a Ugo Pierri, splendido artista triestino
cui devo l’espressione ‘spirito di servizio’, e tanto altro
“…lèpre infaillible des monstres…”, lebbra infallibile dei mostri, scrive René Char in Envoûtement à la Renardière, Sortilegio presso la Renardière (località del sud della Francia, nel Luberon), una poesia del 1942 scritta mentre il poeta era impegnato nella Resistenza antinazista. Lebbra dei mostri come crema corrotta che s’applica con cura sui volti, e aderisce perfettamente e penetra. Per questo usiamo maschere, di commedia e di tragedia, come quelle che si trovano dipinte all’interno del Camp des Milles (campo di internamento e di deportazione durante la Seconda guerra mondiale), alle porte di Aix-en-Provence e che illustrano questa Lettera marrana: donne e uomini, lì ospiti disperati, ricostruivano forme di vita anche a partire dal teatro. Ma maschere dovremmo usare anche sulla parte interna dei volti per proteggerli dalla lebbra che sale dal di dentro, anch’essa infallibile e micidiale, e che all’improvviso esplode, screpolando ogni faccia, scomponendone i tratti e spaccando tutte le maschere anti-lebbra.
10-20MILA EURO AL GIORNO
Lebbra politica oppure peste, avrebbe detto qualcun altro (Manzoni, Wilhelm Reich, Camus). Oppure piccola lebbra, lebbretta, lebbricola/febbricola, piccola peste dei nostri tempi che si posa sulla superficie dei fatti, dove lascia una verità lampante eppure meschina perché, come cantava Gaber in Io se fossi dio (1980), “facciamo più schifo che spavento”, e non c’è maschera che tenga. Le nostre storie, le nostre piccole storie d’oggi, quelle di un intero Paese, l’Italia, tenuto in ostaggio per mille giorni da un pessimo tribuno, l’ex presidente del Consiglio Renzi, dalla sua corte dei miracoli e dai suoi sponsor. Avvilimento della democrazia, “superstizione della democrazia” (ancora Gaber), sfrenato sortilegio. Sapevamo degli inganni di questo sistema, da sempre. Nel 1932 Jules Isaac così scriveva: “…all’interno degli Stati, sotto la spinta delle masse operaie sempre crescenti, il regime rappresentativo si è democratizzato: trasformazione illusoria perché, nello stesso momento, il capitalismo, giunto all’egemonia sociale, ha privato le istituzioni democratiche del loro contenuto…”.1 Di questo parlano alcuni fatti emblematici di superficie, accaduti recentemente in Italia e di cui d’ora in poi tratterà questa Lettera, dopo il prologo in cielo delle prime righe, con René Char: innanzitutto le dimissioni del sindaco Marino, a Roma, nell’ottobre 2015, le cui modalità non devono essere dimenticate. Al sindaco il suo partito di riferimento, chiamato ‘democratico’, tolse la fiducia con un atto di imperio perché Renzi era convinto – per un giudizio sbrigativo e frettoloso attorno a un qualcosa di non misurabile, se non con delle nuove elezioni – che Marino, certo non esente da colpe, avesse perso il contatto con il popolo: così un pugno di consiglieri comunali si recò dal notaio (e non nell’aula consiliare) per rassegnare le dimissioni, in totale ubbidienza al diktat del padrone del PD. A rassegnare le dimissioni anche un assessore, il più sconcertante di tutti, tale Stefano Esposito, accanito pro-TAV a Torino e catapultato a Roma, non si sa bene per quali meriti se non l’estremismo e una cieca strafottenza, a occuparsi di trasporti. Twittò Esposito: “Devo prendere atto di aver dato la mia lealtà ad un bugiardo”. I nemici – e cioè gli amici di ieri- sconfitti sono bugiardi e ladri, gli amici –anche gli inimicissimi di ieri -, compresi quelli del malaffare, sono bravi compari, sempre. È pura ideologia, quella che si dice morta e che invece domina e governa le menti malnate, e ben pagate, di tanta gentaglia.
Dopo la farsa del PD a Roma, le elezioni hanno consegnato il governo della città a Virginia Raggi e al M5S: altro brutto affare. L’esponente pentastellata si circonda di figuri inquietanti, vicini all’estrema destra e a cricche di potere. Il movimento e non partito (distinzione che permette le più velenose ambiguità), strano miscuglio di rancori postrivoluzionari, apprezzabile attivismo civico e pulsioni razziste, inanella orrende figure, una dietro l’altra: alcune inchieste, della magistratura e giornalistiche2, svelano il putridume dei rinnovatori, di quegli anticasta che praticano un linguaggio forcaiolo contro gli altri, ma che improvvisamente diventano garantisti quando si tratta di difendere i propri ceffi. Ad accusare i nuovi ceffi, ora, sono i vecchi ceffi del sindaco fascista Alemanno (2008 – 2013) e gli amici di Renzi, in uno spettacolo violento sulle spalle di un popolo misto, attonito, pervaso d’infelicità e perciò pronto ad avventure, anche le più cupe. È un popolo che si allea con il potere, qualunque questo sia, in cicli brevi, ma poco importa: chi è in carica ha momentaneamente ragione e deve spazzare via la corruzione precedente, a patto che la nuova corruzione soddisfi gli appetiti immediati dei più piccoli come dei più grandi, in una complicità tra basso e alto mai così solida. Per questo sono ridicole e pericolose le parole d’ordine di alcuni movimenti apparentemente lontani tra di loro, come Podemos in Spagna e il Fronte Nazionale in Francia, la cui analisi si basa sulla spaccatura tra un Paese del basso (del popolo, di un mitico 99% -in realtà infinitamente frammentato al suo interno e quindi incapace di scelte) e un Paese dell’alto (l’1% che guida i nostri destini). Alto e basso sostituirebbero la vecchia distinzione tra classi sociali, così sancendo la fine della lotta di classe ma anche in realtà avviandoci verso una democrazia oligarchica.
Dal presunto conflitto tra basso e alto a uscire vittoriosi non potranno che essere i soliti comitati d’affari. Gli uomini e le donne del lusso. Gli oligarchi del potere sfacciato e sempre-in-piedi. Quelli che dichiarano, come ha fatto l’imprenditore Flavio Briatore, che “il ricco vuole tutto e subito. Io so bene come ragiona chi ha molti soldi: non vuole prati né musei ma lusso, servizi impeccabili e tanta movida”. Ha poi aggiunto: “Servono alberghi di lusso sul mare”, su un mare già sfregiato da speculazioni edilizie. Tutta da leggere o, meglio, da vedere –su youtube- la prestazione di Briatore in Puglia3. È uno di quegli uomini che danno direttive e prospettive di indirizzo, pedagoghi/demagoghi per cui la politica è un intralcio, per cui –l’originalità non è il loro forte- destra e sinistra non servono più a niente: basta solo che i sindaci e le sindache d’ogni colore, i primiministri o le ministredelleriforme, sguaiati e sguaiate, obbediscano allo sguaiato volere/potere dei pochi. Questi felici pochi sono quelli –sempre parole di Briatore- che possono permettersi di spendere, in vacanza, “10-20mila euro al giorno”4: questi pochi sono quelli che hanno sostenuto la precarizzazione del lavoro e la riduzione di giovani spesso brillanti a mendicare impieghi pagati con voucher da riscuotere in tabaccherie, in una sorta di nero legalizzato. Peggiori delle mafie, questi oligarchi e i ministri che li sostengono, sostenuti dal popolo smarrito. Questi sono i padri e le madri delle riforme. Qualche dio ce ne scampi e liberi, dato che non sappiamo farlo noi.
REFERENDUM COSTITUZIONALE
Un altro fatto è il referendum costituzionale. Anche su questo l’Italia è stata tenuta per mesi in ostaggio di un dibattito scurrile (dal latino scurra, buffone – con grande rispetto per i guitti, ma non per chi li imita) su un argomento serio quale la riforma della Costituzione. Se all’inizio sembrò affacciarsi la possibilità di una forte riflessione, questa venne lucidamente cancellata dalla prepotenza del governo Renzi-Boschi e dalla scempiaggine di parte dei suoi nemici (ma in questo secondo campo, per fortuna, eminenti costituzionalisti/e, da Gustavo Zagrebelsky a Lorenza Carlassare, hanno tentato di estrarre la discussione dalla sterilità). Senza demonizzare chi si era schierato/a per il Sì –come è stato fatto in maniera sciocca da certi pasdaran del No-, ci limiteremo a parlare dei nostri, supposto che ne valga ancora la pena (della lebbricola ci tocca continuare a parlare, della superficie e non del profondo). La vittoria del No al referendum è stata ottima cosa: il progetto renziano di stravolgimento della Costituzione è stato fermato. Però, come al solito, sono le “fatiche delle pianure” (Brecht) ad essere le più tremende: il dopo-referendum, il dopo-vittoria del No. Già durante la campagna referendaria si sono sentiti forti scricchiolii, tanto che abbiamo dovuto più volte ricordare il passaggio di una lettera di Rosa Luxemburg in cui la rivoluzionaria polacca scrive “appartengo più alle cinciallegre che ai miei compagni di partito”, con una variazione: apparteniamo più alle cinciallegre che alle/ai nostre/i compagne/i di battaglia referendaria (e non parliamo degli avversari schierati per il No -Lega, berlusconiani, buona parte del M5S, etc.-, ma dei presunti amici/compagni intimi, e presunte intime sorelle). In molti Comitati per il No da subito si è scatenata, nella campagna, una campagna contro i partiti o, meglio, contro i cittadini e le cittadine che, nei Comitati, appartenevano ai partiti. Questa campagna ha assunto toni insolenti che hanno causato allontanamenti e separazioni. Ora guardiamo con stupore l’ennesimo attacco: nel comunicato dei Comitati per il No del 6 dicembre si legge che sarebbe “in atto un tentativo mediatico strumentale, presente durante tutta la campagna elettorale di ignorare i Comitati di cittadini, di schiacciare il No sui partiti, perfino quando la loro presenza è stata irrilevante o tardiva nella campagna referendaria”; parole analoghe sono state pronunciate da Carlo Smuraglia, presidente dell’ANPI. Se qualche partito, o caporione, avesse tentato una strumentalizzazione del genere, sia chiamato per nome e giustamente messo all’indice: ma l’accusa generica (volutamente generica) ai “partiti” è segno divisivo -ci perdoni Smuraglia, che è ottima persona.
Nella campagna referendaria molte/i, in silenzio e tra le beffe, sono andati/e casa per casa, nelle Case del popolo, nei quartieri periferici, dove non giungono i/le vestali del No. E non hanno esibito simboli di appartenenza politica, mentre altre bandiere garrivano, eccome: quella del M5S, ad esempio, con tutte le inquietanti parole d’ordine di un movimento alleato con l’UKIP di Farage, nel Parlamento europeo. C’è un’ambiguità di fondo, ormai da un quarto di secolo: non vogliono che i partiti ci siano (dai tempi dei girotondini, popolo viola, comitati vari, varie tornate elettorali), spesso nei fatti li escludono, poi li accusano di non esserci e poi di esserci troppo (è il caso del dopo referendum). Su una cosa, però, tutti e tutte costoro concordano: sul volere la sparizione del partito novecentesco, che certo anche gli errori (spaventosi) di queste formazioni stanno causando. Però lo dicano apertamente, in questa fase, così da evitare altri torbidi pasticci per i prossimi appuntamenti. Ma si sappia da subito che questo torbido accadrà non solo per colpa dei “partiti”: anche nella società civile c’è rancore sordo (non nelle periferie disperate, ma in raffinati professionisti o in sindacalisti dalle finissime capacità strategiche, e nelle cene micidiali dove si conversa e non si ragiona) e persone che usano il loro piccolo potere solo per gestirlo e così sopravvivere a sé stesse. Così stiamo perdendo, nel dopo referendum, come i cartaginesi dopo la schiacciante vittoria ottenuta nella battaglia di Canne. Forse siamo ancora in tempo per rimediare, a patto che gli egoismi cedano il passo all’ascolto e al lavoro collettivo, come è capitato in altre fasi della storia. Far prevalere lo spirito di servizio (in una società di morti sul lavoro, di femminicidi5, di povertà materiale e immateriale, di offese al patrimonio artistico e al mondo dei viventi non umani) sul politicismo da quattro soldi che alberga in tante/i di noi, dentro ai partiti, ma anche fuori: non esistono altre strade. Altrimenti molte/i di noi, come qualcuno/a ha già fatto, usciranno dalla sinistra, parola che ha coperto e che è sempre pronta a coprire i più avvilenti imbrogli (e le bombe umanitarie), invece restando nel comunismo/anarchismo come orizzonte e nelle realtà vive in cui si opera6, nell’auto-organizzazione di spazi di lotta indipendente, qualora se ne avessero ancora le forze.
USCIRE DALLA SINISTRA E DALLA DEMOCRAZIA
Fa male parlare di tutto questo, eppure occorre, eppure si deve. Ma ugualmente: che spreco!, un dibattito politico succhiato dai destini di un governo che voleva solo mantenere i propri stipendi e il proprio potere. Dopo il 4 dicembre sono tornate a cadere le bombe, in rete e nei titoli dei giornali/telegiornali, a infuriare le guerre, ad affogare i/le migranti, a urlare i razzismi. Le intelligenze di un Paese intero sfibrate da un avvilente dibattito attorno alla Costituzione. Un furto, un’ipocrisia. Anche perché la Costituzione materiale del Paese è da tempo cambiata, sradicata nei fatti dalle sue origini resistenziali. Ridicolizzato l’articolo 1, quello della Repubblica “fondata sul lavoro”; tradito ogni giorno l’articolo 11, quello in cui l’Italia “ripudia la guerra”; stravolto l’articolo 33, per cui “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” (splendido chiasmo per studenti, ma schiacciato dalle pratiche della scuola travolta dalla legge 107 e da vent’anni di violenza contro la trasmissione del sapere), e già modificati molti degli altri. E poi ignorati gli articoli 4 e 97, e invece purtroppo in pieno splendore l’articolo 7, quello che accoglie nella legge fondamentale della Repubblica italiana il concordato del 1929 tra regime fascista e chiesa cattolica: articolo aberrante che introduce l’accordo tra due Stati sovrani nella legge italiana e che dà al cattolicesimo una preminenza malata sulle altre confessioni religiose e nei meccanismi dello Stato8. Violata la Costituzione, nei fatti, violate le norme-cardine della democrazia, a cominciare dalla legge elettorale, che è legge decisiva di ogni ordinamento costituzionale. Affermò Togliatti: “…Cosa curiosa: persino nella relazione Casertano alla legge Acerbo, si ricordavano due delle più famose asserzioni in questo senso, quella del Montesquieu, quando asseriva essere la legge elettorale ‘legge fondamentale’ dello Stato costituzionale (…) e del Royer-Collard, quando asseriva essere la legge elettorale ‘una vera Costituzione’…”9. Su questa legge, in Italia come altrove, ormai la classe politica lavora per ottenere risultati favorevoli al proprio gruppo di appartenenza e per annullare la rappresentatività, annullare le opposizioni (trionfo deformante del sistema maggioritario), depoliticizzare definitivamente la società con dispositivi-truffa. Invece, scrive Canfora, “…il meccanismo proporzionale costringe i partiti ad essere veramente tali, cioè a guadagnarsi davvero, e quotidianamente, il consenso, non già a studiare con quale combinazione riuscire vincitori al tavolo da gioco. Costringe quindi i partiti a ridiventare veicolo di educazione politica di massa…”10. E, si potrebbe aggiungere, luoghi di incontro e di confronto, sentinelle dello spirito repubblicano e comunitario (non comunitaristico) nelle periferie abbandonate e persino nei centri dove si muovono gli oligarchi del potere e dove circola totalitaristicamente il denaro. Luoghi della gratuità, accanto ad altri luoghi del cuore e della ragione, dove pensare e spendersi. Fuori da una democrazia (presuntuosa e violenta, in Italia come in Ucraina, negli U.S.A. come in India) che sta dando di sé pessime prove; e da una sinistra ignobile che, appena giunta al potere, ha sempre fatto rimpiangere chi l’ha preceduta. L’attuale uscita di sicurezza è uscita da un sistema che strazia parole e atti, le più belle e i più generosi, riducendoli a farsa, a squallore, a crimine.
Gianluca Paciucci
30 dicembre 2016
NOTE
1 lo riporta Luciano Canfora nella sua prefazione a Jules Isaac, “Gli oligarchi. Saggio di storia parziale”, Sellerio, Palermo, 2016 (ed. originale 1946), pp. 373.
2 utili le inchieste di Emiliano Fittipaldi su L’Espresso (vedi in particolare i numeri 44 del 30 ottobre e 52 del 24 dicembre 2016).
4 o ancora di più, come si evince da quest’altra dichiarazione: “Se volete il turismo servono i grandi marchi e non la pensione Mariuccia, non bastano prati né musei, il turismo di cultura prende una fascia bassa di ospiti, mentre il turismo degli yacht è quello che porta i soldi, perché una barca da 70 metri può spendere fino a 25mila euro al giorno” (http://lanuovasardegna.gelocal.it/regione/2016/09/20/news/briatore-e-la-sardegna-posti-straordinari-ma-i-sardi-vogliono-fare-i-pastori-non-turismo- ).
5 tra i furti di informazioni da parte dei media di regime (dell’attuale regime ancora berlusconiano e già renziano, in perfetta continuità nell’occupazione di tv, giornali, etc.) la straordinaria manifestazione femminista Non una di meno del 25 novembre c.a. Se ne trova un buon resoconto in http://www.internazionale.it/notizie/2016/11/28/manifestazione-roma-donne e soprattutto in https://nonunadimeno.wordpress.com/2016/12/02/non-una-di-meno-la-marea-in-movimento/ dove si può leggere: “… Tre generazioni di donne si sono incontrate e hanno costruito uno spazio pubblico aperto a chi combatte e subisce la violenza maschile sulle donne, in quanto dispositivo di controllo, problema strutturale e trasversale alla vita intera, limite inaggirabile alla trasformazione dell’esistente. L’elemento caratterizzante del 26 novembre è stata la molteplicità e la complicità tra soggettività femministe e transfemministe queer differenti e solidali a partire da un sentire e uno slancio comuni. È esplosa in una piazza con più di 200mila persone ed è diventata MAREA…” Ma questo il popolo italiano non l’ha saputo, senza scandalo. Colpa tra le maggiori del renzismo reale.
6 si parla, qui, di un comunismo liberato dalla vergogna del Ventesimo secolo, di un comunismo giovanissimo, arcaico e carsico come nel recente libro di Enzo Traverso, “Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta”, Milano, Feltrinelli, 2016, pp. 173, il cui titolo è chiaro omaggio a Walter Benjamin. Le marrane e i marrani qui riconosceranno i propri nodi di letture e di pratiche, anche fuori dalla tradizione sefardita – pensiamo al testo di Alain Brossat e Sylvia Klingberg, “Le Yiddishland révolutionnaire”, Paris, Syllepse, 2009 (edizione aumentata rispetto a quella originale del 1983). Semplice e profondo è, di Olivier Besancenot e Michael Löwy, “Affinités révolutionnaires. Nos étoiles rouges et noires. Pour une solidarité entre marxistes et libértaires [Affinità rivoluzionarie. Le nostre stelle rosse e nere. Per una solidarietà tra marxisti e libertari]”, Mille et une nuits, Paris, 2014, pp. 212.
7 importante è il lavoro di Danilo Dolci, “Processo all’articolo 4” (ora in edizione Sellerio, Palermo, 2011, pp. 425) del 1956, ma per nulla invecchiato; molto bello l’articolo di Tommaso Montanari, “Con Franceschini l’art. 9 finisce sotto le macerie”, Il Manifesto, 25 novembre 2016.
8 questo articolo è ormai tabù, e lo diverrà in misura sempre maggiore almeno fin quando non sarà finito lo strano amore di tanta sinistra italiana per papa Bergoglio. L’ammirazione per il cattolicesimo –di ieri come di oggi, da Angela da Foligno a Adriana Zarri, a certi preti e suore di base, coraggiosissime donne e uomini- dovrebbe invece portare a una netta opposizione al clericalismo concordatario, allo IOR, all’8 per mille, alla sessuofobia militante, al crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche, etc., pilastri del cattolicesimo reale. Ma la viltà dei laici e la stupidità dei laicisti, oltre al conformismo imperante, vieta ogni impegno in questo campo.
9 dall’intervento di Togliatti in Parlamento, 8 dicembre 1952; riportato in Luciano Canfora, “La trappola. Il vero volto del maggioritario”, Sellerio, Palermo, 2013, pp. 98.
10 Canfora, op. cit. (nota 9), pp. 97-98.
* L’ovvio riferimento è all’opera di Ignazio Silone “Uscita di sicurezza” (1965).
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