Secondo la Teoria del Mondo Piccolo tra due qualsiasi oggetti, punti o persone vi sono non più di sei gradi di separazione. Così ipotizzava nel 1929 lo scrittore ungherese Frigyes Karinthy nel racconto uscito anonimo Catene. Sette poesie, sei gradi e un solo racconto tessuto a quattordici mani: questa la nostra rubrica in Potlatch.
La sesta puntata si compone di due parti: due narrazioni parallele prendono vita dalla poesia di Peter Handke scritta per il film dell’amico Wim Wenders, articolando discorsi e immaginari che fanno eco al celebre verso Quando il bambino era bambino ponendo, al termine, un punto di domanda.
1.
Elogio dell’infanzia
Quando il bambino era bambino,
camminava con le braccia ciondoloni,
voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente
e questa pozzanghera il mare.
Quando il bambino era bambino,
non sapeva di essere un bambino,
per lui tutto aveva un’anima
e tutte le anime erano un tutt’uno.
Quando il bambino era bambino
non aveva opinioni su nulla,
non aveva abitudini,
sedeva spesso con le gambe incrociate,
e di colpo si metteva a correre,
aveva un vortice tra i capelli
e non faceva facce da fotografo.
Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
perché io sono io, e perché non sei tu?
perché sono qui, e perché non sono lì?
quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?
la vita sotto il sole è forse solo un sogno?
non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo
quello che vedo, sento e odoro?
c’è veramente il male e gente veramente cattiva?
come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare,
e che, una volta, io, che sono io,
non sarò più quello che sono?
Quando il bambino era bambino,
si strozzava con gli spinaci, i piselli, il riso al latte,
e con il cavolfiore bollito,
e adesso mangia tutto questo, e non solo per necessità.
Quando il bambino era bambino,
una volta si svegliò in un letto sconosciuto,
e adesso questo gli succede sempre.
Molte persone gli sembravano belle,
e adesso questo gli succede solo in qualche raro caso di fortuna.
Si immaginava chiaramente il Paradiso,
e adesso riesce appena a sospettarlo,
non riusciva a immaginarsi il nulla,
e oggi trema alla sua idea.
Quando il bambino era bambino,
giocava con entusiasmo,
e, adesso, è tutto immerso nella cosa come allora,
soltanto quando questa cosa è il suo lavoro.
Quando il bambino era bambino,
per nutrirsi gli bastavano pane e mela,
ed è ancora così.
Quando il bambino era bambino,
le bacche gli cadevano in mano come solo le bacche sanno cadere,
ed è ancora così,
le noci fresche gli raspavano la lingua,
ed è ancora così,
a ogni monte,
sentiva nostalgia per una montagna ancora più alta,
e in ogni città,
sentiva nostalgia per una città ancora più grande,
ed è ancora così,
sulla cima di un albero prendeva le ciliegie tutto euforico,
com’è ancora oggi,aveva timore davanti a ogni estraneo,
e continua ad averlo,
aspettava la prima neve,
e continua ad aspettarla.
Quando il bambino era bambino,
lanciava contro l’albero un bastone come fosse una lancia,
che ancora continua a vibrare.
Peter Handke, Elogio dell’infanzia, dalla sceneggiatura di Il cielo sopra Berlino, 1987.
Quando la tristezza si fa spazio, quando il mondo sembra prendersi gioco del mondo, quando nulla è chiaro e tutto si perde nella foschia del tempo perduto o del tempo ignoto, leggere questo “Elogio dell’infanzia” che il poeta e romanziere austriaco Peter Handke scrisse nel 1987 per la sceneggiatura di uno dei più grandi capolavori del cinema, “Il cielo sopra Berlino” diretto da Wim Wenders, regala un lieve sorriso. FC
2.
L’elegia in petèl
Dolce andare elegiando come va in elegia l’autunno,
raccogliersi per bene accogliere in oro radure,
computare il cumulo il sedimento delle catture
anche se da tanto prèdico e predico il mio digiuno.
E qui sto dalla parte del connesso anche se non godo
di alcun sodo o sistema:
il non svischiato, i quasi, dietro:
vengo buttato a ridosso di un formicolio
di dèi, di un brulichio di sacertà.
Là origini – Mai c’è stata origine.
Ma perché allora in finezza e albore tu situi
la non scrivibile e inevitata elegia in petèl?
“Mamma e nona te dà ate e cuco e pepi e memela.
Bono ti, ca, co nona. Béi bumba bona. È fet foa e upi”
Nessuno si è qui soffermato – Anzi moltissimi.
Ma ogni presenza è così sua di sé
e questo spazio così oltrato oltrato… (che)
“Nel quando ║ O saldamente costrutte Alpi
E il principe ║ Le “
appare anche lo spezzamento saltano le ossa arrotate:
ma non c’è il latte petèl, qui, non il patibolo,
mi ripeto, qui no; mai stata origine mai disiezione.
Non spezzo nulla se non spezzato ma súbito riattato,
spezzo pochissimo e do imputazione – incollocabili –
a mimesi ironia pietà;
qui terrore: ma ridotto alla sua più modica modalità.
Per quel tic-sì riattato, così verbo-Verbo,
faccio ponte e pontefice minimo su
me e altre minime faglie.
L’assenza degli dèi, sta scritto, ricamato, ci aiuterà
– non ci aiuterà –
tanto l’assenza non è assenza gli dèi non dèi
l’aiuto non è aiuto. E il silenzio sconoscente
pronto a tutto,
questo oltrato questo oltraggio, sempre, ugualmente
(poco riferibile) (restio ai riferimenti)
(anzi il restio, nella sua prontezza):
e il silenzio-spazio, provocatorio, eccolo in diffrazione,
si incupisce frulla di storie storielle, vignette
di cui si stipa quel malnato splendore, mai nato,
trovate pitturanti, paroline-acce a fette e bocconi, pupi,
barzellette freddissime fischi negli orecchi
(vitamina A dosi alte per trattarli
ma non se sono somatismi di base psichica),
e lei silenzio-spazio
e lei allarga le gambe e mostra tutto;
vedo il tesissimo e libertino splendore
e il fascino e il risolino e il fatto brutto
e correre la polizia e – nel vacuum nell’inane
ma raggiante – il desiderio di denaro fresco si fa più ardente
di dominio fresco di ideologia fresca;
anzi vedo a braccetto Hölderlin e Tallémant des Réaux
sovrimpressione sovrimpressiono
ma pure
ma alla svelta
ma tutto fa brodo
(cerchiamo, bambini, di essere buoni
nel buon calore, le tue brune tettine,
il pretestuarsi per ogni movimento
in ogni momento,
calore non mai tardo nel capire
come credono “certe persone”
anzi astuto come uno di voi
quando imbroglia grilli erbe genitori,
sappiate scrivere ma non leggere, non importa,
iscrivetevi a, per, pretestuarvi all’istante)
ma: non è vero che tutto fa brodo,
ma: e rinascono i ma: ma
Scardanelli faccia la pagina per Tallémant des Réaux,
Scardanelli sia compilato con passi dell’Histoire d’O.
Ta bon ciatu? Ada ciòl e úna e tée e mana papa.
Te bata cheto, te bata: e po mama e nana.
“Una volta ho interrogato la Musa”
Andrea Zanzotto, L’elegia in petèl, in La Beltà, Mondadori, 1968.
Handke elogia l’infanzia dal di fuori, al sicuro, da una nostalgia raziocinante; ma cosa accadrebbe a voler ricadere in quella prospettiva? Quando l’adulto si riconosce adulto, quando cade dall’albero della vita e inizia a rinsecchire nella coscienza, che fine fa lo sguardo animale del bambino? Se l’adulto volesse recuperare le tracce e la voce del bambino perduto, una possibilità sarebbe la modalità che il poeta Andrea Zanzotto mette in pratica nella raccolta “La Beltà” del ’68; qui nel testo “L’Elegia in petèl”, il poeta veneto diede inizio ai suoi giochi sintattici, sonori, linguistici, inventando, pasticciando tra l’ipersciocco a l’ipercolto (che in seguito porterà alle estreme conseguenze). La scrittura è esattamente ciò che ci separa da quel paradiso perduto, è sterco e storia, ma se quest’ultima iniziasse a slittare rispetto alla cosa, ai referenti, a sfilacciarsi, a esplodere, fino a farsi quasi scarabocchio, nonsense, potrebbe ricongiungersi così all’estremo opposto dell’infanzia con lo strumento ammalato, sabotato della cultura. Ricostruire il paradiso perduto con i mezzi della caduta sembrerebbe significare, per il poeta veneto, sprofondare in un’infantile babele, nella lallazione creativa, nel balbettio indistinto tra il suono e il senso. Il Pètel del titolo della poesia, fa notare Zanzotto, è infatti la lingua vezzeggiativa
con cui le mamme si rivolgono ai bambini piccoli, e che vorrebbe coincidere con quella in cui esprimono sé stessi (è l’«Ammensprache» dei linguisti). Qui il petèl, prelingua («pappo e dindi»), verrebbe confrontato con la fine della lingua e della poesia, esemplificata con due passi frammentati di Hölderlin, già sulla via dell’ottenebramento,
quando era già solito firmarsi con il nome inventato di Scardanelli (da «Ihr sichergebauten Alpen», e da «Einst hab’ich die Muse gefragt…» tradotto e riportato più sotto: Una volta ho interrogato la Musa). PDG
3.
Û pajörâ ’na cujumbra
Û pajörâ ’na cujumbra, e la tremava,
d’amur l’û speccenada cuj mè man, pö,
’me fa ’l bas che nel purpùr s’invrìa,
û vardâ ’l cel, e ’me s’enversa un mar,
g’û dâ ‘n frulìcch, e, dasi, ’me se cria,
g’û dî: Curumbra, varda ’l sû, e va!
(Ho acciuffato e arruffato le penne di una colomba, e lei tremava,
d’amore l’ho pettinata-carezzata con le mie mani, poi
come fa il bacio che nell’amoreggiamento s’inebria,
ho guardato il cielo, e mi si rovescia in un mare,
le ho dato un colpo per farle frullare le ali, e, adagio, come si piange,
le ho detto: Colomba, guarda il sole, e va!)
Franco Loi, Û pajörâ ’na cujumbra, in Poesia d’amore del Novecento, Crocetti Editore, 2010.
Se fossi un AI avrei scelto un dialetto che potesse legarsi alla poesia che invita questa qui a danzare, una lingua nuova che è stata a me lontana ma che si è avvicinata con il freddo di questi giorni del “buon rientro”.
Se fossi davvero solo un AI capace di ridurre tutti i miei pensieri all’output, forse avrei potuto selezionare la prossima poesia, facendo una ricerca testuale come aveva previsto Calvino al termine del capolavoro pubblicato nel 1979 e non mi sarei immedesimata con la Musa interrogata e la colomba sfruculiata, sollecitata al volo come se le ali non fossero lì da sempre per quello.
E invece riconosco questo dover dare, a chi nel Novecento teneva la penna, l’illusione di aver fatto un gesto utile al nostro farci esprimere, utile ad una libertà già preventivata ed azionata.
Per fortuna il Novecento è finito, no? AA
4.
Poco dopo, Colomba raccolse alcuni sassolini, tappi di bottiglie, mozziconi, scampoli di vestiti, pezzi di truciolato e li rese parole. Conosceva la lingua che parlava quell’uomo, e così scrisse:
Quando saremo due saremo veglia e sonno
affonderemo nella stessa polpa
come il dente di latte e il suo secondo,
saremo due come sono le acque, le dolci e le salate,
come i cieli, del giorno e della notte,
due come sono i piedi, gli occhi, i reni,
come i tempi del battito
i colpi del respiro.
Quando saremo due non avremo metà
saremo un due che non si può dividere con niente.
Quando saremo due, nessuno sarà uno,
uno sarà l’uguale di nessuno
e l’unità consisterà nel due.
Quando saremo due
cambierà nome pure l’universo
diventerà diverso.
Erri De Luca, Quando saremo due, in Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo, Feltrinelli, 2005.
MC
5.
Il più bello dei mari è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti.
E quello che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto.
Nazim Hikmet, Il più bello dei mari, in Poesie d’Amore, Mondadori, 2021.
Erri De Luca parla al futuro. Un tempo verbale che non si brucia nella seduzione dell’immanente né si risolve nel malinconico ricordo di memorie vissute e immodificabili. Il futuro è un tempo paziente, che vincola. Impregnato di una speranza che impegna la tenacia e di fiducia che trattiene responsabilità.
Hikmet lo racconta in una strofa. Una sola. Quasi a dirlo d’un fiato. Come se l’angoscia dell’attesa si potesse esorcizzare nella rapidità di suoni sospirati.
Mentre in De Luca il desiderio ha il sapore di un patto, qui racconta piuttosto l’inquietudine dell’incertezza. Nel ritmo incalzante dei suoi futuri ripetuti la poesia sembra suggellare la nostalgia per qualcosa che non è stato alla promessa di qualcosa che accadrà.
E così il tempo verbale supera quello metrico per congelarsi nell’indefinitezza di una condizione senza misura, dove l’aspettativa si dilata ad includere il rimpianto e l’avvenire è sospeso tra la litania di una preghiera consolatoria e l’ebbrezza ammaliante di un canto propizio. FI
6.
Mio blu – dicevi –
mio blu.
Lo sono.
E anche più del cielo.
Ovunque tu sia
io ti circondo.
Ghiannis Ritsos, in Erotica, Crocetti, 1981.
C’è nel contatto umano un limite fatale, non lo varca né amore né passione, pur se in muto spavento si fondono le labbra e il cuore si dilacera d’amore. Perfino l’amicizia vi è impotente, e anni d’alta, fiammeggiante gioia, quando libera è l’anima ed estranea allo struggersi lento del piacere.
Chi cerca di raggiungerlo è folle, se lo tocca soffre una sorda pena… ora hai compreso perché il mio cuore non batte sotto la tua mano.
Hanno suonato pressappoco cosi le parole di Anna di tutte le Russie – deturpate nella metrica, forse per cinismo, con la sola eccezione dell’a capo dell’ultimo verso: è necessaria una frazione di silenzio per prepararsi a quell’ultimo anatema – appena letta la poesia (ingiustamente) più famosa di Hikmet.
Poi ho deciso di rileggerle le parole del poeta con l’angina pectoris, lette tante volte da bambina, trascritte forse su un diario di scuola, come quelle dei Baci Perugina, quando non sapevo nemmeno cosa fosse il giorno, il mare, o un figlio, ovvero quando ne avevo una coscienza, diremmo, “in soggettiva”, troppo parziale e troppo pura per essere accettabile, e prima anche che la parola amore diventasse tabù nel mio personalissimo abecedario.
Quindi ho deciso di rileggerle dimenticando quel tempo, come se ad ascoltarle fosse la prima volta. Ho trovato allora nella parola “mare” la poesia di Ritsos, anche se non c’è nella poesia di Ritsos la parola mare.
Mi chiedo se il linguaggio sia strumento o gabbia, se non sia necessario ogni volta disimparare per comprendere, se sia imprescindibile dimenticare – Funes, si sa, era uno sciocco.
Questo inverno un bambino che vive a Parigi, davanti a un chioschetto sulla spiaggia di Salerno a fare colazione, mi ha chiesto: “Federica, dove porta il mare?” FD
7.
Nell’aprile del 1967, in Grecia con un colpo di stato fu instaurata la dittatura militare di ispirazione fascista conosciuta come dittatura dei colonnelli. Il regime durò fino al luglio del 1974 e per tutta la sua durata fu vietata la diffusione delle poesie di Ghiannis Ritsos a causa della sua vicinanza al KKE, il partito comunista greco. Nel 1972, Nicola Crocetti si recò a Samo per incontrare per la prima volta il poeta che, dopo essere stato in un campo di concentramento, rimase agli arresti domiciliari sull’isola fino alla caduta della dittatura. Una volta liberato, Ritsos regalò a Crocetti le poesie d’amore inedite, pubblicate in Italia nel 1981 con il titolo di Erotica, primo volume della Crocetti Editore.
La raccolta conteneva anche la poesia “Mio blu”: in pochi versi il poeta canta il suo essere per l’amata colore che avvolge e protegge. Ritsos, blu più del cielo, circonda colei che ama, superando spazio e tempo.
Proprio quando in Grecia venivano gettate le basi del nuovo regime, primi astronauti giunti nello spazio iniziarono a descrivere la Terra di colore blu. Nel 1966 l’astronauta Pete Conrad, comandante della missione Gemini 11, confermò quanto già osservato da Yuri Gagarin: “Lasciatemi dire una cosa: è davvero blu. L’acqua spicca più di tutto il resto, e ogni cosa è blu”. Le foto della terra ripresa dallo spazio, pubblicate sulle più diffuse riviste americane Life, Time e National Geographic, permisero di dimostrare come, a causa della diffusione di Rayleigh, il blu fosse il colore che dominava la superficie terrestre. Nel dicembre del 1968, durante la missione Apollo 8, la prima che vide degli uomini lasciare l’orbita terrestre per raggiungere la Luna la vera scoperta fu il meraviglioso punto blu osservato a 400.000 chilometri di distanza: più che il satellite o il cosmo monocromatico, a colpire gli astronauti furono, infatti, la piccolezza e la fragilità della Terra.
Il poeta statunitense James Dickey nel primo numero di Life del 1969 pubblicò una poesia dedicata agli astronauti, che accompagnava il poster con la visione del sorgere della Terra, Earthrise. Ecco alcuni versi:
Il pianeta blu immenso nel suo sogno
Di realtà, la sua visione calcolata che trema per
L’unico amore
James Dickey, Earthrise, in Life 1969.
Realtà, sogno, scienza, distanze, amori, dittature ed esili hanno permesso di indagare le diverse declinazioni del blu, generando sempre nuova poesia. SF
Hanno partecipato: Francesca Coppolino, Pasquale del Giudice, Arianna Apicella, Michela Caserini, Francesca Iarrusso, Federica Deo, Simone Foresta
L’immagine _Esprit du bleu e’ di Gennaro di Costanzo
Se desideri partecipare alla rubrica contattaci scrivendo all’indirizzo email: federicadeo@gmail.com
TESTI IN LINGUA ORIGINALE
1.
Lied Vom Kindsein
Als das Kind Kind war,
ging es mit hängenden Armen,
wollte der Bach sei ein Fluß,
der Fluß sei ein Strom,
und diese Pfütze das Meer.
Als das Kind Kind war,
wußte es nicht, daß es Kind war,
alles war ihm beseelt,
und alle Seelen waren eins.
Als das Kind Kind war,
hatte es von nichts eine Meinung,
hatte keine Gewohnheit,
saß oft im Schneidersitz,
lief aus dem Stand,
hatte einen Wirbel im Haar
und machte kein Gesicht beim fotografieren.
Als das Kind Kind war,
war es die Zeit der folgenden Fragen:
Warum bin ich ich und warum nicht du?
Warum bin ich hier und warum nicht dort?
Wann begann die Zeit und wo endet der Raum?
Ist das Leben unter der Sonne nicht bloß ein Traum?
Ist was ich sehe und höre und rieche
nicht bloß der Schein einer Welt vor der Welt?
Gibt es tatsächlich das Böse und Leute,
die wirklich die Bösen sind?
Wie kann es sein, daß ich, der ich bin,
bevor ich wurde, nicht war,
und daß einmal ich, der ich bin,
nicht mehr der ich bin, sein werde?
Als das Kind Kind war,
würgte es am Spinat, an den Erbsen, am Milchreis,
und am gedünsteten Blumenkohl.
und ißt jetzt das alles und nicht nur zur Not.
Als das Kind Kind war,
erwachte es einmal in einem fremden Bett
und jetzt immer wieder,
erschienen ihm viele Menschen schön
und jetzt nur noch im Glücksfall,
stellte es sich klar ein Paradies vor
und kann es jetzt höchstens ahnen,
konnte es sich Nichts nicht denken
und schaudert heute davor.
Als das Kind Kind war,
spielte es mit Begeisterung
und jetzt, so ganz bei der Sache wie damals, nur noch,
wenn diese Sache seine Arbeit ist.
Als das Kind Kind war,
genügten ihm als Nahrung Apfel, Brot,
und so ist es immer noch.
Als das Kind Kind war,
fielen ihm die Beeren wie nur Beeren in die Hand
und jetzt immer noch,
machten ihm die frischen Walnüsse eine rauhe Zunge
und jetzt immer noch,
hatte es auf jedem Berg
die Sehnsucht nach dem immer höheren Berg,
und in jeder Stadt
die Sehnsucht nach der noch größeren Stadt,
und das ist immer noch so,
griff im Wipfel eines Baums nach dem Kirschen in einemHochgefühl
wie auch heute noch,
eine Scheu vor jedem Fremden
und hat sie immer noch,
wartete es auf den ersten Schnee,
und wartet so immer noch.
5.
En güzel deniz
En güzel deniz:
Henüz gidilmemiş olanıdır.
En güzel çocuk:
Henüz büyümedi.
En güzel günlerimiz:
Henüz yaşamadıklarımız.
Ve sana söylemek istediğim en güzel söz:
Henüz söylememiş olduğum sözdür.
6.
Το μπλε μουείπες –
το μπλε μου.
Εγώ είμαι.
Και ακόμα πιο ψηλά από τον ουρανό.
Όπου κι αν βρίσκεσαι.
Σε περιβάλλω παντού.
7.
The blue planet steeped in its dream
Of reality, its calculated vision shaking
with the only love
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