A proposito di Nizza, a proposito di Aleppo: attentati e guerre perenni in un pianeta neoorwelliano. Metodi per pensare le offese, le morti e la rinascita.
È con un fuoco d’artificio che inizia il breve film A propos de Nice (1930) di Jean Vigo e Boris Kaufman. È con altri fuochi d’artificio, seguiti dalla strage del 14 luglio dell’anno in corso, che finisce quella Nizza, la città del dualismo serviti/servitori, così ben sottolineato dal divertito e polemico montaggio degli autori. Vigo e Kaufman individuano la città del turismo e dell’ozio, e quella nascosta del lavoro, umile e umiliato; la città del carnevale, i cui cortei diventano immagini di sfilate militari e funerali; la città delle vele che diventano incrociatori di guerra. E la città di una borghesia sonnolenta e gaudente (le sedie in riva al mare che ospitano le sieste e gli aperitivi del sopramondo, oggi, certo, democratizzato e apertosi al turismo di massa) a due passi da quella della produzione, ma anche la città del gioco e dell’azzardo: il Casino per gli uni, la morra o le carte per gli altri, con il ritmo delle onde che diventa quello delle acque di scolo e dei rifiuti, con il salutismo dell’abbronzatura e del nuoto che diventa la malattia e le deformità dei bambini della città vecchia. Sintetizzando: per Vigo e Kaufman l’ozio dei bagnanti e dei turisti è frutto del negozio di tutto un mondo messo al lavoro dai primi. Ozio e negozio entrambi malsani, a loro modo. Le chaises bleues diventate negli ultimi anni simbolo della città, sono un’interpretazione postmoderna, nei lavori di diversi artisti, del tema dell’ozio lungo la Promenade des Anglais.
L’ATTENTATO
Contro quale di queste due città ha lanciato il suo camion Mohammed Lahouaiej Bouhlel, facendo 85 morti e colpendo Nizza in un modo che resterà indelebilmente inciso? Contro entrambe o, meglio, contro la linea di contatto e di frattura che tra quelle due città esisteva ed in parte è esistita fino al recente 14 luglio. Come negli anni Settanta in Italia al grido forte e gioioso di operai-e/studenti/femministe etc. che riempiva le strade del Paese rispondeva la stupidità assassina del terrorismo rosso a togliere la voce al popolo, così oggi i ripetuti atti di terrorismo nelle città europee spezzano la voce e il pensiero di chi vorrebbe modificare lo stato delle cose presente e lo costringono al balbettio, ai distinguo, a progressive ritirate dai campi di confronto più avanzati. Ma l’azzeramento sistematico dei conflitti di classe è anche costitutivo della narrazione occidentale per cui lo stadio perfetto della civiltà, pacifico e potente, può essere messo in discussione – secondo il pensiero dominante- solo da folli provenienti da civiltà malate: i grandi folli della storia (Castro, Kim Il-Sung e rispettive dinastie, Chavez, Saddam, Gheddafi, Assad) e i piccoli folli (Bouhlel oppure l’assassino di padre Jacques Hamal, a Saint Etienne du Rouvray, o tutti/e i/le protagonisti/e delle rivolte nelle banlieues francesi o nelle città statunitensi). Dopo l’etnicizzazione del crimine, ecco la psichiatrizzazione dello stesso, come nell’Unione Sovietica brezneviana. Essendo il nostro un mondo perfetto, come perfetto era il paradiso sovietico, solo dei folli possono metterlo in discussione. Folli da internare: al ‘grand remplacement’ (la grande sostituzione della popolazione europea con altra proveniente dal sud del mondo e a maggioranza islamica, secondo Renaud Camus e i suoi ancor più insipidi divulgatori, Salvini in prima fila) le società occidentali rispondono con il cosiddetto, e arcaico, ‘grand renfermement’ (di pazzi, vagabondi, mendicanti, streghe, migranti, etc. – le riflessioni di Foucault sono sempre di straordinario valore). Aharon Shabtai, intellettuale israeliano, in ‘Agli studenti’: “…Lo sapevate che l’America investe in picchiatori e in nuove prigioni più che in educazione? / Tra poco anche qui in una famiglia media con tre figli / la figlia sarà una puttana o una commessa, il figlio un secondino / o un uomo della sicurezza, e suo fratello un detenuto o un poeta…”1. Due milioni e trecentomila i detenuti negli U.S.A., un quarto dell’intera popolazione carceraria mondiale; e quanti i pazzi? Questo imprigionamento da stato totalitario e questa psichiatrizzazione sono peraltro strettamente legate all’etnicizzazione: quando in un soggetto o in un gruppo si uniscono etnia/religione2 e disagio psichiatrico il prodotto non può che essere il crimine su larga scala. La stessa etnia/religione diventa una religione di folli nel suo complesso (l’islam, si legge in Plateforme di Michel Houellebecq, è una “religione déraisonnable”, una religione irragionevole), com’era folle il comunismo: la follia dell’islam politico avrebbe sostituito quella del comunismo, con chiare convergenze, secondo intellettuali quali Alain Finkielkraut3 .
QUESTIONI DI METODO
Indagare i fenomeni della società anche sotto l’aspetto psichiatrico è certo importante, ma solo quando una tale indagine non si limita ad individuare una e una sola spiegazione di eventi complessi ma si serve di diverse discipline per provare ad abbozzare un’ipotesi di ricerca. Importanti, in questa direzione, i lavori di Fethi Benslama, e la sua ultima fatica, in particolare, Un désir de sacrifice. Le surmusulman4. Per lui i “lavori psi (psichiatri, psicologi, psicanalisti)” sono utilissimi se, sulla scorta di Freud nel Disagio della civiltà e in altre opere dello stesso tenore, all’approccio “clinico” ne vengono uniti altri, tra cui quello “sociale” e quello “politico”. Egli auspica una “psicoantropologia” e una “psicopolitica” capaci di guardare sotto molteplici e intrecciati aspetti, nel caso specifico, i fenomeni di “radicalizzazione” di giovani all’interno dell’attuale evoluzione/involuzione del mondo islamico (nella sua fase “islamista”). Mondo contro il quale l’autore, psicanalista e saggista franco-tunisino, si lancia con particolare durezza: “…Accade che le civiltà producano un gran numero di individui capaci degli atti più atroci. Oggi, quella dei musulmani è in questa fase. Non consola il fatto che altre civiltà abbiano conosciuto dei momenti simili nella loro storia. Riconoscerlo permetterebbe di capire a quale pericolo il musulmano va incontro con il supermusulmano…”5. Quest’ultima figura o tendenza ha origini storiche negli anni Venti del XX secolo, tra la fine dell’impero Ottomano (1924), con il relativo trionfo dell’Occidente colonialista, e la nascita di una sorta di Islam pride che per la prima volta vede la luce nel 1928 con la fondazione del movimento dei Fratelli musulmani, per reagire alla dissoluzione del califfato; essa si è poi rafforzata a partire dal 1979-1980 (ascesa al potere di Khomeini nell’Iran sciita e invasione sovietica dell’Afghanistan) ed è esplosa a partire dagli anni Novanta, tra Prima Guerra del Golfo e fatti d’Algeria per rispondere a una doppia crisi: quella dell’islam dell’umiltà (e umiltà è uno dei significati possibili del termine musulmano, ricorda Benslama) e quella dei regimi nazionalisti e pseudosocialisti usciti dalla fase di decolonizzazione. Non si può riportare qui tutto il percorso dell’ottimo libro di Benslama, ma è importante sottolineare che accanto a questi elementi di carattere storico-politico, la nascita del supermusulmano è legata strettamente, da un lato, al nodo della sessualità e del controllo dei corpi e, dall’altro, a processi di re-identificazione / re-radicamento delle nuove generazioni di musulmani, soprattutto di quelle residenti in Occidente. “Vorrà inoltre dire qualcosa se il “40% dei nuovi islamisti radicalizzati è costituito da convertiti…”.
A questa paurosa crisi di una civiltà, l’Occidente – che peraltro è lungi dall’essere monolitico al suo interno, come non è monolitico il mondo musulmano- risponde con pensieri e atti che abbiamo sopra definito arcaici, fondati sull’ossessione della sicurezza e della perennizzazione della guerra. L’ossessione della sicurezza, innanzitutto, non garantisce l’incolumità dei propri cittadini: a cosa siano servite le 1257 videocamere disseminate a Nizza (una ogni 270 abitanti…) lo abbiamo visto il 14 luglio, e anche lo stato d’emergenza ha scopi non limpidi e soprattutto limiti oggettivi contro un nemico duttile e sorprendente, gli islamisti, per cui “la morte non è un qualcosa che può arrivare combattendo, ma è lo scopo del combattimento. Morire è il trionfo” (citiamo sempre da Benslama). Israelizzare la sicurezza, propone qualcuno6 : certo, come insegna Jeff Halper, ebreo israeliano di origini statunitensi, Israele è all’avanguardia nel mondo, in questo settore, come purtroppo sanno i palestinesi e, per motivi diversi, tutti gli acquirenti dei servizi sicuritari di Tel-Aviv sparsi nel pianeta, che così Tel-Aviv tiene in pugno; ma come illustra il regista Amos Gitaï, anche questa è una sicurezza che può far acqua, quando vuole, come nel caso dell’assassinio di Yitzhak Rabin, effettuato da fanatici ebrei lasciati –nei fatti- liberi di agire contro l’allora primo ministro del Paese impegnato in un cammino di pace: crimine rifondatore, il 4 novembre 1995, delle attuali violenze in Palestina e Israele7 . Israelizzare la sicurezza è, quindi, uno dei tanti e stupidi slogan di questa stupida e orribile estate. La perennizzazione della guerra, invece, non fa altro che portarci in uno stato tipicamente orwelliano, nel celebre 1984 e nel suo seguito, quel 2084. La fin du monde (2015) dello scrittore algerino Boualem Sansal: guerra continua, nei due casi, che appare e poi scompare dagli schermi, guerra con nemici variabili e/o inventati ad arte. Così oggi: quando è cominciata la guerra in Afghanistan? E in Iraq? E in una buona metà dell’Africa? E persino in Siria, in cui sappiamo che la guerra ha avuto inizio cinque anni fa, pur avendone perso la memoria e stentando a seguirne i fatti: chi si batte e contro chi8? Che colori hanno le fittissime aviazioni che si scontrano sopra i cieli di Damasco? Cosa sta accadendo in quell’Aleppo che era la perla della Via della Seta? E così nello Yemen e in altri luoghi violati/violentati nel mondo, e a Grozny dove è persino stata completata una ricostruzione, ma con enormi giardini al posto dei palazzi sventrati della città che fu. Guerre dimenticate, le chiamano, mentre sarebbero leggibili se a una interpretazione strumentalmente emozionale (gli sguardi dei bambini feriti sbattuti in prima pagina, a corrente alternata, come trofei da esibire della nostra falsa coscienza) e/o ideologica (democrazie candide contro perverse dittature) se ne sostituisse una più razionale e basata sull’analisi dei fatti economici e geopolitici che hanno portato all’esplosione dei conflitti. Tutto è fumo, invece, e non solo di macerie: quello, in prospettiva più terribile, della verità.
SIEU NISSART
Cos’è stato, allora, il terribile atto di Mohammed Lahouaiej Bouhlel, non essendo un atto esclusivamente psichiatrico (ma spiegabile anche con la psichiatria) né etnico-religioso (ma spiegabile anche con l’attuale fase della religione islamica)? È stato un atto eminentemente politico. Non usiamo qui i termini atto politico in senso giuridico, ma in modo empirico: esso è un atto che ha origini nella polis, in questa si svolge e su di essa scarica le sue conseguenze. Un atto terribilmente sensato: in una giornata particolare, la festa nazionale francese; in un luogo particolare, Nizza, cuore dell’ozio francese e internazionale; con un mezzo e con modalità particolari, un camion lanciato contro la folla inerme ma non per le strade polverose di una Baghdad o di una Damasco: nel cuore dell’Europa dei corpi presunti invulnerabili, e invece finalmente/giustamente straziati, nell’ottica di vendetta e terrore degli islamisti. Che cosa avrà visto l’attentatore dirigendosi contro gruppi di persone che stavano sfollando? Se avesse avuto una videocamera (come fece Merah)9, quali immagini avremmo? Quelle di una violazione sistematica dei corpi, uccisi – direbbe Hannah Arendt – “per quello che sono e non per quello che fanno”. Corpi straziati, irriconoscibili: “…Negli attentati-suicidi, la distruzione della propria forma corporale umana e di quella dell’altro, ridotta a brandelli di carne, rimanda chiaramente a un allontanamento definitivo dall’identità umana…” (Benslama). È la fine di Nissa la bella, dei suoi colori e dei suoi conflitti, dei suoi sindaci discutibili (i due Médecin, l’ultimo dei quali morto in ‘esilio’ in Uruguay, e Peyrat, con i loro nervis, i loro picchiatori a domare l’anima popolare della città, Estrosi e Pradal – sindaco in carica – , figli di una destra affaristica e triviale), dei suoi slogan avvilenti (m’en bati, sieu nissart, me ne sbatto, sono nizzardo)10. Fine di Nissa la bella ed inizio di un nuovo stare in comune, se si sapesse cogliere la tragica occasione fornita: fine dell’apartheid urbanistico (con un centro e un lungomare decisamente separati dalle tre città fuori riquadro, a est, nord e sud, sottoproletarie e infrequentabili, abitate da apache); crescita dei rapporti solidali in un rinnovato legame sociale e a frontiere aperte (il nodo vicino tra Ventimiglia e Mentone dovrà essere sciolto, prima o poi, in nome della libera circolazione degli esseri umani); educazione pubblica profondamente laica e, perciò, senza gli eccessi del laicismo ma soprattutto senza le follie comunitariste che così bene si sposano con la privatizzazione di tutti gli aspetti della vita (alcuni imam sciagurati sguazzano in tutto questo); pensiero che pensi insieme Nizza ed Aleppo, e rimetta la ricerca della pace al centro della politica.
Gianluca Paciucci
21 agosto 2016
* Le foto sono di Gianluca Paciucci
1 Aharon Shabtai, “Agli studenti”, dalla raccolta Politica, Multimedia edizioni, Baronissi (SA), 2008 (ed. originale 1997 – 2008), pp. 97.
2 In questo senso, non è certissimo che il razzismo contemporaneo sia ormai solo culturale e non più biologico. Stanno tornando le antropometrie e gli automatismi deterministi della società positivista della seconda metà dell’Ottocento.
3 “…I jihadisti e gli estremisti di sinistra hanno un punto in comune: sognano la guerra civile. Questo sogno non è ancora diventato il nostro incubo ma gli atti che produce sono già bastanti ad avvelenarci la vita..” (intervista a Alain Finkielkraut, “Le djihadistes rêvent d’une guerre civile [I jihadisti sognano una guerra civile]”, Le Figaro magazine, 22-23.07 2016; traduzione di chi scrive). L’antifascismo, l’antirazzismo e l’anticolonialismo sarebbero i mezzucci, secondo Finkielkraut, attraverso cui il cosiddetto partito intellettuale e i nuovi benpensanti stanno dominando la Francia, mentre pochi sarebbero i veri intellettuali, gli anticonformisti: troviamo qui un classico della struttura di pensiero dei neoconservatori e reazionari per cui l’intolleranza e il potere sono sempre degli altri. Essi invece si ritengono in stato di amara dissidenza: dissidenza ed emarginazione che si consumano tra elezioni all’Académie française e pubblicazioni presso i più grandi editori. Quasi dei samizdat… Che il pensiero di tutte le sinistre debba essere sottoposto a critica spietata è certo, ma quella dei neocon è tra le più mediocri.
4 Fehti Benslama, Un désir de sacrifice. Le surmusulman (Un desiderio di sacrificio. Il supermusulmano), Seuil, Paris, 2016, pp. 149. Riflessioni simili si possono trovare in un’intervista allo psicanalista Daniel Zagury, “Chez les terroristes islamistes, il y a très peu de malades mentaux avérés (Tra i terroristi islamisti, vi sono pochissimi malati mentali riconosciuti)”, Libération, 23-24 luglio 2016.
5 a pag. 105 dell’edizione francese; questo e altri passaggi del libro sono stati tradotti da chi scrive.
6 Hervé Morin, “Israéliser notre sécurité”, Le Figaro, 27.07 2016.
7 Jeff Halper, War against the People: Israel, the palestinian and global pacification, September 2015, Pluto Books ; e Amos Gitaï, L’ultimo giorno di Yitzhak Rabin, Francia-Israele, 2015, 153’.
8 chi scrive crede fermamente nelle responsabilità iniziali del tiranno di Damasco, e in quelle della violenta ipocrisia della cosiddetta comunità internazionale, U.S.A. e Russia in primo luogo. Contro i popoli costitutivi della Siria. Ma questo è un altro discorso.
9 Mohammed Merah, che nel marzo del 2012 a Montauban e a Tolosa, uccise sette persone, tre militari e quattro appartenenti alla comunità ebraica, aveva filmato le sue ignobili imprese con una “camera GoPro, utilizzata nel mondo dello sport” (pag. 17, Benslama, op. cit.). Spregiudicato culto delle immagini, per i nuovi jihadisti, contro l’islam tradizionale che è iconofobo, come da molte parti è stato sottolineato.
10 qualcuno/a, nel memoriale spontaneo per il 14 luglio, ora presso il giardino Albert 1er, ha portato un foglio con scritte queste parole ma con una croce sul m’en bati: come per dire sono nizzardo/a perché tutto m’interessa, il dolore come la bellezza del mondo.
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