Secondo la Teoria del Mondo Piccolo tra due qualsiasi oggetti, punti o persone vi sono non più di sei gradi di separazione. Così ipotizzava nel 1929 lo scrittore ungherese Frigyes Karinthy nel racconto uscito anonimo Catene. Sette poesie, sei gradi e un solo racconto tessuto a quattordici mani: questa la nostra rubrica in Potlatch.
La seconda puntata si compone di due parti: due narrazioni partono dallo stesso punto per sfociare, dopo un lungo percorso, in lande distanti ma a tratti confinanti.
1.
Icarus Shot Down
Le persone che sfondano le porte del tuo mondo
Le persone che perdono tempo con numeri e segni
La metà annuncia una tempesta
il resto elemosina il prosciutto davanti agli occhi
Alla tua porta e ai tuoi piedi
si raccolgono per lasciarti colla e stelle
assieme per renderti mezzo completo
e pagarti per sborrare in vecchi vasetti di marmellata
Graham Lambkin (2015), in Came to Call Mine, Penultimate Press (trad. RG).
Ho vacillato per alcuni giorni nella scelta di questa poesia. Non facevo altro che andare avanti e indietro tra Came to Call Mine (il libro da cui sono tratti questi versi) e una manciata di trascrizioni di poesia espressionista delle cui traduzioni mi fido. Non ce n’è di molto buone in giro di traduzioni dal tedesco di poesia espressionista. Ho indugiato di più su Caffè di notte di Gottfried Benn, e parevo essermi convinto. Ma poi ho ritrovato a qualche passo da me un sentimento di doppiezza e di rancore, che ciclicamente si conferma come fondativo nella mia vita. Più di quanto non voglia ammettere. È proprio questa vertigine, questa separazione tra l’individuo spezzato e il suo contesto, questo forte centro gravitazionale in cui è tanto difficile determinare se si è giudicati da tutti o si sta giudicando tutto o entrambe le cose, se si è indifferenti o meno, che mi ha guidato nella scelta. Sia chiaro, questa è solo la mia personale interpretazione di questi versi decisamente oscuri.
La poesia di Lambkin è al contempo cupa e celebrativa. È il ritratto stesso della sua personalità indescrivibile. La sua attività inizia a Cheriton, Kent, Inghilterra, all’inizio degli anni ’90 con una band di amatori, The Shadow Ring. Senza rendersene conto, i tre ragazzi disillusi stavano mettendo in piedi una miscela di folk, cracked electronics e spoken word fatto di arguzie verbali surrealiste che sarebbe diventata seminale di lì a poco. Nel lavoro di Graham, soprattutto nella sua produzione sonora, la voce e il testo hanno un ruolo centrale quanto scomodo. Si siedono ai margini dello spazio. Si tratta di parole di difficile comprensione, come fuori campo, cascate per sbaglio in un vecchio filmino di famiglia. Voci che si mischiano come scarabocchi di infante, con gli scricchiolii di una casa messa male, con i rumori radi e noiosi di una strada di periferia. Si mischiano con la narrazione di eventi poveri, cose qualsiasi, prese da youtube. Si agglomerano per diventare masse molli di suono. Un suono chiuso ad anello, che ritorna. Le prima volte che ascoltavo un suo disco o lo leggevo mi pareva che il reale si sciogliesse appena un po’. Io ho sempre ritenuto che le sue parole, un po’ mitologiche e un po’ no, si comportassero come amplificatori rispetto ad una mia condizione personale, che mi sembra di portare nel taschino da sempre per quanto mi inorridisca.
La sensazione di essere cascato anche io per sbaglio in un filmino di famiglia che è la mia vita. RG
2.
Un inno
Con quella qualità dei grandi pugili:
incassare e rimanere
saldi,
ingurgitare grappa dalla bottiglia
aver preso sbornie
sub e super atomiche,
lasciare i sandali
sul bordo del cratere come Empedocle
e poi giù a capofitto,
non dire: ritorno
non pensare: mezzo e mezzo,
mollare i tumuli delle talpe
ai nani che vogliono farsi grandi,
pranzare allround a casa propria
non scindersi
e saper dar via anche la vittoria –
un inno a un uomo siffatto.
Gottfried Benn, Un inno (1950/51), in Frammenti e distillazioni, Einaudi, 2004.
L’incompiutezza umana. La necessità di sentirsi parte di un sistema nel quale riconoscersi; riflettersi nell’altro e aprirsi al mondo, alle persone ‘che sfondano le porte’ o che ‘perdono tempo con numeri e segni’; sentirsi completi ed esorcizzare il sentimento – tutto umano – della propria profonda fragilità e della solitaria precarietà; svendersi in un atto d’amore fisiologico divenuto meccanico e svuotarsi della poesia del gesto.
Opposto a quello di Lambkin è – all’apparenza – l’uomo da Benn della poesia ‘Un inno’.
E di inno si tratta, di una preghiera celebrativa intonata da Benn all’uomo capace di incassare e rimanere saldo, che come Empedocle contende con i propri limiti e si getta nell’Etna a dimostrazione della propria natura divina; superuomo distante dalla mediocre sfera umana (‘mollare i tumuli delle talpe/ai nani che vogliono farsi grandi’) e che non rischia di scindersi (diversamente dall’uomo ‘mezzo completo’ di Lambkin), ma che veste i panni di chi è capace di rianimare la solitudine nella solitudine della propria grandezza.
Eppure l’ultimo verso, ‘un inno a un uomo siffatto’, sembra tradire la possente celebrazione e disvelare un retro senso di amara utopia. Come se Benn prendesse distanza dall’uomo capace a: ‘incassare’, ‘rimanere saldo’, ‘ingurgitare grappa’, ‘non dire’, ‘non pensare’, ‘mollare i tumuli alle talpe’, etc. con una sequela di infiniti che portano la dimensione temporale al grado zero dell’umanità e a quello eterno dell’infinità divina. Una natura, quella divina, che Benn sa non appartenere all’uomo, né all’uomo del suo tempo: un uomo ‘non’ siffatto, ma poeticamente antifrastico.
La matrice darwinistica tipica di Benn interrompe il ciclo evolutivo.
Ed ecco che in Benn la Ringkomposition si chiude con la ricollocazione dello sguardo su quell’uomo ‘a pezzi’, ‘mezzo completo’, privato di ogni spessore e che – pur celato – riemerge dal fondo dei suoi versi vestito di ogni fragilità. ADM
3.
Who’s Who
Una biografia da pochi soldi vi darà tutti i fatti:
come il padre lo picchiava, come fuggì di casa,
quali le lotte della sua giovinezza, quali atti lo fecero
la più grande figura dei suoi giorni; com’egli combatteva,
andava a caccia, a pesca, lavorava tutta la notte,
benché stordito, scavalcava nuove montagne; diede nome a un mare;
Alcuni fra gli ultimi studiosi scrivono persino
che l’amore gli fece versare le sue brave lacrime come a voi e a me.
nonostante gli onori, sospirava per una
che, dicono meravigliati i critici, viveva in casa;
faceva piccoli lavori domestici abilmente
e null’altro; sapeva fischiare; amava sedere tranquilla
o girellare nel giardino; rispose a alcune delle sue lunghe
lettere meravigliose, ma non ne tenne una.
Wystan Hugh Auden, Who’s who, in Collected Shorter Poems, 1927-1957, Faber & Faber, 1966.
Vuoi dire come Jack La Motta? Davvero si può bere la grappa dalla bottiglia? Non è maleducato? L’assessore di Monterotondo mi chiese se sapessi se la grappa andasse bevuta prima o dopo il caffè; io chiamai il mio amico Raffaele per chiedere consiglio, lui mi disse che si trattava chiaramente di una domanda trabocchetto, che avrei dovuto rispondere: “Né prima né dopo, ma dentro il caffè!” ma quando dissi all’assessore che la sua era una domanda trabocchetto e che la risposta era: “Né prima né dopo ma dentro il caffè!” l’assessore mi disse che la grappa dentro il caffè è una cosa da beceri ubriaconi e avvinazzati squallidi che bevono una grappa di scarsa qualità e la risposta esatta era prima E dopo il caffè: prima perché la grappa deve richiamare il vino che hai bevuto durante il pasto e dopo perché bisogna pur sempre bere un ammazzacaffè; senza trascurare il fatto che così facendo di grappa ne puoi bere il doppio. Che differenza c’è tra le sbornie sub atomiche e quelle super atomiche? Che relazione c’è con le sbornie malinconiche e quelle euforiche? E con quelle solitarie e quelle di gruppo? Si è poi appurato perché Empedocle si tolse il sandalo prima di buttarsi nell’Etna? Per rassicurare i suoi discepoli o per turbare i posteri? O fu il vulcano a sputarlo? O Vulcano? Ma, soprattutto, che rapporto c’è tra il sandalo di Empedocle e la scarpetta di Cenerentola? Dire ritorno come Ulisse? Pensare mezzo e mezzo come Salomone? All around o all you can eat? Saper dar via anche la vittoria non è un consiglio che darebbe a suo figlio Kipling? Che cosa fa di un uomo un uomo? E che cosa fa di un uomo un uomo siffatto? Perché i padri picchiano i figli e perché i figli fuggono di casa? I padri picchiano i figli perché i figli fuggono di casa o i figli fuggono di casa perché i padri li picchiano? Puoi nominare i mari e scavalcare i monti, ma se non hai l’amore, che cosa sei? Perché colei che fischia e non sospira di lettere non ne tenne neppure una? Non basta la meraviglia a salvarle dall’oblio? E se non basta, che cosa allora basterà? Quelle brave lacrime, pinte di lacrime, sono più o meno inebrianti della grappa? AMP
4.
II
Sarai ancora carne,
tu sarai quaggiù
poco prima del diecimila
nel settentrione capovolto
sarai innumerevoli volte
attraverso la cute
mondo nel mondo che sfrange
sotto piomba
si prosciuga.
Innumerevoli passaggi di luce virgole
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaparentesi quadre
tu sarai ed era ieri.
Ti aspetteranno poco prima del diecimila,
riapparirai in un punto imprecisato di luce,
un lampo senza freddo,
non io che forse domani.
Non avere paura
copriti la testa
non cadere
non lasciare lacrime né dolcezze
aaaaaaaaaaaaasul punto esatto dove esisterai.
Ascolta il remoto molecolaio di vene,
a ragion della new economy,
nei rosari perduti del proprio outdoor.
Siamo nella luce organica
siamo nascosti dove riappare
l’unico fondo umano.
Si è ricomposta la scena dove nascesti…:
ossa sulla battuta di caccia
la strada restringe.
Si è ricomposta la scena dove nascesti…:
TU nella gelata galassia,
ossa decomposte nell’addome delle cose.
Il tuo sangue si sparge nell’universo.
Nel profondo buio dove esisti ancora.
Salvatore Etre Borrelli, in Non Ancora Silenzio, NMZ Edizioni, 2019.
Leggendo la poesia di W.H. Auden sia nella traduzione italiana che nella versione originale inglese non si può fare a meno di notare un’enorme differenza a livello percettivo.
Un traduttore, si sa, dovrebbe sempre cercare di rispettare la neutralità di genere caratteristica di alcune lingue, evitando così il rischio che le proprie categorie di pensiero vengano proiettate, in fase di traduzione, direttamente sul ricevente (il lettore), tanto da veicolarne o addirittura confonderne le personali categorie interpretative e immaginative (soprattutto se proprio l’autore del testo ha volutamente evitato una caratterizzazione precisa).
Tale accortezza è maggiormente necessaria nella traduzione del linguaggio poetico, il linguaggio più libero per eccellenza, il linguaggio lirico, che attiene alle sensazioni, alle percezioni, a qualcosa di immateriale.
Il titolo stesso “Who’s Who” apre infinite possibilità, così come fa il testo della poesia di Salvatore Etre Borrelli, in cui non sappiamo “chi è chi”, chi è quel “tu”. Possiamo solo sapere chi è “io” (l’autore) e chi è “noi” (lettori), il resto è lasciato al nostro sentire. La poesia per me è esattamente questo: un’immagine che si ricompone solo davanti ai miei occhi, così come una galassia si compone liberamente nell’universo, un’immagine che è sempre profondamente incomunicabile. FG
5.
Una vita all’istante
Una vita all’istante.
Spettacolo senza prove.
Corpo senza modifiche.
Testa senza riflessione.
Non conosco la parte che recito.
So solo che è la mia, non mutabile.
Il soggetto della pièce
va indovinato direttamente in scena.
Mal preparata all’onore di vivere,
reggo a fatica il ritmo imposto dell’azione.
Improvviso, benché detesti improvvisare.
Inciampo a ogni passo nella mia ignoranza.
Il mio modo di fare sa di provinciale.
I miei istinti hanno del dilettante.
L’agitazione, che mi scusa, tanto più mi umilia.
Sento come crudeli le attenuanti.
Parole e impulsi non revocabili,
stelle non calcolate,
il carattere come un capotto abbandonato in corsa –
ecco gli esiti penosi di tale fulmineità.
Poter provare prima, almeno un mercoledì,
o replicare ancora una volta, almeno un giovedì!
Ma qui già sopraggiunge il venerdì
con un copione che non conosco.
Mi chiedo se sia giusto
(con voce rauca,
perché neanche l’ho potuta schiarire tra le quinte).
Illusorio pensare che sia solo un esame superficiale,
fatto in un locale provvisorio. No.
Sto sulla scena e vedo quant’è solida.
Mi colpisce la precisione di ogni attrezzo.
Il girevole è già in funzione da tempo.
Anche le nebulose più lontane sono state accese.
Oh, non ho dubbi che questa sia la prima.
E qualunque cosa io faccia,
si muterà per sempre in ciò che ho fatto.
Wislawa Szymborska, Una vita all’istante (1976), in La gioia di scrivere. Tutte le poesie, Adelphi 2009.
Una suggestione subitanea ha fatto riecheggiare nella mia memoria “Una vita all’istante” della Szymborska sin dalla prima lettura di “Non ancora silenzio”.
Probabilmente ciò che per me le lega è una sensazione di tempo fuori dal tempo, di attimi che si fanno eternità pur rimanendo non dimentichi dell’effimero che li contraddistingue. Così come i gesti che paiono segnare nel presente ciò che, poi, inevitabilmente sarà.
Il Tu sarai ed era ieri di Borrelli sembra così fare eco ai due versi di chiusura della seconda poesia E qualunque cosa io faccia, / si muterà per sempre in ciò che ho fatto.
La rarefazione delle azioni che abita il primo testo e che rimanda ad una distopia possibile e – a tratti – inevitabile, stride con la fissità inquieta delle scene del secondo, dove domina una ineluttabilità quasi violenta. Eppure le due atmosfere si somigliano. Ai resti e detriti dell’una corrispondono le ansie nervose dell’altra. La metafora, in fondo, è la medesima. E si tratta della vita. Della propria storia che si intreccia con una Storia maiuscola e ingombrante che segna un destino, da qualunque prospettiva la si guardi.
Della propria storia che in un caso assume il sembiante di una palingenesi (Riapparirai in un punto imprecisato di luce, / un lampo senza freddo) e nell’altro di un debutto:
Sto sulla scena e vedo quant’è solida.
Mi colpisce la precisione di ogni attrezzo.
Il girevole è già in funzione da tempo.
Anche le nebulose più lontane sono state accese.
Oh, non ho dubbi che questa sia la prima. ALT
6.
Il Gesto
Non è vero che non successe nulla
quando tirasti fuori la mano dalla tasca
e a braccio teso tagliasti l’aria
da sinistra a destra
dall’alto verso il basso
successe che a braccio teso
tagliasti l’aria
e ciò ebbe il suo peso
l’aria non è più come prima
è tagliata.
Bartolo Cattafi, Il Gesto, in L’aria secca del fuoco, Mondadori 1971.
Chiaro il tema comune. Lampante anche la separazione. Timore di: disattendere le attese, non reggere la scena, errare, fallire, mancare, eseguire male. Temere conseguenze inauspicate. Da un lato. Dall’altro timore d’impotenza. Paura, angoscia disegnano il dominio comune. Il segno è opposto.
Non c’è gioco in questi sentimenti schiacciati dal peso macignico di un futuro già presente. Dove l’eccitazione? Dove il desiderio? La maga Circe li ha tramutati in porci. Ma chi è la maga Circe? Esiste ancora Don Chisciotte? E i mulini a vento?
*
Mi piacerebbe partire da “e qualunque cosa io faccia, | si muterà per sempre in ciò che ho fatto” per arrivare assolutamente da nessuna parte. E invece scivolo nell’aria tagliata da Cattafi con il braccio teso. Scivolo e accanto a me Magrelli mi sussurra nell’orecchio sinistro le parole: “e sto dove non stavo | dove prima soffiavo”. Ma non lo ascolto, lo ignoro. Ciò a cui invece non riesco a smettere di pensare è Anna Karina che, in Vivre sa vie, inclinando la testa a destra, afferma di essere sempre responsabile (Je tourne la tête vers la droite, je suis responsable). E libera.
Potremmo arrivare a indugiare sul tempo che muta da un futuro futuribile (“qualunque cosa io faccia”) a un passato ancora troppo prossimo per non lasciar traccia nel presente (“ciò che ho fatto”), oppure ancora potremmo arrivare a indugiare sul contesto a cui entrambe le poesie rispondono: a chi parla Cattafi quando afferma “Non è vero che non successe nulla”? Chi è in scena oggi sul palco con la Szymborska? Chi la osserva, vive ed esprime giudizio? E chi è chi? Quanto io zittiamo e a quanto invece concediamo parola? “Mi contraddico? certo che mi contraddico! Sono vasto, contengo moltitudini” ci ricorda il poeta coraggioso.
Ma in realtà non so mettere bene a fuoco l’immagine e mi ossessiona un dettaglio, un dettaglio solo: mi piacerebbe partire da “e qualunque cosa io faccia, | si muterà per sempre in ciò che ho fatto” per non arrivare assolutamente da nessuna parte, per arrivare a stare. Mi ossessiona il presente. FD
7.
È vero che non è vero che non successe nulla.
Ogni gesto accade, e resta, anche quando le sue conseguenze sono intangibili o negate. L’intenzionalità è chiara, la scelta di agire e la via per farlo anche; secondo la precisa e fortunata definizione di Kant, da Antropologia pragmatica, al gesto non è quindi concessa nessuna giustificazione, nessuna casualità da incolpare, in quanto la mano che lo compie è “cervello esteriore dell’uomo”, espressione del pensiero, della coscienza, della volontà.
Il gesto è sviscerato da Galimberti nel suo lavoro su Il corpo, spiegandoci che non è mera reazione, riflesso nervoso ad uno stimolo esterno, piuttosto è risposta, consapevole quindi, e ben direzionata, “risposta del corpo ad un mondo che lo impegna”. E tale impegno richiede responsabilità, ed assunzione del senso dell’azione, e dei suoi effetti.
La scelta della via in cui compiere il gesto allo stesso tempo da un lato portatrice di tutto ciò che si è, di tutto ciò che si sa, e di tutto ciò che si vuole che di sé vada nel mondo, dall’altro è modo in cui in questo mondo ci si vuole conformare. Nella morbidezza o nella violenza del gesto è scritto tutta la storia del rapporto che col mondo si instaura. Quello che si prende e quello che si offre.
Comprendere un gesto non è solo sminuzzarlo, frammentarlo, e osservarlo nelle sue componenti, nei suoi ingranaggi e nella sequenza della pura azione; è piuttosto scavare e arrivare al senso di esso, alla relazione tra soggetto e mondo. Mondo fisico, ma anche condizione e compresenza di fattori, interazioni, di altri corpi, e altri gesti.
E ancora “non è il corpo che dispone di gesti, ma sono i gesti che fanno nascere un corpo dall’immobilità della carne”. È il gesto, la sua presenza, ad avere vita, a compiere una parabola che va dalla nascita alla morte, che segue la traiettoria dell’azione, e con essa si esaurisce, lasciando nel mondo il suo portato.
—
Calvino curò un’edizione di poesie di Pavese, includendone alcune inedite all’epoca, di cui visionava e trascriveva i fogli manoscritti. Per Fine della fantasia descrive un testo molto sofferto, pieno di correzioni, dal senso oscuro, chiarificato solo dal titolo, che ne trasforma la scena in tavola allegorica. È il poeta a faticare sulla pagina come fosse terra, e a trovarla arida, perché è la vita, quella vissuta, fatta di gesti, di mani e di corpi, che manca, e che alimenta la creazione, di poesie, di pensieri, e poi, in circolarità, di nuovo la vita stessa, e la sua recita.
Viva mano che sente la vita se tocca.
Fine della fantasia
Questo corpo mai più ricomincia. A toccargli le occhiaie
uno sente che un mucchio di terra è più vivo,
ché la terra, anche all’alba, non fa che tacere in se stessa.
Ma un cadavere è un resto di troppi risvegli.
Non abbiamo che questa virtù: cominciare
ogni giorno la vita – davanti alla terra,
sotto un cielo che tace – attendendo un risveglio.
Si stupisce qualcuno che l’alba sia tanta fatica;
di risveglio in risveglio un lavoro è compiuto.
Ma viviamo soltanto per dare un brivido
al lavoro futuro e svegliare una volta la terra.
E talvolta ci accade. Poi torna a tacere con noi.
Se a sfiorare quel volto la mano non fosse malferma
– viva mano che sente la vita se tocca –
se davvero quel freddo non fosse che il freddo
della terra, nell’alba che gela la terra,
forse questo sarebbe un risveglio, e le cose che tacciono
sotto l’alba, direbbero ancora parole. Ma trema
la mia mano, e di tutte le cose somiglia alla mano
che non muove.
Altre volte svegliarsi nell’alba
era un secco dolore, uno strappo di luce,
ma era pure una liberazione. L’avara parola
della terra era gaia, in un rapido istante,
e morire era ancora tornarci. Ora, il corpo che attende
è un avanzo di troppi risvegli e alla terra non torna.
Non lo dicon nemmeno, le labbra indurite.
Cesare Pavese, Fine della fantasia (1962), in Poesie edite e inedite, Einaudi.
NF
Hanno partecipato: Renato Grieco, Alessandra di Meglio, Alfonso Maria Petrosino, Francesca Garofano, Antonia La Torre, Federica Deo, Nicoletta Faccitondo.
In copertina Cicli in_terra, di Francesca Iarrusso.
Se desideri partecipare alla rubrica contattaci scrivendo all’indirizzo email: renatog.federicad@gmail.com
Testi in lingua originale:
Icarus Shot Down
People busting down the doors of your world
People messing about with numbers and signs
Half are talking up a storm
the rest are begging for bacon rind
At your door and at your feet
they gather to leave you glue and stars
together to make you half complete
and pay you to cum in old jam jars
Eine Hymne
Mit jener Eigenschaft der großen Puncher:
Schläge hinnehmen können
Stehn,
Feuerwasser in der Kehle gurgeln
sub- und supraatomar
dem Rausch begegnet sein,
Sandalen
am Krater lassen wie Empedokles
und dann hinab,
nicht sagen: Wiederkehr
nicht denken: halb und halb,
Maulwurfshügel freigeben
wenn Zwerge sich vergrößern wollen,
allroundgetafelt bei sich selbst
unteilbar
und auch den Sieg verschenken können –
eine Hymne solchem Mann.
Who’s who
A shilling life will give you all the facts:
How Father beat him, how he ran away,
What were the struggles of his youth, what acts
Made him the greatest figure of his day;
Of how he fought, fished, hunted, worked all night,
Though giddy, climbed new mountains; named a sea:
Some of the last researchers even write
Love made him weep his pints like you and me.
With all his honours on, he sighed for one
Who, say astonished critics, lived at home;
Did little jobs about the house with skill
And nothing else; could whistle; would sit still
Or potter round the garden; answered some
Of his long marvellous letters but kept none.
Życie na poczekaniu
Życie na poczekaniu.
Przedstawienie bez próby.
Ciało bez przymiarki.
Głowa bez namysłu.
Nie znam roli, którą gram.
Wiem tylko, że jest moja, niewymienna.
O czym jest sztuka,
zgadywać muszę wprost na scenie.
Kiepsko przygotowana do zaszczytu życia,
narzucone mi tempo akcji znoszę z trudem.
Improwizuję, choć brzydzę się improwizacją.
Potykam się co krok o nieznajomość rzeczy.
Mój sposób bycia zatrąca zaściankiem.
Moje instynkty to amatorszczyzna.
Trema, tłumacząc mnie, tym bardziej upokarza.
Okoliczności łagodzące odczuwam jako okrutne.
Nie do cofnięcia słowa i odruchy,
nie doliczone gwiazdy,
charakter jak płaszcz w biegu dopinany –
oto żałosne skutki tej nagłości.
Gdyby choć jedną środę przećwiczyć zawczasu,
albo choć jeden czwartek raz jeszcze powtórzyć!
A tu już piątek nadchodzi z nie znanym mi scenariuszem.
Czy to w porządku – pytam
(z chrypką w głosie,
bo nawet mi nie dano odchrząknąć za kulisami).
Złudna jest myśl, że to tylko pobieżny egzamin
składany w prowizorycznym pomieszczeniu. Nie.
Stoję wśród dekoracji i widzę, jak są solidne.
Uderza mnie precyzja wszelkich rekwizytów.
Aparatura obrotowa działa od długiej już chwili.
Pozapalane zostały najdalsze nawet mgławice.
Och, nie mam wątpliwości, że to premiera.
I cokolwiek uczynię,
zamieni się na zawsze w to, co uczyniłam.
Lascia un commento