
Christiane Veschambre è certamente una delle scrittrici più raffinate e colte della sua generazione. In queste pagine vi proponiamo un estratto dal suo bellissimo libro “Le parole povere” tradotto e curato da Rossella Nicolò e Giancarlo Cavallo per Multimedia Edizioni e pubblicato pochi mesi fa.
Etel Adnan, grande scrittrice libanese e madrina del nostro progetto, apprezzava molto il suo lavoro ed è stata e il tramite per la nostra conoscenza e poi amicizia. Nasce così un interesse e un entusiasmo per la sua scrittura sensuale, lirica, intima, profonda, misurata, profonda, pura, questo suo “tessere silenzio”, questa ricerca essenziale e determinata di se stessa nel mondo, che ci porta nelle profondità imperscrutabili dell’animo umano. Come ha scritto Giancarlo Cavallo (suo traduttore in Italia e che insieme a Rossella Nicolò ha curato questo volume) nel suo bel testo di introduzione al lavoro di Christiane in Potlatch, “un lavoro allo stesso tempo tenue e tenace, fatto di parole apparentemente semplici e di riflessioni profonde”. La foto di copertina è di Olivier Rolle, le altre di Pier Paolo Iagulli. La registrazione è stata realizzata nel corso de “Il cammino delle comete” (Pistoia, 2002).
Vi consigliamo di leggere questo bellissimo libro.
Le parole povere
(Frammenti)
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Ho preparato una crostata di mele. Dopo aver disposto sulla pasta le mele tagliate a fette, e prima di infilare la teglia nel forno, sono uscita sulla soglia di casa con la crostata in mano. L’aria era fredda e limpida. Non era più giorno. I rami neri e nudi del castagno disegnavano una danza immobile nel cielo scuro, segnato da strati malva e grigi. Sulla porta, esattamente una sull’altra la vivida virgola della luna e il luccichio della stella polare. Una luce così dolce e imperiosa. Ho presentato loro in segno di offerta, la crostata di mele, chiedendo per lei una benedizione. Poi sono rientrata e sono riuscita ad accendere il forno della vecchia cucina dopo che era “esploso” una prima volta. E ho aspettato.
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Non posso più cominciare la mia giornata senza leggere una poesia. Prima, non sapevo leggerla. Mi ricordo che mi si dispiegava davanti ma come dall’altro lato di una finestra inviolabile. Nel migliore dei casi, mi colpiva. Pensavo di non essere sufficientemente intelligente per la poesia. Attualmente, mi sembra al contrario che essa sia consenso alla semplicità. Che non chieda altro, a colui che la legge, se non di abbandonarsi. Di lasciarsi andare. Scelgo testi in lingua straniera. Sulla pagina di sinistra è stampata la poesia nella sua lingua, sulla pagina di destra, nella sua traduzione. E ogni mattina, leggo una poesia o due, ad alta voce. Voglio dire: ad alta voce interiore e talvolta anche, per la lingua della poesia, muovendo le labbra e posizionando la mia bocca come per proferirla. Perché, anche se io sono impotente a farla risuonare, la lingua continua a vivere in me. E a sentire così lo spazio interiore della mia bocca variare seguendo i suoni della lingua straniera, quelli che nessuna abitudine mi ha reso familiari, mi restituisce, più forte di prima il sentimento della carne del linguaggio. Soltanto dopo passo alla poesia tradotta. Il senso offerto, allora, mi sembra il figlio possibile, tra gli altri, della mia prima e carnale lettura.
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Dall’altra parte della finestra, aperta, respiro della sera. Canti di uccelli flessibili e dritti come i fiori del castagno. Da questo lato, solo la vita per rispondere loro: la bambina che sono stata.
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Grande rumore nella campagna. Rumore di macchine all’esterno e all’interno. Certamente, bisogna tagliare l’erba, mietere, estirpare i rovi, ricevere la sua famiglia, morire a se stessi. E dopo, agitarsi ancora a lungo come una mosca da un vetro all’altro, ubriaca del suo ronzare. E quando ritorna il silenzio sull’immobilità, i grossi covoni di paglia leggermente posati sul campo, il tronco dell’albero ancorato al suolo, la scia dell’uccello nel cielo, dentro di me la separazione delle acque, finestra calma, prato ingiallito, lasciarsi andare alla solitudine.
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Prima di parlare, bisognerebbe raccogliere nell’oscurità delle palme chiuse sugli occhi lo sgocciolare delle parole povere, ridotte, delle parole senza slancio, impaurite, lo sgocciolare delle piccole parole da cui è assente qualsiasi grazia. Questa è la mia convinzione. Ma quando tolgo le mani dai miei occhi, sono rapita dalla luce del tramonto, nel riquadro della finestra.
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“laggiù, fuori, un gran silenzio
come un dio che dorme”
ha nevicato
tutta la notte, mentre noi dormiamo,
mentre m’immergevo caldamente
nel silenzio immobile della notte
lentamente, minuziosamente
cadevano
migliaia di fiocchi
fini come piuma di pulcino
si affiancavano, si raccoglievano gli uni sugli altri
sull’erba
la strada
gli alberi
le siepi
il pozzo
la grata
la ruota della mola
i recinti
i gradini
sui tetti e i camini
questa mattina mi hai presa
in braccio, mi hai portato come
se fossi un bambino
mi hai condotto nella stanza dove le imposte
erano aperte, mi avevi detto
“tieni gli occhi chiusi”
mi hai detto “apri gli occhi”
e mi hai regalato
tutto l’imprevisto
tutta la distesa
questa pura schiuma
bianca e la luce
tra i rami neri
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L’acqua blu della sera. Circola tra i rami dell’albero. Le foglie dell’albero ondeggiano, impercettibilmente sollevate, sulla coltre d’acqua verticale e immobile.
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Ho dipinto l’acqua blu della sera. Con pazienza e attenzione – quanta ne ho potuta esercitare.
Ti ho mostrato il mio piccolo dipinto.
Tu l’hai guardato a lungo.
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Les Mots pauvres
(extraits)
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L’autre matin je me suis réveillée muette. Je ne m’en suis pas aperçue tout de suite parce que j’étais seule dans la chambre. Je me sentais heureuse de la journée à vivre. Emplie d’un sentiment de liberté et de légèreté. Je me suis étirée en bâillant, sans bruit, je me suis levée, je suis allée décrocher un vêtement dans la salle de bains et je me suis dirigée vers la cuisine où je t’entendais chanter. J’ai poussé la porte, je t’ai souri, tu m’as appelée par mon nom, et je t’ai répondu par le tien. C’est-à-dire que j’ai ouvert la bouche, j’ai formé avec mes lèvres les deux syllabes aimées, et aucun son n’est sorti. Tu as ri, d’abord, de me voir répéter ma mimique silencieuse, tu t’es avancé vers moi pour me prendre dans tes bras et tu t’es arrêté. Tu m’as demandé ce que j’avais, je n’ai pas pu te répondre. Finalement j’ai pris sur le buffet le papier où on inscrit les commissions et j’ai écrit : « Je ne peux plus parler. » Et je me suis mise à pleurer.
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Avant que tu ne partes rendre visite aux malades, je t’ai souri.
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Je me suis sentie soulagée de me retrouver dehors, parce que je m’étais ennuyée, et surtout parce que j’échappais à la forte odeur de cet homme qui sentait, oui c’est ça, qui sentait le chien.
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Je pleure sans bruit, sauf celui des reniflements et des froissements de mouchoirs en papier. Je sanglote silencieusement. J’ai pleuré autant que j’en avais besoin, et j’en avais un besoin très vaste. Je n’avais jamais pleuré en aussi grande quantité, aussi profondément, aussi tristement. Aujourd’hui était une journée d’hiver, il a fait nuit tard le matin, il a fait nuit tôt le soir.
En m’endormant, les narines gercées et les yeux gonflés, j’ai rêvé que j’étais debout sur une étagère du mur, et que sortait de ma gorge le chant d’un oiseau de nuit.
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Cette rêverie a été ma première délivrance.
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Mais mon silence me fait du bien.
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Je ne sais pas pourquoi c’est cette image qui me vient pour dire les émotions qui s’emparent de moi à un rythme irrégulier, imprévisible. Ce ne sont pas des mouvements superficiels, des manifestations de l’émotivité, mais des moments où s’approche le sentiment de la vie. Des moments vifs. Entre deux, c’est temps mort.
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Je pense n’avoir pas eu d’enfance. Cette enfance où l’on est abandonné au surgissement. Je n’ai pas pu être paralysée, ou dévorée, par la peur. Incendiée, décomposée par l’inattendu. J’ai tout de suite paré à l’inconnu. J’ai toujours parlé.
Même quand je ne parlais pas encore. J’ai toujours su que les mots existaient pour conjurer les peurs. Je n’ai pas été abandonnée à l’enfance. Dans la hâte je me suis emparée des mots, dans la hâte et l’application j’ai maîtrisé leur tressage.
Ce qui m’a donné la parole facile. Et efficace, au sens où elle a toujours fait de l’effet. Les mots m’ont mise au-dessus de la peur. Par eux j’ai terrassé, ou séduit par avance, mes ennemis supposés. Transformés en victimes ou en complices avant d’avoir pu me nuire. Selon les circonstances, j’ai su parler aux autres le langage qu’ils attendaient : le leur.
La peur qui me guette, amassée depuis tant de temps derrière le rempart qui s’effrite. La parole m’a quittée, mais pas encore les mots, qui vivent en moi. Me guette une peur puissante, préhistorique, qui m’apprend la peur.
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Et j’ai attendu.
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A présent, il me semble au contraire qu’elle est consentement à la simplicité. Qu’elle ne demande, à celui qui la lit, que de s’abandonner. De se quitter. Je choisis des textes de langue étrangère. Sur la page de gauche est imprimé le poème dans sa langue, sur la page de droite dans sa traduction. Et chaque matin, je lis un poème, ou deux, à haute voix. Je veux dire : à haute voix intérieure et parfois même, pour la langue du poème, en remuant mes lèvres et disposant ma bouche comme pour la proférer. Car, même si je suis impuissante à la faire sonner, la langue continue de vivre en moi. Et de sentir ainsi l’espace intérieur de ma bouche varier suivant les sons de la langue étrangère, ceux qu’aucune habitude ne m’a rendus familiers, me redonne, plus fort qu’avant, le sentiment de la chair du langage. Après seulement j’en viens au poème traduit. Le sens alors offert me semble l’enfant possible, parmi d’autres, de ma première et charnelle lecture.
Il m’arrive même depuis quelques jours une chose étrange. J’ai entrepris la lecture de poèmes russes. Je ne connais rien au russe et les vers sur la page de gauche, alignant les lettres d’un alphabet qui m’est inconnu, étaient appelés à rester entièrement silencieux pour moi. J’ai cependant obstinément commencé chaque matin par parcourir des yeux, guidée par la longueur de chaque vers, la coupe des mots et le signe de ponctuation, la page de gauche avant de me rendre à celle de droite. Et peu à peu j’ai eu l’impression d’entendre le poème, de le lire vraiment en russe, comme si faire ainsi confiance portait sa récompense : sur la page de gauche, le poème m’ouvre à un secret dont, sur la page de droite, je découvre une incarnation.
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De ce côté-ci, seule vie pour y répondre : l’enfant que j’ai été.
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Telle est ma croyance. Mais lorsque j’ôte les mains de devant mes yeux, je suis saisie de la lumière couchée au sol, dans l’encadrement de la fenêtre.
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J’étais allée quelques jours chez mes parents dans la petite ville où, depuis une dizaine d’années, ils passaient leur retraite. Un soir je leur ai annoncé que nous ne dînerions pas dans la salle à manger de leur appartement, que je les invitais au restaurant. C’était l’été. La nuit était douce, légère, quand nous nous sommes assis autour d’une des tables disposées à la terrasse du meilleur établissement de la ville. Le vaste feuillage d’un large et haut platane flottait au-dessus de nous, une petite fontaine à l’éclairage soigné fredonnait à côté. A ma droite, ma mère, vêtue d’un petit gilet blanc en crochet et d’une robe à fleurs, attendait, passive comme une petite fille que sa mère entraînerait dans un endroit inconnu mais accueillant. Devant moi, mon père tentait de regarder tout autour de lui, n’osant bouger ni corps ni tête, les avant-bras posés droits sur les accoudoirs du fauteuil. Tous deux étaient fluets, silencieux, émouvants. Ce que ressentit la jeune serveuse qui nous apporta les apéritifs commandés et les petites friandises qui les accompagnaient. Ses mots simples et gentils, puis l’alcool dégusté, l’air tiède, détendirent mes parents qui commencèrent à parler. Nous disions notre plaisir du joli décor, de la belle soirée, de l’apéritif. Alors mon père, coude à présent posé sur la table et visage tourné vers sa femme:
“Ça fait longtemps qu’on regardait ici, en passant, mais on avait peur, hein Maman?”
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comme un dieu qui dort »
il neige
toute la nuit, pendant que nous dormions,
pendant que je m’enfonçais chaudement
dans le silence immobile de la nuit
lentement, minutieusement
chutaient
des milliers de flocons
fins comme du duvet de poussin
venaient s’accoler, se recouvrir les uns les autres
sur l’herbe
la route
les arbres
les haies
le puits
la grille
la roue de la meule
les clôtures
les marches
sur les toits et les cheminées
ce matin tu m’as prise dans
tes bras, tu m’as portée comme
si j’étais un enfant
tu m’as amenée dans la pièce où les volets
étaient ouverts, tu m’avais dit
« garde les yeux fermés »
tu m’as dit « ouvre les yeux »
et tu m’as fait cadeau
de tout l’inattendu
de toute l’étendue
cette pure mousse
blanche et de lumière
entre les rameaux noirs
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Je t’ai montré ma petite peinture.
Tu l’as longtemps regardée.
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Christiane Veschambre: “Le parole povere”
Traduzione e cura: Rossella Nicolò e Giancarlo Cavallo
Collana “Tracce”
Multimedia Edizioni, 2024
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