrore’], proclama Ciampi e ripetono i ciambellani di corte. Noi questa parte non la faremo. Non ‘sceglieremo’ fra i terroristi e Bush. Non perché siamo neutrali fra i due ma perché siamo contro entrambi. Perché chiediamo che siano individuati e giudicati i veri responsabili degli attentati odierni – ma anche dell’embargo all’Iraq, della Guerra del Golfo e del Kosovo (…). E chiederemo nelle piazze, ai lavoratori e alle lavoratrici, ai giovani, di disertare la guerra di Bush.” 2 Fa piacere, ma al tempo stesso genera dolori e rimpianti, la naturale semplicità con cui Walter poteva usare il ‘noi’, pronome plurale di prima persona, certo dovuto al fatto che egli scriveva a nome della redazione, ma che subito si allargava a una pluralità di soggetti la cui forza era ancora intatta e che provò in tutti i modi a sabotare la chiamata alle armi, con manifestazioni formidabili e ricche di pensiero. Manifestazioni e pensiero, però, spazzati via dalle pseudodemocrazie che allora, come oggi, dirigono il pianeta: tirannicamente. Tra la repressione di Genova in occasione del G8, gli attentati del settembre 2001 e le conseguenti guerre (ancora in atto) venne ribadito nel sangue chi fosse a governare il pianeta, e quale sarebbe stata la sorte di chi a questo si opponeva politicamente. I terroristi erano, e sono, utili e feroci idioti, utili complici feroci, come oggi, 25 giugno 2015, blasfemi in pieno ramadan, senza dio o con troppo dio sulle spalle, in Tunisia, Somalia, Kuwait e Francia.
Di un altro articolo vorrei segnalare un passaggio, per sottolineare quanto di ripetitivo e di colpevolmente irrisolto vi sia nel nostro Paese e nel dibattito pubblico. Articolo con un incipit tagliente: “Tre in un giorno, l’11 febbraio 2001, a Roma, Napoli e Seriate (BG); due qualche giorno prima a Roma. Sono gli immigrati uccisi da pirati della strada italiani. Solo un ‘campione’ di quanto accade in un mese, o in un anno, in Italia. Ma vanamente si cerca nelle magre cronache di questi incidenti lo sdegno suscitato dall’assassinio del ‘piccolo Alessandro’ da parte del ‘pirata albanese’. Questa volta la comprensione va, semmai, al pirata, ‘un uomo normale, senza precedenti, lavoratore’ che ‘ha sbagliato per lo spavento’, come gli inquirenti ci descrivono uno di loro. Nessun opinionista ha sprecato editoriali, nessun giornale ha sparato titoli di testa, nessun Vespa ha messo in scena vomitevoli Porta a porta per gli immigrati ammazzati da pirati maremmani o brianzoli. Fassino non è volato a consolare i famigliari. Bianco non ha firmato decreti di espulsione. Ciampi, il che ha i suoi vantaggi, ha taciuto…” 3, con clausola fulminea ed esilarante, alla Fortebraccio, direi, o come nella migliore poesia epigrammatica. Walter ha messo a nudo, in queste righe, la rozzezza e le brutture dell’ ‘ideologia italiana’, ancora oggi operante, e anzi sempre più forte, nel linguaggio e negli atti di parte di un popolo massificato e sfigurato, e di una classe politica truculenta. L’ ‘invasione’ evocata nel titolo dell’articolo appena citato è altra parola-chiave per capire il presente, o meglio quel presente deformato in cui siamo chiamati a vivere. L’Italia, Paese aggressore in tutte le guerre dalla fine Ottocento a oggi, che ha ucciso e stuprato in Africa orientale, in Libia, nella penisola balcanica, in Russia, e nella varie ‘guerre umanitarie’ dell’ultimo ventennio, l’Italia Paese ‘invasore’ per eccellenza (ma senza mai pagare per questa sua protervia), ora si dice vittima di una ‘invasione’. E lo dicono rispettati editorialisti, uomini di sinistra ridicolmente ‘esasperati’, come pure vecchi bossiani e nuovi ‘fascio-leghisti’ alla Salvini. Walter si era occupato della Lega nord sin dagli inizi, subito interpretandola come fenomeno non transitorio e dalle inquietanti compromissioni ideologiche: razzismo, in certe fasi anche ‘biologico’, antimeridionalismo, contiguità con movimenti d’estrema destra, oltre che con settori importanti della vecchia DC (in Veneto e in Lombardia, soprattutto), e smodata voglia di potere e di arricchimento. Altro che ‘costola della sinistra’! O forse sì, di quella sinistra che ha odiato talmente sé stessa fino ad autodistruggersi (perfetta la continuità, in questo senso, tra gli Occhetto-D’Alema-Veltroni e l’attuale primo ministro) ma soprattutto fino ad avvilire e sbaragliare il ‘nemico interno’: la classe operaia, il movimento femminista, quello pacifista e rosso-verde. Insieme a Milvia Naja e alla redazione di G&P Walter ha prodotto numerose rassegne stampa, poi diventate articoli, e infine un libro dal titolo inequivocabile, “Svastica verde” 4, a evidenziare le chiare ascendenze e l’intimo pensiero del partito di Bossi, Maroni e Salvini.
L’INESISTENTE INVASIONE
Di ‘invasione’ parlava Walter, decostruendone il mito operante già più di dieci anni fa. Per parte mia ho conosciuto uomini e donne di quell’esercito che, urlano, sta invadendo in questi ultimi anni e mesi l’Italia e l’Occidente: li ho conosciuti a Ventimiglia a metà degli anni Novanta, kurdi scacciati dalla guerra sporca a un intero popolo scatenata dall’esercito turco, fedele membro della NATO; a Trieste negli ultimi anni, pakistani, afghani, ancora kurdi (ma stavolta con passaporto siriano o iracheno), migranti economici e profughi delle guerre devastanti in Afghanistan, Siria e Irak, con complicità oggettive di tiranni locali (Saddam, Assad) e dei loro ‘nemici’ occidentali – orientali (statunitensi e sauditi, innanzitutto, e poi l’altra coppia di gangster, Putin e i suoi alleati iraniani, orribili preti); e Ventimiglia di nuovo, al tempo della ‘primavera tunisina’ e della sua repressione, e oggi, eritrei e sudanesi, soprattutto, qualche siriano/a, che fuggono da Stati o spietatamente in piedi (la feroce dittatura di Isaias Afewerki in Eritrea) o in via di lancinante dissoluzione (Siria, appunto, o quella Repubblica del Sudan del sud, appena nata e già ennesima trappola per topi – esseri umani) 5. Ne ho conosciuti diversi, e non avevano l’aria di conquistatori, nessuno/a e anche gli ultimi, le ultime arrivate, giovani e meno giovani, famiglie con bambini che ruzzano nell’atrio della stazione di Ventimiglia, uomini politicamente avveduti che rifiutano i diktat delle polizie e delle istituzioni e che, in protesta, occupano gli scogli a Ponte San Ludovico, lato italiano della frontiera stradale tra Italia e Francia. A un passo dai loro occhi c’è Mentone dall’incerta identità di base (un po’ d’Italia, un po’ di Francia, e molti pieds noirs, francesi che dovettero rientrare dal nord Africa al tempo delle indipendenze dal colonialismo), ma soprattutto c’è il muro dell’Europa, il muro dell’arroganza e dei controlli nei treni: la C.G.T., il maggior sindacato francese ben radicato nella sinistra socialcomunista, ha a ragione indirizzato una lettera al presidente delle Ferrovie francesi (S.N.C.F.) Guillaume Pepy denunciando la complicità delle ferrovie con le forze dell’ordine nella caccia ai migranti nelle stazioni di Menton Garavan e di Nizza, in situazioni che ricordano gli anni della caccia agli ebrei, gli anni di Vichy. Treni, sempre treni, per andarsene lontano ma anche per essere deportati, meravigliosi lampi di progresso nell’ “Inno a Satana” di Carducci, ma anche desolate rotaie che entrano nel campo di Auschwitz; vagoni piombati che più volte tornano nell’immaginario e nelle parole vili di alcuni politici (il leghista Gentilini, quand’era sindaco di Treviso, a dire che per gli immigrati servono “vagoni piombati per rispedirli da dove sono venuti”); vagoni separati per italiani da un lato e per immigrati dall’altro come propose qualche leghista (ma non solo, dato che il ‘razzismo democratico’ è ormai diffusissimo) o scompartimenti disinfettati da Borghezio. Non sembri eccessivo questo ricorrere al transito di ebrei e di antifascisti attraverso la frontiera franco – italiana tra Ventimiglia e Mentone prima, durante e dopo il secondo conflitto mondiale, frontiera sensibile per sentieri che si aprono tra le prime rocce a picco sul mare, tra cui il famoso ‘passo della morte’ che è costato la vita a non poche persone smarritesi nella fuga 6. Il riferimento a quell’epoca è, per noi europei, naturale, e forse anche semplicistico, oltre ad essere sicuramente autoassolutorio: il ‘mai più’ rivolto al passato non produce la necessaria strumentazione politica per affrontare i crimini odierni, e soprattutto non viene tradotto in azione. Al massimo un po’ di solidarietà. Sia lode a tutte e tutti coloro che dal primo giorno dell’ennesima crisi si sono strette/i attorno ai migranti con pacifismo nei fatti, offrendo beni di prima necessità ma anche presenza politica, partiti e associazioni francesi e italiane che intrecciando legami di lingue, competenze e pensiero provano a sabotare i comportamenti arcaici dei rispettivi governi. Quest’Europa nata dalla dissoluzione del blocco sovietico e dall’abbattimento del muro di Berlino, ne sta innalzando mille altri –in facile metafora, che però è anche una spaventosa e concreta costruzione: in nome della libertà è stato abbattuto il muro che divideva la città tedesca, mentre in nome della sicurezza (ma io direi del dominio capitalistico) ne vengono eretti di continuo. Ricorro spesso a Jean Baudrillard: egli affermò, poco dopo la caduta del muro di Berlino, che questo proteggeva l’Occidente, più che difendere l’impero sovietico. Terminata in modo incruento, almeno in Germania, la vicenda di quel muro, ecco la libertà di movimento chiedere il conto, ma anche ecco le nuove polizie unite a ricominciare il loro terribile mestiere contro i migranti / camminanti / nomadi per necessità o per scelta: ecco nascere, più forte che mai, la fortezza-Europa che crea muri alle sue frontiere (Frontex e varie operazioni nel Mediterraneo) e fomenta guerre (Ucraina –in collaborazione con il padrone statunitense e con il teppista Putin, amatissimo da Salvini e da Marine Le Pen-, Libia, etc.), decidendo di avere un nuovo poderoso nemico interno nell’immigrato/a o nel/nella migrante, figura che sostituisce il vecchio (la classe operaia, il movimento femminista, etc.- vedi sopra). Dunque l’Italia e l’Europa sarebbero invase, per tornare all’immagine iniziale, dall’esterno (per cui si ritiene ormai necessario chiudere le frontiere, senza preoccuparsi di chi cadrà -a migliaia- tentando di avvicinarsi ad esse) e dall’interno (la quinta colonna, soprattutto musulmana ergo, per qualcuno, jihadista). Noi invasori di lunga data, e mai puniti come Stato né come singoli criminali di guerra, sottolineo ancora una volta, ora siamo chiamati a difenderci dall’invasione di feroci Saladini che però hanno i corpi esausti dalla fatica del viaggio e dalla morte più volte sfiorata. Torno a Walter Peruzzi per riprendere quello che può diventare uno slogan: in questa ennesima ‘emergenza’ l’Italia farà la sua parte, ma noi no. Se solo riuscissimo di nuovo a dire noi 7 e a farlo diventare non il segno di un’identità chiusa e superba ma il pronome di un’opposizione comune, di un felice sabotaggio (alla Erri De Luca) del presente.
*Foto scattate da Gianluca Paciucci al confine tra Itala e Francia: presidio permanente dei/delle migranti”
Gianluca Paciucci
1 Guerre&Pace, anno XVII, n° 172, inverno 2014/15 (“Walter Peruzzi. 1937 – 2014”). Nel numero, dopo una presentazione redazionale, sono raccolti molti degli articoli scritti da Walter in “G&P” e, nella parte conclusiva, i ricordi di Lanfranco Binni, Sergio Dalmasso, Abbas Dhegan, Floriana Lipparini, Gianluca Paciucci e Annamaria Rivera. Questo numero è l’ultimo della rivista: “…Chiudiamo senza recriminazioni, senza litigare, senza rompere il filo dei nostri ragionamenti e del nostro impegno, per ognuno/a a suo modo e in suoi percorsi. Non è stata la morte di Walter a farci scegliere la chiusura, anche se per tutte/i noi fare la rivista senza Walter sarebbe stato certamente troppo difficile…”.
2 Walter Peruzzi, “L’Italia farà la sua parte, noi no”, G&P, n° 83, ottobre 2001.
3 Walter Peruzzi, “Che l’invasione continui”, G&P, n° 77, marzo 2001.
4 Gianluca Paciucci – Walter Peruzzi, Svastica verde, Roma, Editori Riuniti, 2011, pp. 437, con una postfazione di Annamaria Rivera. Questo volume, ormai introvabile, avrebbe voluto un aggiornamento (le vicende della Lega nord sono riportate e commentate fino al dicembre 2010) ma l’editore non si disse d’accordo: Svastica verde si è trovato schiacciato nelle beghe attorno alla proprietà del marchio ‘editori riuniti’, beghe incomprensibili per noi profani. Restano il ricordo di un bel lavoro comune, e due denunce: la prima, da parte di Borghezio, che il Giudice per le indagini preliminari ha subito bloccato, e la seconda, da parte di Calderoli, che andrà in giudizio il 23 ottobre di quest’anno. Entrambe le denunce investono opinioni, peraltro correttamente presentate con l’appoggio di testi originali e che nulla hanno a che vedere con la violenza verbale dei leghisti, che inoltre spesso diventa ‘legge’ e quindi ‘atto’ violento, là dove il partito di Bossi e Salvini ha governato e governa. È uno degli episodi del mondo ‘fuori dai cardini’ in cui viviamo, per combatterlo.
5 i topi, metafora a doppio taglio, splendidi in “Maus” di Art Spiegelman, e invece ratti a inquietare l’immaginario, portatori di peste (nei vari Nosferatu) o di malattie anche politiche: sono i topi italiani a portare il sudiciume e l’anarchia negli U.S.A., secondo disegnatori statunitensi di primo Novecento; così come sono topi, sempre italiani ma anche slavi e dell’U.E. come istituzione, quelli che vanno a rubare il ‘formaggio’ agli onesti svizzeri in una campagna pubblicitaria del 2011 dell’UDC svizzera, partito xenofobo. Sono gli stessi a vivere nelle parole di Salvini per il quale “i topi sono più facili da debellare degli zingari, perché sono più piccoli…” (Radio Padania, 09.04 2010). Sono gli stessi a vivere nell’ennesimo tweet cupo e razzista del grande leader del M5S: “Non si può aspettare il 2016, bisogna andare ad elezioni il prima possibile, prima che Roma venga sommersa dai topi, dalla spazzatura e dai clandestini…” (17.06 2015). Non so se il rictus o lo schifo prevale. E a poco servono smentite e correzioni, a pochissimo il fatto che ‘nel M5S ci sono tante brave persone…’.
6 devo molte delle informazioni su questi luoghi del dolore e della speranza a Enzo Barnabà, intellettuale di rilievo e fine ricercatore storico (suo il libro Morte agli italiani!, ora presso Infinito editore, sul pogrom anti-italiano avvenuto ad Aigues-Mortes nel 1893), con un ruolo nel bel film documentario Io sto con la sposa (2014) di Del Grande – Augugliaro – Al Nassiry in cui si immagina un viaggio nuziale tra l’Italia e la Svezia e che in parte si svolge proprio tra gli ultimi lembi del ponente ligure e Mentone, su quello che Barnabà vorrebbe diventasse il ‘sentiero della pace’. Segnalo, in altra direzione, la ben documentata ricerca di Paolo Veziano, Ombre al confine. L’espatrio clandestino degli ebrei stranieri dalla Riviera dei fiori alla Costa Azzurra 1938 – 1940, Saluzzo (CN), Fusta Editore, 2014, pp.271.
7 nella Quinta lettera marrana ho espresso dubbi e perplessità sul pronome ‘noi’, perplessità che conservo. Esso necessita di una nuova spinta se vuole ripresentarsi come centrale, sbarazzandosi di tutte le scorie tendenzialmente totalitarie che ha nelle vene. Il ‘noi’ di Walter, e di tante/i altre/i, aveva questa spinta nuova e originale, ed è vivo in molti movimenti che ancora in questi anni stanno tenendo alta la testa. Tra i ‘noi’ più recenti c’è il ‘we can’ obamiano, dalla fedina sporca, e il ‘podemos’ spagnolo.
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