Secondo la Teoria del Mondo Piccolo tra due qualsiasi oggetti, punti o persone vi sono non più di sei gradi di separazione. Così ipotizzava nel 1929 lo scrittore ungherese Frigyes Karinthy nel racconto uscito anonimo Catene. Sette poesie, sei gradi e un solo racconto tessuto a quattordici mani: questa la nostra rubrica in Potlatch.
1.
Izet Sarajlić, nato a Doboj nel 1930 e morto a Sarajevo nel 2002, oltre ad essere tra i pochi poeti sopravvissuti al terribile assedio – non avendo mai abbandonato la città – è il poeta bosniaco maggiormente tradotto. Nel 1999 è edito in italiano per la prima volta. Ma è legata a Casa della Poesia la maggiore diffusione delle sue opere, edite per i tipi di Multimedia Edizioni (Qualcuno ha suonato, 2001 e 2009 e Il libro degli addii, 2017). E con Salerno il poeta di Sarajevo aveva un antico legame stretto con l’amicizia ad Alfonso Gatto a cui dedica più di una sola poesia. Per questi motivi non mi è possibile immaginare l’inizio di questa rubrica che con dei suoi versi.
Progresso
Dante andava a piedi,
Tolstoy a cavallo,
Balzac si muoveva in calesse,
Thomas Mann in bicicletta,
Hemingway in jeep,
Babel in barroccio,
Françoise Sagan viaggia in Rolls Royce.
Per questo Dante
ha scritto la “Divina Commedia”,
Tolsoy “Guerra e Pace”,
Balzac “Papà Goriot”,
Thomas Mann “I Buddenbrok”,
Hemingway “L’addio alle armi”,
Babel “L’Armata a Cavallo”
E Françoise scrive
Best-sellers.
Izet Sarajlić, Progresso (1979), in Qualcuno ha suonato, Multimedia Edizioni, 2001.
Quando nel 1979 Izet Sarajlić scrisse questa poesia non poteva immaginare che il destino aveva in serbo per lui una guerra non fredda, un assedio sanguinoso e infinite perdite. E sempre nel 1979 il destino non poteva presumere che Izet Sarajlić lo avrebbe attraversato in lungo e di petto: non sarebbe fuggito al dolore ma piuttosto avrebbe provato, sradicandolo dal cuore, a posarlo sulla pagina bianca con la mano. Sarebbe nata così la sua più nota opera, legata a quelle quotidiane umane atrocità di guerra che tutti dovevano conoscere, costretti nella prossimità intima e duplice tra il foglio e il viso – di chi scrive e di chi legge. Era questa – doveva esserlo per non restare impunita – una questione di prossemica e mai di lontananza (come racconta in Teoria della distanza, poesia del 1992). E questi versi del 1979 preannunciano la sua futura decisione: restare e non fuggire, vivere e non evadere, vivere sino a morirne. Come avevano fatto i poeti sovietici che aveva molto amato e che lo avrebbero molto amato – di Brodskij e Evtušhenko le traduzioni in russo – e a cui, probabilmente, si sentiva vicino: «Quelle di Esenin|si chiamavano Shura e Katia.||Quelle di Majakowskij|Ludimilla e Olia.||Le mie|Nina e Raza.||E tutte sono morte» recitano i primi versi della poesia del 1993 Sorelle.
Che sia un viaggio attraverso e non un viaggio verso, sino a invertire gli orizzonti e, come Lev Tolstoy qualche decennio prima, infine partire; o come Dante quando, molto più addietro nel tempo, per indagare la realtà contingente attraverso la giusta distanza dell’immaginario aveva costruito un’immensa torre di Babele da percorrere trasversalmente.
È questo tempo di viaggio di cui parla Sarajlić un tempo che ci conduce ad alcune questioni antiche: quale velocità per l’attraversamento? Quale senso per l’evasione? E quale per il porre attenzione (attendere «rivolger l’animo a»)? FD
2.
Discorso
Eternità:
i morituri ti salutano.
Ne è valsa la pena annusarti
nella traccia dei libri
e nei cosiddetti istanti indimenticabili.
Agonico
in estasi
in panico
in pace
il mondo-di-ognuno si dilata fino ai limiti
del compimento perfetto.
Eternità:
esiste la parola,
si lascia possedere, nella tenebra tesa.
Incomunicabile
quello che decifriamo di te
e neanche a noi stessi confessiamo.
Il tuo sorriso non era d’inganno.
Non scintilli come è consuetudine degli astri.
Non sei responsabile di quello con cui ornano la tua corolla
i passeggeri della nave prigione.
Eternità,
i morituri ti hanno baciato.
Carlos Drummond de Andrade, Discorso (1968), in Cuore numeroso, Donzelli Editore, 2002.
Chissà se Izet Sarajlić con l’ultimo verso della poesia Progresso voleva solo far ridere, o se dietro l’idea di mirare alla Sagan c’era un divertito ma pur vero livore per il successo (Rolls Royce e bestsellers) della scrittrice più a la mode di sempre. Comunque, c’è leggerezza in Progresso. Il fatto è che scrivo queste righe troppi giorni dopo aver accettato il gioco poetico e abbinato, di getto, la “mia” poesia con il criterio dei sei gradi di separazione. Ora quell’indicazione mi appare poco congrua, dettata da una concatenazione di libere associazioni difficili da ricostruire. Rileggendo i bei versi, vengo sfiorato dal dubbio che, con quella scelta, io i gradi di separazione li ho
moltiplicati! Dunque mi rendo conto che l’unico modo per uscire dal cul-de-sac nel quale mi sono maldestramente infilato (perché continuo a fare trecento cose insieme? cosa ho che non va?) e una trattazione più generale dell’opera dei due poeti in oggetto. Che poi, in effetti, di punti di comunanza ne avrebbero parecchi, fin dai cenni biografici: entrambi hanno raccontato la guerra e le miserie dell’uomo del secolo scorso con un linguaggio sarcastico e popolare, tanto lontano dalle accademie quanto sorprendentemente efficace e originale. La guerra di Sarajlić è vissuta come dramma in prima persona (A Sarajevo siamo stati tutti becchini) e rappresenta un punto cardinale di tutta la sua produzione. De Andrade racconta la guerra quotidiana dell’uomo metropolitano, cannibalizzato dal progresso e spesso vittima della sua stessa irragionevolezza. I nostri, pur essendo vissuti in contesti differenti, nutrono le stesse paure, le misurano e le esorcizzano offrendo un punto di vista sulla modernità caustico e spesso in bilico tra l’imminente tragedia e la commedia (Mondo mondo vasto mondo / se io mi chiamassi Raimondo / sarebbe una rima, non sarebbe una soluzione – da Poema a Sette Facce di D. De Andrade). La loro poesia è un invito a resistere, a costruirsi traendo spunto dalle difficolta, passando attraverso l’accettazione di se stessi come antieroi. Nel tentativo di sbrogliare la matassa e seguire il filo sornione dei versi di Sarajlić, oltre alla foto della statua vandalizzata di Drummond De Andrade, aggiungo che egli andava a piedi come Dante, e infatti nel bel mezzo della sua intricata e lunga vicenda umana scrisse No meio do caminho (Nel mezzo del cammin stava una pietra / stava una pietra nel mezzo del cammin / stava una pietra / nel mezzo del cammin stava una pietra). AS
3.
È Oblio
Giuro che non ricordo neanche il nome,
ma morirò chiamandola María,
non per mero capriccio di poeta,
per quel suo che da piazza di provincia.
Bei tempi! Io ero uno spaventapasseri,
lei una ragazza pallida ed ombrosa.
Tornando un pomeriggio dal Liceo
seppi della sua morte prematura,
nuova che mi causò un tale sconforto
che udendola versai pure una lacrima.
Una lacrima, chi ci crederebbe!
E pensare che sono un uomo energico.
Se do credito a quello che si disse
Tra la gente che diede la notizia
Devo credere, senza alcun indugio,
che morì con mio nome nei suoi occhi,
fatto che mi sorprende, perché in fondo
per me non fu mai altro che un’amica.
Non ebbi mai con lei altro che semplici
Relazioni di stretta cortesia,
nient’altro che parole su parole
con qualche accenno tutt’al più alle rondini.
La conobbi in paese (del paese
mio resta ormai solo un pugno di cenere)
mai vidi in lei altro destino che quello
di una ragazza triste e pensierosa.
Fu per questo che arrivai a chiamarla
Con il celeste nome di María,
circostanza che prova chiaramente
la correttezza della mia dottrina.
Può darsi che una volta la baciai,
chi non ha dato mai un bacio a un’amica!
Ma tenete presente che lo facevo
senza sapere bene che facevo.
Non negherò, lo ammetto, mi piaceva
la compagnia sua vaga e immateriale
che era come lo spirito sereno
che alberga in ogni fiore della casa.
Io non posso occultare in nessun modo
l’importanza che ebbe il suo sorriso
né sminuire l’influsso favorevole
che perfino alle pietre trasmetteva.
Aggiungiamo, altresì, che della notte
furono gli occhi suoi fonte fidata.
Ma, nonostante tutto, è necessario,
che comprendiate che io non l’amavo,
se non con quel pio e vago desiderio
con cui si pensa a un parente malato.
Tuttavia può accadere, tuttavia,
cosa che mi stupisce ancora oggi,
questo inaudito e singolare esempio
di morte col mio nome nei suoi occhi,
lei, composita rosa immacolata,
lei che in realtà era un autentico lume.
Ha ragione, ragione assai, la gente
che passa notte e giorno a lamentarsi
che il mondo traditore in cui viviamo
vale di meno di una ruota a terra:
molto più onorevole è una tomba,
vale di più una foglia ammuffita,
niente qui è vero, niente resta uguale,
neanche la lente con cui tutto osservi.
Oggi di primavera è un giorno azzurro,
credo che morirò io di poesia,
di quella malinconica ragazza
io non ricordo ormai neppure il nome.
So solo che passò per questo mondo
come una colomba fuggitiva:
io l’ho dimenticata, lentamente,
come tutte le cose della vita.
Nicanor Parra, È Oblio (1954), in L’ultimo spegne la luce, Giunti Editore, 2019.
Da sempre la poesia (sarebbe meglio dire: l’arte) si confronta con la mortalità e il suo opposto ideale, l’eternità. Nel corso di una intervista televisiva del 1988, lo scrittore cileno Roberto Bolaño – appassionato lettore di Nicanor Parra – dichiarò: «Non c’è immortalità e questo è un paradosso che gli scrittori conoscono da vicino e soffrono da vicino perché ci sono scrittori che si giocano tutto, proprio tutto, per il riconoscimento, per l’immortalità».
Nella poesia Discorso del 1968 il brasiliano Carlos Drummond De Andrade discorre con l’eternità con sarcasmo e un pizzico di malinconia, inquadrando sé stesso all’interno di quei “morituri” che cercano l’eternità nei libri, in certi momenti cosiddetti indimenticabili. “Eternità”, ci rivela De Andrade, “esiste” come parola, ma è incomunicabile: «quello che decifriamo di te / e neanche a noi stessi confessiamo». Ai morituri non resta altro che baciarla.
Nel suo testo del 1954 È oblio, “antipoesia” d’amore mascherata da poesia di non-amore, il cileno Nicanor Parra, celebre per il suo stile umoristico, nero, graffiante, indugia languidamente sull’idea della morte parlandoci di una ragazza di cui non ricorda (o non vuole ricordare) il nome. La descrizione di “María” (nomignolo datole sul momento) passa attraverso rarefazioni e negazioni risultando evanescente, un ritratto fatto di piccoli dettagli inutili, ricordi sfuggenti e frammentarie malinconie. La memoria viene meno e la poesia, nocchiero per eccellenza verso l’infinito, non basta più, non è più sufficiente o non è più in grado di conservare alcunché.
Nell’ultima strofa, Parra dice: «credo che morirò io di poesia, / di quella malinconica ragazza / io non ricordo ormai neppure il nome. / So solo che passò per questo mondo / come una colomba fuggitiva: / io l’ho dimenticata, lentamente, / come tutte le cose della vita».
L’eternità non esiste e se esiste non si può dire. In ogni caso, non è per noi. MC
4.
A Urania
a I. K.
Tutto ha un limite, compresa la tristezza.
S’impiglia lo sguardo alla finestra, come alla palizzata
la foglia. Puoi versare acqua, scuotere chiavi.
Solitudine è l’uomo al quadrato. Il dromedario
così fiuta con una smorfia il binario.
Si scosta il vuoto, come una portiera.
E cos’è poi lo spazio, in generale, io
dico? assenza di corpo in ogni punto.
Per questo Urania è più vecchia di Clio.
Di giorno, e al lume di lumini ciechi,
vedi che non nasconde nulla: cerchi
di guardare il globo, e guardi una nuca.
Eccoli, i boschi pieni di mirtillo,
fiumi dove si pesca a mano con lo storione,
una città che non ti annovera più
nell’elenco del telefono. E a sud
anzi a sud-ovest, ecco montagne brune,
e vagano nel càrice cavalli prževali,
si fanno gialli i visi. Poi, più in là, corvette
navigano e si fa azzurro lo spazio,
come una biancheria con i merletti.
Iosif Brodskij, A Urania (1981), in Poesie 1972-1985, traduzione di Giovanni Buttafava, Adelphi, Milano 1986.
N.d T.: “cavalli prževali”: da Nikolaj M. Prževal’skij (1839 – 1888), generale ed esploratore russo che per primo descrisse una razza di cavalli selvatici che vivono tutt’ora nelle pianure tra la Siberia e la Cina occidentale.
“Niente qui è vero”.
E sul qui, ogni ingenuità cede. Quello di Parra, del resto, è tutt’altro che oblio.
Le azioni e i pensieri di María – presenza «vaga e immateriale» – sono solo una scherzosa eventualità che puntualmente riverbera nella dimensione, altrettanto precaria, di un può darsi. Parra ci scherza su, sin dall’inizio fa comunella col lettore, fornendogli indizi per un’ammissione di colpe piuttosto concreta; mentre María, irrimediabilmente sfocata, rivela la propria figura solo attraverso una lente che deforma il presente con metodo, trasformandolo in passato. La dimenticanza, a cui allude il titolo, qui si rovescia nel suo doppio e diventa rimembranza.
Il componimento poetico si offre come residuo del tempo trascorso, sintesi in versi delle tensioni che, discontinue, si sedimentano nella memoria. Chi ricorda, riscrive un vissuto all’interno di immagini in movimento. Ad ogni rievocazione l’immagine muta: cambia qualcosa nella forma, diventa altro, si riattualizza in un altro spazio e in un altro tempo. Il ricordo è parola, dunque, racconto.
Questa è chiaramente una consapevolezza piuttosto diffusa in ambito lirico, Parra, per esempio, non ci gira certo intorno. C’è però un poeta che più di altri riunisce nella sua lirica la duplicità intrinseca alla rimembranza – contemporaneamente attività psichica e luogo della memoria – celebrando con sobrietà il distacco, cifra esistenziale di una vita in fuga.
Iosif Aleksandrovič Brodskij nasce nel 1940 a Leningrado, città dove resterà fino al 1972, anno in cui è costretto all’esilio. La lingua di Brodskij è cristallina e frammentaria, è una poesia «piena di tracce, di scie, di echi, appunto. E di memoria.» (G. Buttafava, Prefazione, in Poesie 1972-1985, Adelphi, Milano 1986).
Restringere la visione poetica di Iosif Brodskij ad un unico componimento, è certamente un compito arduo. Tuttavia, in K Uranii (A Urania) si riesce a scorgere almeno un frammento del suo sguardo sul mondo, attraversato con crudele oggettività lungo una complessa geografia mentale da cui emergono brevi istantanee del pensiero.
Le immagini evocate ritraggono sin dai primi versi il conflitto tra pensiero e realtà. In questo gioco di accostamenti che vede l’organico, il naturale, tornare puntualmente all’inorganico, il reale, prende corpo la questione della misurazione, del limite e della finitudine, cuore del componimento. Infatti, se nel mondo della rimembranza la cronologia esiste come principio da violare, non si può dire lo stesso dello spazio, che traccia il confine su cui necessariamente si infrange la possibilità di un altrove, ricordando all’uomo il valore elevato alla seconda potenza della propria solitudine. Così Urania, musa dell’astronomia e della geometria, si staglia al di sopra di sua sorella Clio, musa della Storia.
Nonostante l’amarezza della rivelazione, la lingua di Brodskij mostra il suo carattere ostinato, giacché ulteriori trasfigurazioni popolano gli ultimi versi, terminando con una visione straniante in cui la totalità dello spazio celeste lentamente si restringe nella miniatura di un ricamo, come se questo principio dialettico tra sconfinamenti e riduzioni fosse il reale motore del pensiero lirico.
Del resto Brodskij stesso, in una conversazione con Anne Marie Brumm, pone l’accento sul carattere «retrospettivo» della sua scrittura, tralasciando volutamente l’aspetto «introspettivo» (I. Brodskij, Conversazioni, Adelphi, Milano 2015). In questa inclinazione dello sguardo, il rivolgimento all’indietro registra il movimento del pensiero nel luogo in cui ha avuto origine per la prima volta: è così che il qui ed ora resta disponibile ad una rievocazione futura, senza correre il rischio di divenire un lì, cristallizzato in un allora. RC
5.
Girandole di gas nel vuoto concavo
che ci contiene tutti. Non c’è nessun centro e l’orlo
si cuce su se stesso. Il tempo è spazio che si espande.
Il tempo è fame e lo spazio è freddo. Abiterò
infrastrutture luminose.
Saremo più lontani, i mondi dai mondi
e farà più freddo, fino a riassorbirsi dentro a un buco.
Oppure si riconcentrerà fino a riaccendersi.
Ma adesso, l’attimo presente, è la capitale del Tempo.
Alberto Pellegatta, in L’ombra della salute, Mondadori, 2011.
È nel mio palmo la mia misura e oscura
a questo diteggiare stesso, è ignara ogni parola
del metro sottostante, della sua struttura
di accenti subacquei percossa a caso
dalla lingua sul palato. Anche gli astri
hanno i loro dubbi e non si direbbe, ai pianeti
battono forte le tempie, tengono il ritmo
del mio mal di testa costante. I quanti amano ingannarci.
La visione sfugge all’ipnosi degli occhi.
Cosa puoi fare veramente? Posso passeggiare
azzerare il conto nello zero ripetuto dei passi,
nella mappa mentale delle sfere
che giocano a nascondino nel cervello divino. PPDG
6.
To Start at End
Iniziare alla fine
E tornare
alla bocca
È l’inizio
Tornare al buco nero
Che mangiò il pasto
Partire dall’universo
E dalla scrittura
Fino all’analfabetismo
Di un proto-universo
Troppo compresso
Per il rilascio. Era così
Mani fatte di dita sulla
Tastiera e compare sullo schermo
Qualcosa che tredici
Miliardi di anni luce fa accadde,
Quel Scaldate i motori!
Che fece iniziare
Ciò che è la bocca
Della musica.
Ciò che è fuori da ogni controllo
Sta per succedere –
Una crepa nel niente invisibile
Appare.
Ciò che è fuori da ogni controllo sta per
Succedere – le stringhe della teoria
Non viste stanno tremando estatiche
Ancor prima di esser toccate dall’archetto.
Accadde tutto in fretta.
Il clima autunnale era diffuso.
Da ambo i lati dello spazio-tempo si ammassavano le truppe.
La giovinezza era trascorsa.
Frederick Seidel, To Start at End, in Life on Earth, 2001 (tradotta in italiano da F.M.Spinelli).
La lirica di Seidel, quasi centro esatto dei cento componimenti della sua Cosmos Trilogy (esemplata sul metamodello della Commedia dantesca), dovrebbe far parte della sezione ctonia del canzoniere (Life on Earth, la terra, l’esistenza, come interstizio purgatoriale), ma in realtà l’afflato cosmologico del poeta pervade anche questi versi, i quali immaginano visionariamente la nascita dell’universo come un atto differito, realizzato (o replicato) a tavolino nel tempo presente, ossia – rispetto all’innesco (the mouth) – nel futuro. Qui il gioco fraseologico nella seconda strofa tra “Back to” e “Back for”, ad invertire il naturale corso del tempo lineare (impossibile non pensare a Time’s Arrow: or the Nature of the Offence, il bellissimo romanzo di Martin Amis). Questo fiat non verbale, ma dovuto a una tecnologia più avanzata della parola divina, ha una conseguenza politica e sinistra, come mostra l’ultimo distico: la scoperta del meccanismo d’innesco dello spazio-tempo produce una militarizzazione dei suoi confini. Proprio questo aspetto mi ha fatto propendere per la scelta di questa poesia: essa condivide, con quella di Pellegatta, proprio il mescolarsi di fisica e distopia (girandole di gas nel vuoto concavo/ che ci contiene tutti, con inevitabile rimando alle tecniche di sterminio del Terzo Reich) in un tempo che continuamente ri-accade (si ricontorcerà fino a riaccendersi). FMS
7.
In questa poesia di Seidel tutto ha inizio dalla bocca.
La bocca posta all’orizzonte degli eventi di un buco -che a sentire Varzi e Casati non esiste.
La terminazione e l’origine dell’ignota topologia del logos, per iniziare alla fine e andare à rebours.
Un buco che, guarda caso, va a cascare proprio nell’esercizio ermeneutico della scrittura.
È proprio la bocca in sé che mi ha condotto alle nefandezze lessicali di un altro poeta. Quando Seidel nasceva, Gherasim Luca si chiamava Salman Locker e scriveva nella sua città natale, Bucarest, nella sua lingua natale, il romeno. Di lì a due anni sarebbe iniziata la sua contorta diaspora disegnata attorno alle sorti dell’Europa, che lo avrebbe portato ad abbandonare il suo nome e la sua lingua. La sua bocca balbettante non è un buco ma un teatro: camera inabitabile alla terminazione di un sistema voce fatto di petto, gola, lingua, denti, volto prima che di parola.
È proprio la vertigine della bocca che proietta Gherasim Luca nel suo funambolico abuso della parola, che guida la sua mano nelle suture brutali di senso sulla pagina.
Assioma : L’uomo
Assioma:
l’uomo
Tema:
l’uomo assiomatico
Tesi:
l’estasi vessata
Asse d’accesso – ascesi – fisso:
X
X:
esigere ed esercitare la rissa
esplorare all’eccesso il sesso
Isola esiliata
nell’esistere
L’uomo assiomatico
esantematico
tematico
tic etico
Il sesso l’esala
l’essuda
l’estirpa
l’espelle
Il sesso l’esalta
lo scusa l’espone l’esplode
lo rilassa
L’uomo creato:
da esecrare
esasperare
giustiziare
Spedire su un’orbita
esorbitata
Lasciatelo errare errare
verso un’azione estrema
Escremento degli elementi
L’uomo:
asse d’una parola estenuata
parallasse
d’un mondo esibito
assioma da arieggiare
ricreare
Asse dell’uomo:
il fantasma
la donna e l’uomo
l’uccidono
la fiamma e l’ombra
l’esca e l’assalto
la parte oscura
d’una lama d’acqua
e di coltello
Perde il suo numero
Padre eccitato
Esperto del peggio
Esiste poi espira
Perplessità
Gherasim Luca, Assioma : l’uomo (1984), in La Fine del mondo, I libri dell’Arca, 2012.
Una lettura del poeta stesso appare nel disco Théâtre de bouche edito nel 2016 da Holidays records a cura di Luca Garino. RG
Hanno partecipato: Federica Deo, Antonio Serra, Manuel Crispo, Rosa Coppola, Pasquale Pietro Del Giudice, Fabrizio Maria Spinelli, Renato Grieco.
Testi in lingua originale:
Progres
Dante je išao pješke,
Tolstoj na konju,
Balzak u kočiji,
Tomas Man na biciklu,
Hemingvej u džipu,
Babelj u taljigama,
Fransoaza Sagan u rols-rojsu.
Zato je Dante
Napisao “Božanstvenu komediju”,
Tolstoj – “Rat i mir”,
Balzak – “Čiča Gorioa”,
Tomas Man – “Budenbrokve”,
Hemingvej – “Zbogom oružje”,
Babelj – “Crvenu konjicu”,
a Fransoaza piše
nekakve bestselere.
Discurso
Eternidade:
os morituros te saúdam.
Valeu a pena farejar-te
nas traça dos livros
e nos chamados instantes inesquecíveis.
Agônico
em êxtase
em pânico
em paz
o mundo-de-cada-um dilata-se até as lindes
do acabamento perfeito.
Eternidade:
existe a palavra,
deixa-se possuir, na treva tensa.
Incomunicável
o que deciframos de ti
e nem a nós mesmos confessamos.
Teu sorriso não era de fraude.
Não cintilas como é costume dos astros.
Não és responsável pelo que bordam em tua corola
os passageiros das presiganga.
Eternidade,
os morituros te beijaram.
Es Olvido
Juro que no recuerdo ni su nombre,
Mas moriré llamándola María,
No por simple capricho de poeta:
Por su aspecto de plaza de provincia.
¡Tiempos aquellos!, yo un espantapájaros,
Ella una joven pálida y sombría.
Al volver una tarde del Liceo
Supe de la su muerte inmerecida,
Nueva que me causó tal desengaño
Que derramé una lágrima al oírla.
Una lágrima, sí, ¡quién lo creyera!
Y eso que soy persona de energía.
Si he de conceder crédito a lo dicho
Por la gente que trajo la noticia
Debo creer, sin vacilar un punto,
Que murió con mi nombre en las pupilas,
Hecho que me sorprende, porque nunca
Fue para mí otra cosa que una amiga.
Nunca tuve con ella más que simples
Relaciones de estricta cortesía,
Nada más que palabras y palabras
Y una que otra mención de golondrinas.
La conocí en mi pueblo (de mi pueblo
Sólo queda un puñado de cenizas),
Pero jamás vi en ella otro destino
Que el de una joven triste y pensativa.
Tanto fue así que hasta llegué a tratarla
Con el celeste nombre de María,
Circunstancia que prueba claramente
La exactitud central de mi doctrina.
Puede ser que una vez la haya besado,
¡Quién es el que no besa a sus amigas!
Pero tened presente que lo hice
Sin darme cuenta bien de lo que hacía.
No negaré, eso sí, que me gustaba
Su inmaterial y vaga compañía
Que era como el espíritu sereno
Que a las flores domésticas anima.
Yo no puedo ocultar de ningún modo
La importancia que tuvo su sonrisa
Ni desvirtuar el favorable influjo
Que hasta en las mismas piedras ejercía.
Agreguemos, aun, que de la noche
Fueron sus ojos fuente fidedigna.
Mas, a pesar de todo, es necesario
Que comprendan que yo no la quería
Sino con ese vago sentimiento
Con que a un pariente enfermo se designa.
Sin embargo sucede, sin embargo,
Lo que a esta fecha aún me maravilla,
Ese inaudito y singular ejemplo
De morir con mi nombre en las pupilas,
Ella, múltiple rosa inmaculada,
Ella que era una lámpara legítima.
Tiene razón, mucha razón, la gente
Que se pasa quejando noche y día
De que el mundo traidor en que vivimos
Vale menos que rueda detenida:
Mucho más honorable es una tumba,
Vale más una hoja enmohecida,
Nada es verdad, aquí nada perdura,
Ni el color del cristal con que se mira.
Hoy es un día azul de primavera,
Creo que moriré de poesía,
De esa famosa joven melancólica
No recuerdo ni el nombre que tenía.
Sólo sé que pasó por este mundo
Como una paloma fugitiva:
La olvidé sin quererlo, lentamente,
Como todas las cosas de la vida.
К Урании
И. К.
У всего есть предел: в том числе у печали.
Взгляд застревает в окне, точно лист – в ограде.
Можно налить воды. Позвенеть ключами.
Одиночество есть человек в квадрате.
Так дромадер нюхает, морщась, рельсы.
Пустота раздвигается, как портьера.
Да и что вообще есть пространство, если
не отсутствие в каждой точке тела?
Оттого-то Урания старше Клио.
Днем, и при свете слепых коптилок,
видишь: она ничего не скрыла,
и, глядя на глобус, глядишь в затылок.
Вон они, те леса, где полно черники,
реки, где ловят рукой белугу,
либо – город, в чьей телефонной книге
ты уже не числишься. Дальше, к югу,
то есть к юго-востоку, коричневеют горы,
бродят в осоке лошади-пржевали;
лица желтеют. А дальше – плывут линкоры,
и простор голубеет, как белье с кружевами.
To start at End
To start at End
And work back
To the mouth
Is the start –
Back to the black hole
That ate meal,
Back from the universe
And the book
To the illiteracy
Of the much too
Compressed pre-universe
To release. So it was
The hands of fingers on
The keyboard bringing up on the screen
The something thirteen
Billion light-years back that happened,
The Gentlemen, start your engines!
That made it start,
Which is the mouth
Of the music.
The uncontrollable
Is about to happen –
A gash in the nothingness invisibly
Appears.
The uncontrollable is about
To happen – the strings (of String Theory)
Are trembling unseen ecstatically
Before they even are touched by the bow.
It all happened so fast.
The fall weather was vast.
At either end of space-time the armies massed.
Youth was past.
Axiome: l’homme
Axiome:
l’homme
Thème:
l’homme axiomatique
Thèse:
l’extase vexée
Axe d’accès – ascèse – fixe:
X
X:
rixe à exiger et à exercer
sexe à explorer à l’excès
Ile exilée
dans exister
L’homme axiomatique
exanthématique
thématique
tic éthique
Le sexe l’exhalel’exsude
l’extirpe
l’expulse
Le sexe l’exalte
l’excuse l’expose l’explose
le relaxe
L’homme créé:
à exécrer
à exaspérer
à exécuter
À expédier sur une orbite
exorbitée
Laissez-le errer errer
vers une action extrême
Excrément des éléments
L’homme:
axe d’un mot exténué
paralaxe
d’un monde exhibé
axiome à aérer
à recréer
Axe de l’homme:
le fantôme
la femme et l’homme
l’assomment
la flamme et l’ombre
l’appât et l’assaut
la partie sombre
d’une lame d’eau
et de couteau
Il perd son nombre
Père excité
Expert du pire
Existe puis expire
Perplexité
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