Secondo la Teoria del Mondo Piccolo tra due qualsiasi oggetti, punti o persone vi sono non più di sei gradi di separazione. Così ipotizzava nel 1929 lo scrittore ungherese Frigyes Karinthy nel racconto uscito anonimo Catene. Sette poesie, sei gradi e un solo racconto tessuto a quattordici mani: questa la nostra rubrica in Potlatch.
L’ottava puntata si discosta dalla logica adottata finora: non più sette poesie connesse l’una all’altra da un grado di separazione, ma sei gradi distinti che collegano altrettante poesie a una prima comune a tutti. Come verrà declinato il discorso?
1.
Questo è il difetto tutto artigiano
di parlare dello strumento
mentre lo si usa.
Si considera ciò che si fa
e si finisce per fare
soltanto ciò che si considera.
L’oggetto che ne esce
è un figlio che parla del padre,
o viceversa.
Valerio Magrelli, in Ora serrata retinae, Feltrinelli, Milano 1980.
Mi sono soffermata a lungo su questa poesia. E vi sono tornata numerose volte poi.
Cosa sta dicendo Magrelli? Cosa sta cercando di mostrarmi? Devo rivolgere lo sguardo al padre, l’autore, soggetto di un dibattito radicale sviluppato nel decennio precedente la scrittura di questa poesia? Oppure devo concentrarmi sull’oggetto, riletto negli ultimi anni come molteplice e in divenire?
Mi sembra, tuttavia, che l’attenzione debba essere posta nello spazio tra i due, nel processo che lega padre e figlio: un processo di possibilità che può condurre oltre, verso l’autentico, qualunque sia il soggetto.
Ciononostante, quel che emerge in modo involontario, persistente e fuori dal buon senso logico mentre rileggo Magrelli, sono le parole con cui Florenskij definisce il simbolo in una delle sue lezioni al Vchutemas: “Il simbolo è una realtà che porta in sé l’energia di un’altra realtà, una ulteriore che non è mai direttamente rilevata in se stessa. Di conseguenza noi pensiamo l’opera d’arte come una finestra attraverso la quale vediamo una certa realtà, ma che non si identifica affatto con quella realtà” (Florevskij, Lo spazio e il tempo nell’arte).
Vorrei sapere cosa vedono gli altri. FD
2.
Annodammo la nostra infanzia ai capelli delle nuvole
e non fu la pioggia, fummo la pioggia;
la mano dell’uomo ci sradicò dall’aria
e lungo i canyon della nostra pelle
attecchì il pensiero;
le nuvole furono scrittura,
la nostra voce un nodo sciolto,
noi da una parte, da un’altra parte il cielo.
Pierluigi Cappello, in Stato di quiete, Rizzoli, Milano 2016.
Ho cercato per giorni come legarmi ai versi di Magrelli, finché “lungo i canyon della nostra pelle attecchì il pensiero”. Lo strumento passa allora in secondo piano, l’esperienza si trasforma in consapevolezza, “le nuvole furono scrittura”. Mi perdo a rileggerla. “E non fu la pioggia, fummo la pioggia”. Cappiello ci riporta al legame tra infanzia, natura e processo creativo. Lo strumento diventa mezzo potente per riconnettersi a un mondo di possibilità e di sogni, in cui riallacciare le connessioni con una dimensione più autentica. CA
2.
Nei versi finali di un testo di Nature e venature Magrelli paragona la forma grafica della poesia al profilo di una chiave, più esattamente alla parte della chiave che si infila nella toppa e che si chiama mappa o pettine:
… Nel profilo dei versi
io riproduco la sagoma
dentellata delle chiavi.
In questo modo il poeta suggerisce che la poesia è una chiave che, se infilata nella serratura giusta, può dischiudere il suo proprio significato. O che la poesia è chiave e, allo stesso tempo, porta. Oppure che la serratura da aprire si trova nella mente del lettore. Se le cose stanno così, cosa intende dire la poesia qui sopra? Qual è il senso a cui ci dà accesso? Si tratta di una poesia sul fare poesia? O sul fare in generale? Del resto, poiētēs vuol dire in greco “artigiano”.
I versi di Magrelli mi fanno pensare alla distinzione che Hannah Arendt opera tra labour (il lavoro del corpo, quello degli schiavi e delle bestie da soma) e work (l’operare con le mani proprio degli esseri umani con cui si creano gli oggetti artificiali che popolano e danno senso al nostro mondo). La poesia di Magrelli non parla di labour bensì di work. E sembra parlare anche della natura autoriflessiva dell’essere umano che non può dissociare il fare dal dire, l’azione dal discorso sull’azione in una sorta di circolarità che nella poesia è resa dall’avverbio finale “viceversa” e dalla ringkomposition dei versi centrali:
Si considera ciò che si fa
e si finisce per fare
soltanto ciò che si considera.
Ma perché parlare dello strumento mentre lo si usa sarebbe un difetto? Alla prima lettura la chiave della poesia è girata a vuoto nella mia testa e non ha aperto nessun senso. Quando la poesia non fornisce la chiave, il lettore può restare rassegnato davanti alla porta chiusa oppure può provare a utilizzare un’altra chiave, al limite un passepartout o, nel peggiore dei casi, un grimaldello. Dal mio mazzo di chiavi poetiche estraggo questa del poeta australiano Les Murray:
Il significato dell’esistenza
Ogni cosa tranne il linguaggio
conosce il significato dell’esistenza.
Gli alberi, i pianeti, i fiumi, il tempo
non conoscono altro. Lo esprimono
momento per momento come universo.
Perfino questo stupido corpo
lo vive almeno in parte,
e vi avrebbe piena dignità
non fosse per l’ignorante libertà
della mia mente parlante.
Les Murray, Il significato dell’esistenza, in Un arcobaleno perfettamente normale, trad. Gaetano Prampolini, Adelphi 2004.
PL
2.
LE COSE
Le monete, il bastone, il portachiavi,
la pronta serratura, i tardi appunti
che non potranno leggere i miei scarsi
giorni, le carte da giuoco e gli scacchi,
un libro e tra le pagine appassita
la viola, monumento d’una sera
di certo inobliabile e obliata,
il rosso specchio a occidente in cui arde
illusoria un’aurora. Quante cose,
atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,
ci servono come taciti schiavi,
senza sguardo, stranamente segrete!
Dureranno più in là del nostro oblio;
non sapran mai che ce ne siamo andati.
Jorge Luis Borges, in Elogio dell’ombra (1969), Einaudi, Torino 1971 (traduzione di Francesco Tentori Montalto).
Quando la poesia volge all’epistemologia, è bene rivolgersi al più grande tra i poeti-epistemologi. Las cosas è un celebre testo borgesiano, composto in gran parte da un lungo elenco di oggetti eterogenei, di quelli tanto cari a Michel Foucault. Nel prologo a Elogio dell’ombra, lo stesso Borges ironizzava sul fatto che la sua scrittura si fosse in fondo ormai ridotta a un piccolo numero di “astuzie o abitudini”, riconoscibili al punto da poter essere – anch’esse – elencate. Ci sono molti strumenti, in questo elenco. Danno forma a un universo dai contorni indefiniti, dal quale non sembra possibile, e neppure desiderabile, uscire. “Le monete, il bastone, il portachiavi”. Lime, coppe, chiodi. Un libro. Uno “specchio occidentale”, se seguiamo la recente traduzione Adelphi di Tommaso Scarano. Meditazione sull’oblio? Sulla caducità del pensiero umano di fronte all’indifferenza degli oggetti? Forse. Ma oggi si può leggere Le cose in una prospettiva diversa, post-umanistica, più vicina alle riflessioni contemporanee sulla natura della thingness. Le cose portano una dislocazione dello sguardo, un salto nel registro delle temporalità. Un dubbio sulla natura stessa dell’autore. Un giorno si confonderanno i tempi, le aurore si disferanno come l’acqua nell’acqua, e in qualche modo sarà giusto dire che un oggetto ha scritto questo poema e il poeta – l’effimero poeta – lo ha accettato. FDP
2.
Magrelli descrive l’atto dello scrivere nell’attimo in cui lo sta compiendo. La poesia diventa un gioco dell’io introflesso e introverso. Al centro della riflessione razionale dell’io poetante sono i meccanismi e gli strumenti artigianali dello scrivere, così il testo sembra arrovellarsi su se stesso e non trovare vie d’uscita.
Tra le più antiche manifestazioni artistiche, datate già al paleolitico, c’è proprio la riflessione dell’io sull’io che agisce attraverso il proprio corpo e lascia un segno nel mondo.
Nel sito conosciuto come La Cueva de las Manos, la Caverna delle Mani, nella provincia argentina di Santa Cruz, sono state riconosciute 231 mani dipinte sulle pareti della grotta, realizzate spruzzando attraverso cannucce in osso i pigmenti naturali: si otteneva così l’immagine in negativo dei palmi e delle dita.
A lungo si è tentato di capire i motivi e i significati di tale pratica datata tra i tredicimila e i novemilacinquecento anni fa. Le misurazioni biometriche delle dimensioni delle mani hanno permesso di ritenerle appartenenti ad adolescenti e bambini. L’antropologo Simone Ghiaroni, sulla scia delle teorie del paleobiologo Dale Guthrie, ha ritenuto che “la mano impressa sul muro della caverna non sarebbe altro che una marcatura di presenza, una prova a se stessi e a gli altri del proprio passaggio in quel punto pericoloso, difficoltoso e sconosciuto. Un segno della mano che equivale a un “io sono stato qui”, a un atto deittico che inscrive su una superficie un indice della propria identità”.
Lo strumento della scrittura di Magrelli non è altro dal poeta: lo strumento e l’oggetto che si produce sono il poeta. Questa prova della nostra esistenza è un invito a vivere nelle cose qui e ora, nella prospettiva di rimanere per sempre. Come ci ricorda May Swenson, la poesia, la grotta delle mani, la terra sono il nostro spazio dove danzare:
Che la terra sia il tuo palco
Sotto la cupola celeste
ricordati, mentre cammini
tra androni di nubi, lungo
navate di luce solare
o attraverso cortine di siepi
puro verde acquazzone
che cammini nel mondo
tacchi alti, manto che turbina
mano sull’elsa del tuo
spadaccino orgoglio:
leva alta la testa
e che la vita ti spaventi
Entra ogni giorno
con il tuo passo
su questo palco
illuminato, elevati
in alto come una fiamma
acutizza le narici
fai crepitare gli occhi
fino all’agonia, alla razzia
Allena le mani
come falchi;
rapace o rapito
muovi il corpo
come una muta
di cavalli che
spazza dirupi e praterie
con i suoi miseri zoccoli:
le criniere in fuga
la severità delle membra.
Che la terra sia la tua stanza
il pavimento tappezzato
di raggi stellari; afferra
l’argenteo vento e prendi
spazio: è il tuo turno, danza.
May Swenson. Collected Poems, (edited by Langdon Hammer), Library of America, New York City 2013. (traduzione in https://www.pangea.news/may-swenson-poesie/) SF
2.
Infine crolla
Infine crolla
su se medesimo il discorso,
si sbriciola tutto
in un miscuglio
di suoni in un brusio.
Da cui
pazientemente
emerge detto
il non dicibile
tuo nome. Poi il silenzio,
quel silenzio si dice è la tua voce.
Mario Luzi, Infine crolla, in Dottrina dell’estremo principiante, Garzanti, 2004.
Letto Magrelli, d’impulso ho pensato a Infine crolla di Mario Luzi (da Dottrina dell’estremo principiante).
La riflessione sul linguaggio e sul suo rapporto con la realtà; la crisi della parola; il detto e l’indicibile; il metafisico e il metalinguistico; il paradosso. Questi i contatti, questi stessi i punti di scontro tra i due poeti, tra le due poesie. Pur profondamente diversi – il che forse falsifica la connessione Magrelli-Luzi che può apparire forzata – ho deciso di assecondare l’associazione istintuale e di lasciare che andasse.
Nella poesia luziana, il discorso “crolla su se medesimo” sbriciolandosi in un “miscuglio di suoni”. La parola si rivela incapace di contenere e trasmettere il suo oggetto; si disgrega, si dissolve in un brusio indistinto, in un rumore di fondo che pare ‘dar voce’ alla non-voce del linguaggio. Eppure, nel caos, emerge ciò che non può essere detto, ovvero “il non dicibile”, in bilico tra l’ineffabilità e il tentativo umano di nominare ciò che è irraggiungibile, come il “tuo nome”. La parola diventa uno strumento fragile e potente, che non riesce a dire pienamente, ma che nel suo silenzio paradossalmente si avvicina al senso più profondo della ricerca. Il silenzio “è la tua voce”, è una conclusione mistica che trasforma il ‘crollo’ della parola in rivelazione, in cui il non detto si fa scoperta, aprendosi al trascendente.
Non è parola artigianale quella di Luzi (com’è la parola in Magrelli) ma è parola (o silenzio?) mistica. Eppure, c’è un tema che correla i due poeti ed è in contraddizione con l’atto poetico o che che trova nell’atto poetico stesso il suo senso e superamento: il limite del linguaggio. Se in Luzi il linguaggio si sgretola aprendosi a un contatto con l’assoluto, per Magrelli, il linguaggio rimane chiuso in un meccanismo autoreferenziale. Parola fragile, parola imperfetta che in Luzi va oltre e verso l’oltre per contenere il sacro e il paradosso: dalla parola che si autoalimenta senza saper spiegare il reale, alla parola che va oltre il reale per l’incapacità di saperlo rappresentare e trovare nel silenzio la sua voce ideale. ADM
2.
Per fare una poesia dadaista
Prendete un giornale.
Prendete le forbici.
Scegliete nel giornale un articolo della lunghezza che desiderate per la vostra poesia.
Ritagliate l’articolo.
Ritagliate poi accuratamente ognuna delle parole che Compongono l’articolo e mettetele in un sacco.
Agitate delicatamente.
Tirate poi fuori un ritaglio dopo l’altro disponendoli nell’ordine in cui sono usciti dal sacco.
Copiate scrupolosamente.
La poesia vi somiglierà.
Ed eccovi divenuto uno scrittore infinitamente
originale e di squisita sensibilità, benché incompresa dal volgo.
Tristan Tzara, Per fare una poesia dadaista, in Dada manifesto sull’amore debole e l’amore amaro, 1920, traduzione di Ornella Volta.
Pour faire un poème dadaïste, in Manifeste sur l’amour faible et l’amour amer, letto a Parigi, galerie Povolozky, il 9 dicembre 1920, pubblicato nella rivista “La Vie des Lettres et des Arts”, n°4, 1921.
Una volta mi sono messo in testa di scrivere un sonetto che contenesse le istruzioni per scrivere un sonetto. I passi base, gli elementi minimi, sine quibus non. Una scheda di manuale. Non sono andato molto avanti, l’impresa (degnissima del tentativo, ne sono certo: qualcuno più bravo di me dovrebbe farlo) richiedeva testa e voce più abili e forti dei miei. Ma comunque il modo migliore per capire una cosa è farla, anzi dovrebbe essere la stessa cosa. Per dire, Oliver Sacks ha scritto che l’unico modo per imparare a camminare è camminare, e stava raccontando di quando ha dovuto reimparare a camminare, e lui era uno che studiava come fa il cervello a fare qualsiasi cosa, oltre a scrivere da dio, non so se mi spiego. E poi io vorrei che il mondo fosse fatto di gente che mi fa vedere come si fa. Qualsiasi cosa. (ho dei problemi con l’intelligenza pratica e procedurale, mi piace la gente che mi racconta il suo lavoro, vorrei imparare tutto, etc., etc.) Glenn Gould, che da ragazzino ascoltavo tanto, ora mi pare un po’ una macchinetta, ma va bene, non era di questo che stavo parlando, Glenn Gould, dicevo, che tra l’altro desiderava essere uno scrittore, altro che pianista, oltre che eseguire composizioni altrui ha scritto anche qualcosa di suo. Di musica. Tra l’altro, una fuga per quattro voci e strumenti il cui testo contiene appunto le istruzioni per scrivere una fuga (So you want to write a fugue?, New York, 1964). Un mio compagno di classe, una volta, invece di scrivere durante il compito in classe un tema su Pirandello se ne venne fuori con una novella pirandelliana. Non ricordo se la cosa venne presa bene o male. Ma capito che intendo? Circola una leggenda, pare che Luigi Baldacci dicesse che per studiare il petrarchismo del Cinquecento sarebbe utilissimo insegnare agli studenti a scrivere sonetti in stile petrarchista. Ora non sono sicurissimo ma ho la sensazione che questa roba l’hanno fatta davvero per secoli, a imitare, emulare, scimmiottare, parodiare, tradurre perfino, gli altri, si impara assai. Ultimo fatterello, poi smetto: c’è Filippo Balestra, che è un pazzo furioso, scrittore, poeta, performer, leggete le sue cose, andate a sentirlo, che da un po’ di tempo sta portando in giro un pezzo di improvvisazione incredibile che si chiama Conferenza sulla conferenza, in cui riesce a non parlare di niente dicendo tantissime cose, parlando del fatto che deve parlare di qualcosa, di quella stessa cosa lì… e se ne esce con la testa leggera, ripulita, pronta a ripartire, giuro, come dopo un rumore bianco, “un gigantesco atto di omissione”, “uno spurgo del cranio”. Una cosa molto bella. Sì, mi piacciono le meta-cose, e le cose ricorsive, e pure quelle che finiscono in -ema… ma sto divagando di nuovo, vero? Che stavamo dicendo? Dovevamo parlare di poesia, mi pare. Ecco, sono convinto, convinto, convinto, prove me wrong, che chi legge poesia e ne legge tanta alla fine finirà per provare a farla, anzi per farla e basta (se no io che ci sto a fare?). E se non lo fa, che tristezza. Ragion per cui, sia detto per inciso, non vedo niente di strano nel fatto, lamentato con irrisione da gente, tanta, che profetizza la fine della poesia più che altro nella speranza di restare l’unica a scriverla, non vedo altri motivi, che gli unici a comprare poesia (o a farsela regalare, a regalarla, a barattarla, quello che volete) siano quelli che ne scrivono. E vi pare poco? Se ne leggi, e ne studi, e ne rumini, e ti ci arrovelli, finirai per scriverne. E mi piace moltissimo. Alla fine magari a scrivere quel sonetto di istruzioni ci riprovo. AR
Hanno partecipato: Federica Deo, Chiara Arturo, Pierluigi Lanfranchi, Filippo De Pieri, Simone Foresta, Alessandra Di Meglio, Angelo Restaino.
L’immagine è di Laura Deo
Se desideri partecipare alla rubrica contattaci scrivendo all’indirizzo email: federicadeo@gmail.com
Testi in lingua originale
The Meaning of Existence
Everything except language
knows the meaning of existence.
Trees, planets, rivers, time
know nothing else. They express it
moment by moment as the universe.
Even this fool of a body
lives it in part, and would
have full dignity within it
but for the ignorant freedom
of my talking mind.
*
LAS COSAS
El bastón, las monedas, el llavero,
la dócil cerradura, las tardías
notas que no leerán los pocos días
que me quedan, los naipes y el tablero,
un libro y en sus páginas la ajada
violeta, monumento de una tarde
sin duda inolvidable y ya olvidada,
el rojo espejo occidental en que arde
una ilusoria aurora. ¡Cuántas cosas,
limas, umbrales, atlas, copas, clavos,
nos sirven como tácitos esclavos,
ciegas y extrañamente sigilosas!
Durarán más allá de nuestro olvido;
no sabrán nunca que nos hemos ido.
*
Earth Your Dancing Place
Beneath heaven’s vault
remember always walking
through halls of cloud
down aisles of sunlight
or through high hedges
of the green rain
walk in the world
highheeled with swirl of cape
hand at the swordhilt
of your pride
Keep a tall throat
Remain aghast at life
Enter each day
as upon a stage
lighted and waiting
for your step
Crave upward as flame
have keenness in the nostril
Give your eyes
to agony or rapture
Train your hands
as birds to be
brooding or nimble
Move your body
as the horses
sweeping on slender hooves
over crag and prairie
with fleeing manes
and aloofness of their limbs
Take earth for your own large room
and the floor of the earth
carpeted with sunlight
and hung round with silver wind
for your dancing place
*
Pour faire un poème dadaïste
Prenez un journal
Prenez des ciseaux
Choisissez dans ce journal un article ayant la longueur que vous comptez donner à votre
poème.
Découpez l’article
Découpez ensuite avec soin chacun des mots qui forment cet article et mettez-le dans un
sac.
Agitez doucement
Sortez ensuite chaque coupure l’une après l’autre dans l’ordre où elles ont quitté le sac.
Copiez consciencieusement.
Le poème vous ressemblera.
Et vous voilà “un écrivain infiniment original et d’une sensibilité charmante, encore
qu’incomprise du vulgaire”.
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