per Alexander Langer,
nel ventesimo anniversario del suicidio
“…Il genocidio non è mai un crimine accidentale, non è la conseguenza di un raptus (neanche collettivo), un genocidio non si compie per errore, mentre si voleva fare un’altra cosa. Il genocidio non è mai un’azione spontanea, è sempre e ovunque un progetto, ben pianificato, organizzato e realizzato sistematicamente…” (Azra Nuhefendić).
PROTEGGERE I MORTI
Questa Lettera marrana è nata l’11 luglio 2015, giorno in cui è stato rievocato il genocidio di Srebrenica, 8372 bosgnacchi, e cioè bosniaci di cultura e/ o di religione musulmana, uccisi dalle forze militari serbe in quello che è il più grave massacro in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi. I fatti sono stati acclarati dagli storici e dalle storiche e riconosciuti dalle più alte istanze internazionali, e a nulla valgono i tentativi negazionisti di nascondere il crimine o, peggio, di farlo passare per una rappresaglia causata dalle numerose vittime serbo-bosniache uccise dai paramilitari di Naser Orić, ambiguo leader militare dei bosgnacchi di Srebrenica. Da quando in qua una rappresaglia spietata, effettuata dall’esercito più forte e aggressore, già protagonista di crimini ripetuti (Vukovar, Sarajevo, etc.), viene accolta e giustificata? La ricerca scientifica di certo deve andare avanti incessantemente, attraverso revisioni (che non hanno nulla a che vedere con il revisionismo o, peggio, con il negazionismo), attraverso nuovi documenti e dibattito culturale/politico, ma il nucleo dei fatti –per Srebrenica– è stato stabilito, e abbiamo la certezza morale di quello che è accaduto, oltre a evidenti prove: corpi su corpi fatti ritrovare dalla terra insanguinata, estratti dalle fosse comuni e a fatica riconosciuti e dotati di nome. È da questo nucleo di verità che si può e si deve partire. Questo nucleo di verità e il nome stesso di “Srebrenica” scuotono sin dalle viscere, sconvolgono, destabilizzano. Come scuotono, sconvolgono e destabilizzano i nomi di Auschwitz, di Hiroshima, dell’Arcipelago Gulag e di Goli Otok, degli stupri sistematici da parte di tutti gli eserciti (anche di quelli dei “liberatori”), dei crimini del colonialismo europeo e dell’embargo contro la popolazione irachena negli anni Novanta del secolo scorso, del genocidio in Rwanda, sempre negli anni Novanta, e troppi altri nomi.
L’obiettivo ora è ricordare i giorni della ferocia, quelli di Srebrenica del luglio di vent’anni fa. Ricordare è una parola che contiene –in latino– il nucleo “cor”, cuore, e che è quindi un riportare al cuore gli affetti scomparsi rendendo omaggio alle innocenti vittime di ogni tempo affinché lo statuto di queste si muti da oggetto di negazione o di commiserazione a quello di soggetto attivo di storia, e cioè in soggetto politico (in questo senso le madri di Srebrenica, pur tra infinite difficoltà, stanno svolgendo un ruolo analogo a quello delle madri di Plaza de Mayo). D’altronde le vittime hanno dignità e potenza e si impongono con la forza della loro irriducibilità di sentimenti, dei loro corpi che vengono a poco a poco ricomposti, della loro verità. È la verità che dobbiamo rispettare e provare a divulgare: essa è sempre rivoluzionaria, diceva qualcuno. La verità come ricerca e come militanza per ottenere giustizia. Le manifestazioni per il ventennale di Srebrenica servono a questo: a diffondere, a far conoscere, a provare a far capire (con la più grande umiltà), stando con i corpi in piazza e in ogni luogo a ragionare e a dire quello che è successo. Manifestazioni che non sono contro qualcuno, e soprattutto non contro un popolo intero, quello serbo, in questo caso: dobbiamo saper distinguere tra un popolo, da un lato, e i suoi generali, i suoi governanti/tiranni/manipolatori dall’altro, non perché il popolo sia di per sé buono e giusto, ma perché può essere spinto ad atti di ferocia dalla potenza della propaganda e degli apparati di comunicazione e di coercizione, anche se deve restare sempre salvo il principio del “libero arbitrio”, per cui la scelta tra il bene e il male concerne essenzialmente i singoli individui, persino nei momenti più estremi. Tutto questo, quindi, non rende innocenti i popoli in quanto tali, ma li fa protagonisti di una possibile metamorfosi, una volta liberati o, meglio, liberatisi dalla cappa dell’oppressione e dell’indottrinamento, sia quando l’oppressione e l’indottrinamento si sono presentate e si presentano sotto la forma “tirannica” sia quando si sono mostrate e si mostrano sotto la forma “democratica”.
Occorre ribadire senza sosta, creando movimento e movimenti, il ripudio della violenza assoluta del nazionalismo1, del patriottismo, del militarismo e del razzismo, senza paura di essere sbeffeggiati dagli squallidi interpreti del ‘politicamente scorretto’, che sono i nuovi conformisti, i nuovi reazionari: ribadire che i nazionalisti, i patrioti, i militaristi e i razzisti assassinano innanzitutto il proprio popolo, chiudendolo in una gabbia di fanatismo, e poi lo lanciano contro un altro, inferiorizzato, animalizzato, e quindi da uccidere senza scrupoli. È questa la contraddizione che si può suscitare dicendo: i vostri nazionalisti, i vostri militaristi, i vostri razzisti vi hanno portato morte e distruzione. Sono loro i vostri, come i nostri, nemici. Ognuno ha i suoi nemici nel suo campo (i nostri nazionalisti, i nostri militaristi/razzisti lo sono per noi), rovesciando la dottrina del ‘nemico interno’ per cui questi non è il disertore ma il generale che comanda l’esercito. Se le comunità e i popoli capissero che questo è il nodo dei nodi e che la gente fa la fame sia nel campo dei “vincitori” sia in quello degli “sconfitti”, avremmo fatto un immenso passo in avanti. Brecht: “La guerra che verrà / non è la prima. Prima / ci sono state altre guerre. / Alla fine dell’ultima / c’erano vincitori e vinti. / Fra i vinti la povera gente / faceva la fame. Fra i vincitori / faceva la fame la povera gente egualmente.”; oppure, appena più indietro, nel canto “La Marsigliese del lavoro”, su testo di Carlo Monticelli (nei canti sociali e politici sono depositate le verità sociali): “…Di patria al nome talor sospinti / contro altri popoli noi si pugnò / ma vincitori fossimo o vinti / la nostra sorte mai non mutò. / Tedesco o italico se v’ha padrone / il sangue nostro vuole succhiar / la patria italica è un’irrisione / se ancora il basto ci fa portar…”. Se le comunità e i popoli capissero questo, nessuno più si scaglierebbe contro le divinità o la lingua degli altri/e, contro i corpi e le cose degli e delle altri/e, contro un capro espiatorio fabbricato ad arte ed esposto a qualsiasi violenza. Oggi a Srebrenica, se non la fame, povertà e disoccupazione regnano. Scrive Andrea Oskar Rossini: “…Prima della guerra, a Srebrenica, vivevano circa 28.000 bosgnacchi e 9.000 serbi. Dieci anni fa, nel 2005, avevo chiesto all’allora sindaco, Abdurahman Malkić, quanti fossero gli abitanti del comune. ‘Circa 10.000’, mi aveva risposto. Rivolgo la stessa domanda a Duraković [attuale sindaco, bosgnacco – ndr], dieci anni più tardi. ‘Settemila’, dice. Il processo di ritorno non ha avuto successo. Invece di crescere, la popolazione continua a diminuire. Secondo Duraković, ‘la chiave per permettere il ritorno è la stabilità economica’ (…). Di una cittadina di 40.000 abitanti, oggi ce ne sono solo 7.000. Forse, qui non c’è più nessuno. Né serbi, né musulmani. Sono di più i morti…”2. Questo ventennale del genocidio di Srebrenica è una grande occasione di ricerca della giustizia e di studio: non dobbiamo farcela scappare. Siamo arrivati agli appuntamenti di sabato 11 luglio con la forza delle idee buone, ma dobbiamo continuare a discutere insieme: magari nasceranno occasioni di confronto, anche tra diversi, magari proprio a partire dal nodo Srebrenica 1995, giornate di riflessione per la diffusione della verità. Senza un’adeguata rinascita della cultura politica, nel senso più alto del termine, non si va da nessuna parte. Queste giornate potrebbero generare nuove energie e far crescere la coscienza degli uomini e delle donne del XXI secolo, anche ricordando uno degli ultimi crimini del XX. Scrive Benjamin, nelle sue “Tesi di filosofia della storia”, luminose ed enigmatiche: “…anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere…”. Proteggere i morti e le morte, a ricominciare dagli innocenti di Srebrenica, elencarne i nomi e i volti, significa battersi insieme per un presente e un futuro radicalmente diversi per l’intera umanità. Significa cominciare a sconfiggere quel nemico (il potere in tutte le sue forme, che riduce gli esseri umani a carne da cannone e a carne da lavoro o da non lavoro), senza perdere altro tempo.
VERITÀ, MENZOGNE E CARRIERE
Sulla verità si giocano molte delle attuali sfide. Un libro capitale di qualche anno fa ne dice benissimo: è Rapporti di forza di Carlo Ginzburg3. La straordinaria introduzione si apre e si chiude con le seguenti due affermazioni: “Storia, retorica, prova: in questa sequenza il termine meno ovvio è, oggi, l’ultimo. La continuità tra storia e retorica ha respinto ai margini quello tra storia e prova. L’idea che gli storici debbano o possano provare alcunché sembra a molti antiquata, se non addirittura ridicola…” (pag. 13); e poi, a chiudere: “…La conoscenza (anche la conoscenza storica) è possibile…” (pag. 49). La polisemicità del verbo provare è ricca: provare nel senso di convalidare (provare che…), oppure di tentare (provare a…) e anche di sentire (provare sentimenti). Nel primo dei significati il verbo provare è strettamente legato alla retorica e alla storia e potrebbe indicare altre vie rispetto alla storia come narrazione e litania di aneddoti, o come frivola e verminosa riscrittura del passato, intrecciata a cattiva coscienza. La necessità della prova anche in campo storico appartiene a un ambito del discorso radicalmente diverso, sostiene Ginzburg, da quello in cui agisce il concetto di verità così come venne espresso da Nietzsche: “Cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti…” (in Su verità e menzogna in senso extramorale). È su questa apparente leggerezza, che giunge allo stato solido dopo metamorfosi e inganni, che si è giocata e si gioca, ripetiamo, una delle sfide più pericolose degli ultimi tempi: sulla base di questa accezione della verità la storia, anche la storia personale, viene intesa come un campo di scritture e riscritture, nella più completa svalutazione del documento e quindi dei fatti stessi. In questo modo vengono gradualmente meno tutte le certezze su cui può basarsi una civiltà avanzata, altrimenti priva di reti di salvezza e di legami culturali o, peggio, imprigionata in reti in cui le persone più fragili e le classi sociali oppresse sono stritolate dal moloch del pensiero dominante. Per mettere alla prova –ancora una sfumatura della parola- quanto scritto, Ginzburg si serve della vicenda che vede protagonisti da un lato Paul De Man (1919 -1983), filosofo decostruzionista ma anche autore, tra il 1940 e il 1942 di articoli antisemiti e apertamente collaborazionisti, accuratamente occultati durante tutto il dopoguerra grazie ad una precisa strategia che mescolava verità e menzogne (un mascheramento durato quarant’anni, che ha accompagnato il successo accademico dell’intellettuale belga); e dall’altro Sarah Kofman (1934 – 1994) che, autrice di “un libro pieno di partecipazione su Nietzsche e la metafora, a distanza di vent’anni, dopo aver raccontato la sua infanzia di bambina ebrea perseguitata, si è tolta la vita…”4. Il parallelo è impietoso, dualistico, netto, come quando occorre scegliere tra due vie (il dualismo è penoso nei momenti di calma storica, anche apparente –nelle nostre postdemocrazie, ad esempio-, perché brutalmente imposto ad arte e non generato dai conflitti reali, ma è ineludibile nelle fasi di massima tensione): da un lato la pratica dell’inganno e della retorica senza prove –anzi basata sull’occultamento delle medesime, e dei testi di riferimento-, con il conseguente successo accademico seguito da polemiche postume; dall’altro la pratica della verità, la “rivincita della realtà”, come la chiama Ginzburg, che rende fragile la vittima chiusa a vita in questo ruolo dall’inganno praticato dal pensiero trionfante. L’inganno di una carriera fondata sulla dissimulazione disonesta cozza contro le vite scolpite dall’infamia della persecuzione subita e che, se sopravvissute, possono giungere a togliersi la vita anche decenni dopo i fatti per l’insopportabilità di una Storia falsa, ma non falsificabile.
Quanti intellettuali hanno praticato questa arte della dissimulazione disonesta nel secondo dopoguerra? Lasciando da parte i casi enormi di Martin Heidegger e di Carl Schmitt, emergono le vicende di Emil Cioran e di Mircea Eliade, sui quali è disponibile in italiano un importante e discusso studio di Alexandra Laignel-Lavastine5. Nati a poca distanza l’uno dall’altro (Eliade nel 1907 e Cioran nel 1911), essi parteciparono attivamente alla vita politica della Romania tra le due guerre: di Cioran, Laignel-Lavastine ricorda, dal 1933 al 1941, “più di una quarantina di articoli infiammati, dei quali riempire un buon volume, e un libro, La trasfigurazione della Romania, il solo testo sistematico e costruito in modo molto rigoroso che il pensatore abbia mai scritto…” (pag. 81, nel capitolo “Emil Cioran, rivoluzionario conservatore e antisemita convinto”); di Eliade sempre Laignel-Lavastine ricorda numerosissimi articoli, alti e stupidi, impregnati dei temi del ‘sacrificio’ (“sacrificio per la cristianità”, “nulla può durare se non è ‘animato’ attraverso il sacrifico di un essere umano”, compiere il “sacrificio per la stirpe”, etc.) e della ‘morte creatrice’, in perfetta sintonia con le posizioni del movimento della Legione Arcangelo Michele, fondato da Cornelius Z. Codreanu, e da questi guidato fino alla sua uccisione, nel 1938 (vedi in particolare il capitolo “Uno storico al servizio della rivoluzione nazionale: Mircea Eliade”)6. L’ossessione dell’ebreo che si trova negli scritti di Codreanu7, è la stessa di Cioran e di Eliade i quali però, nel secondo dopoguerra, hanno fatto di tutto per occultare le loro inequivocabili prese di posizione degli anni Trenta – inizio Quaranta8, aiutati in questa strategia dai più diversi intellettuali (l’immenso e onestissimo Scholem per Eliade, Derrida per De Man, etc.), pronti a giustificare tutto e a relegare le compromissioni dei due con il fascismo sanguinario e la benevolenza verso il nazionalsocialismo a errori di gioventù infarciti di lirismo9. Interessantissimo, poi, il caso di Cioran che in La tentation d’exister (1956)10 inserisce un testo, “Un popolo di solitari”, in cui attua un rovesciamento spettacolare e speculare alle sue posizioni di prima della guerra, proprio sulla questione ebraica: qui gli ebrei diventano, sia pure ambiguamente, un popolo (o razza, nazione, tribù, farfuglia Cioran nella prima pagina di questo scritto) eletto e che traccia la via al resto dell’umanità. Così “l’uomo inferiore [l’Ebreo, ndr] diventa il super-uomo”11. In La tentazione di esistere si legge questa frase: “…Gli abitanti del globo si dividono in due categorie: gli Ebrei e i non Ebrei. Se si valutassero i meriti degli uni e degli altri, senza dubbio gli Ebrei avrebbero la meglio, avrebbero cioè sufficienti titoli per parlare a nome dell’umanità e per stimarsi suoi rappresentanti…”. L’antisemitismo di prima della guerra si è trasformato in uno spasmodico filosemitismo (categoria introdotta da Ivan Segré per analoghe, e spesso vergognose, ‘conversioni’ negli ultimi decenni), entrambi poggianti sul nulla: il nulla dei documenti, il nulla dei testi, il nulla dei fatti, ma solo impressioni, retoricamente costruite, ai fini di una carriera intellettuale di tutto rispetto, di tutto vantaggio. “Radicalismo reversibile e sussultorio”, così Mario Isnenghi su Giovanni Papini: così potremmo scrivere di Cioran, l’anticonformista di successo, e del suo sodale Eliade, lo stimato studioso delle religioni, l’accademico trionfante.
EPILOGO: LA FIGLIA
Anticonformisti conformi, sedicenti amanti del politicamente scorretto (cosa che a molti permette di essere sguaiati e di operare scelte ignobili), né di destra né di sinistra (come Alain de Benoist, in numerosa compagnia, e sulle tracce del grande padre Jacques Doriot, ex comunista poi fondatore di un partito parafascista), tra verità e menzogne, pur di restare in piedi: senza riguardo per il proprio passato né per il proprio presente, senza convertirsi mai sul serio, senza rispettare né la fede antica né quella acquisita. Da questi personaggi siamo stati e siamo governati nel pensiero e nelle azioni, personaggi spesso urlanti contro vecchi sodali e contro l’idea che, appena il giorno prima, spacciavano come assoluta e indiscutibile. Vecchi e giovani comunisti staliniani diventati alfieri del capitalismo in una notte (a Reggio Emilia come a Mosca), vecchi e giovani gerarchi di Tito passati in un batter d’occhi al nazionalismo più sfrenato e a comandare battaglioni di sgozzatori/stupratori. Esemplare è la vicenda di Ratko Mladić –il ‘boia di Srebrenica’-, raccontata da Clara Usón in La figlia12 attraverso la vicenda della figlia del generale serbo, Ana, raggiunta dalla storia, raggiunta dalla verità su suo padre: storia e verità che hanno praticato, in questo caso, una sorta di vendetta trasversale, portando al suicidio nel 1994 Ana (come Sarah Kofman, nello stesso anno, sempre per espiare colpe d’altri), e lasciando in vita Ratko, l’amatissimo padre, ora all’Aja per i suoi crimini, accertati e da accertare. Mladić il comunista, e poi Mladić il nazionalista sfrenato, lo jugoslavista che ha contribuito a distruggere la Jugoslavia. Inganni, anche qui, della retorica diventata propaganda e che ha generato devastazione nei corpi e nelle terre dei Balcani occidentali, ormai abissi di esistenze, vuoti dove continuerà ad incarnarsi, per più generazioni, la menzogna fattasi Stato monoreligioso e mafioso, fra i vincitori/aggressori come fra i vinti.
Gianluca Paciucci
1 Il concetto di “nazione”, certo, ha subito cambiamenti sostanziali negli ultimi decenni di globalizzazione planetaria e di sistematico smantellamento, con la forza delle armi, di numerosi stati-nazione operato dal capitale internazionale e dal suo braccio armato. Questo fenomeno è accompagnato, però, dal permanere di un arcaico nazionalismo che si sposa, nei Paesi più forti (U.S.A., Russia, Germania, Francia, Gran Bretagna, Cina), con il primo fenomeno che può essere chiamato “postnazionalismo”, difesa aggressiva della ‘patria’ e razzismi di Stato. Così le difficoltà aumentano davanti a due mostri apparentemente in conflitto, ma in realtà strettamente legati, in diverse e continuamente inedite forme.
2 http://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Ritorno-a-Srebrenica-162913
3 Carlo Ginzburg, Rapporti di forza, Milano Feltrinelli, 2000, pp. 161.
4 Ginzburg, cit., pag. 39.
5 Alexandra Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, Torino, UTET, 2008 (ed. or. 2002), pp. 465. Ionesco, diversamente dagli altri due, ha sempre diffidato del fascismo rumeno, da posizioni vicine alla socialdemocrazia; intorno al ’68 le sue posizioni si orienteranno in senso apertamente conservatore. Il testo di Lignel-Lavastine è stato sottoposto, in Francia, a critiche severe soprattutto in ambienti di destra (v. http://www.archiveseroe.eu/eliade-a114179154) ma sostanzialmente regge a un’analisi approfondita. In Italia sono da prendere in considerazione gli scritti di Claudio Mutti, esponente e studioso della destra radicale. Ma vastissimo è il dibattito, dai tratti a volte inquietanti.
6 Su Eliade ha scritto pagine decisive Furio Jesi in Cultura di destra, Milano, Garzanti, 1979 (Nottetempo ha ripubblicato il preziosissimo libro nel 2011, con tre inediti e un’intervista).
7 V. Corneliu Z. Codreanu, Per i legionari. Guardia di ferro, ed. it. Padova, Edizioni Ar, 1973 / 2005; il testo originale, Pentru legionari, è del 1936.
8 In Laignel-Lavastine, cit.,v. cap. “L’arte della dissimulazione: le strategie sociali”.
9 Ad esempio nella prefazione di Sanda Stolojan all’edizione francese dell’opera di Cioran Lacrimi si sfinti (1937) / Des larmes et des saints (Paris, Ed. de l’Herne, 1986) si legge del “lyrisme de sa jeunesse” (lirismo della sua giovinezza), di una “jeunesse lyrique” (giovinezza lirica) e di un “adieu au lyrisme” (addio al lirismo), nel secondo dopoguerra, senza un solo accenno alle disgustose compromissioni con il pensiero fascista e l’aperto antisemitismo. A pag. 25 dell’edizione francese, Sanda Stolojan definisce Cioran “un jeune intellectuel balkanique d’avant-guerre” (un giovane intellettuale balcanico di prima della guerra), frase che mette dei dubbi oggettivi: fino a quale età si è giovani? All’epoca di Lacrimi si sfinti Cioran aveva 26 anni; quando scriverà gli ultimi testi antisemiti e parafascisti, ne avrà 30.
10 Emil Cioran, ed. it. La tentazione di esistere, Milano, Adelphi, 1984, pp. 215.
11 In Laignel-Lavastine, cit., pag. 118. Sempre nel libro di questa autrice, v. tutto il cap. IX, “La memoria e l’oblio: il passato nelle opere” (pp. 335 – 380).
12 Clara Usón, La figlia, Palermo, Sellerio, 2013 (ed. or. 2012), pp. 488.
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