Secondo la Teoria del Mondo Piccolo tra due qualsiasi oggetti, punti o persone vi sono non più di sei gradi di separazione. Così ipotizzava nel 1929 lo scrittore ungherese Frigyes Karinthy nel racconto uscito anonimo Catene. Sette poesie, sei gradi e un solo racconto tessuto a quattordici mani: questa la nostra rubrica in Potlatch.
La sesta puntata si compone di due parti: due narrazioni parallele prendono vita dalla poesia di Peter Handke scritta per il film dell’amico Wim Wenders, articolando discorsi e immaginari che fanno eco al celebre verso Quando il bambino era bambino ponendo, al termine, un punto di domanda.
1.
Elogio dell’infanzia
Quando il bambino era bambino,
camminava con le braccia ciondoloni,
voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente
e questa pozzanghera il mare.
Quando il bambino era bambino,
non sapeva di essere un bambino,
per lui tutto aveva un’anima
e tutte le anime erano un tutt’uno.
Quando il bambino era bambino
non aveva opinioni su nulla,
non aveva abitudini,
sedeva spesso con le gambe incrociate,
e di colpo si metteva a correre,
aveva un vortice tra i capelli
e non faceva facce da fotografo.
Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
perché io sono io, e perché non sei tu?
perché sono qui, e perché non sono lì?
quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?
la vita sotto il sole è forse solo un sogno?
non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo
quello che vedo, sento e odoro?
c’è veramente il male e gente veramente cattiva?
come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare,
e che, una volta, io, che sono io,
non sarò più quello che sono?
Quando il bambino era bambino,
si strozzava con gli spinaci, i piselli, il riso al latte,
e con il cavolfiore bollito,
e adesso mangia tutto questo, e non solo per necessità.
Quando il bambino era bambino,
una volta si svegliò in un letto sconosciuto,
e adesso questo gli succede sempre.
Molte persone gli sembravano belle,
e adesso questo gli succede solo in qualche raro caso di fortuna.
Si immaginava chiaramente il Paradiso,
e adesso riesce appena a sospettarlo,
non riusciva a immaginarsi il nulla,
e oggi trema alla sua idea.
Quando il bambino era bambino,
giocava con entusiasmo,
e, adesso, è tutto immerso nella cosa come allora,
soltanto quando questa cosa è il suo lavoro.
Quando il bambino era bambino,
per nutrirsi gli bastavano pane e mela,
ed è ancora così.
Quando il bambino era bambino,
le bacche gli cadevano in mano come solo le bacche sanno cadere,
ed è ancora così,
le noci fresche gli raspavano la lingua,
ed è ancora così,
a ogni monte,
sentiva nostalgia per una montagna ancora più alta,
e in ogni città,
sentiva nostalgia per una città ancora più grande,
ed è ancora così,
sulla cima di un albero prendeva le ciliegie tutto euforico,
com’è ancora oggi,
aveva timore davanti a ogni estraneo,
e continua ad averlo,
aspettava la prima neve,
e continua ad aspettarla.
Quando il bambino era bambino,
lanciava contro l’albero un bastone come fosse una lancia,
che ancora continua a vibrare.
Peter Handke, Elogio dell’infanzia, dalla sceneggiatura di Il cielo sopra Berlino, 1987.
Quando la tristezza si fa spazio, quando il mondo sembra prendersi gioco del mondo, quando nulla è chiaro e tutto si perde nella foschia del tempo perduto o del tempo ignoto, leggere questo “Elogio dell’infanzia” che il poeta e romanziere austriaco Peter Handke scrisse nel 1987 per la sceneggiatura di uno dei più grandi capolavori del cinema, “Il cielo sopra Berlino” diretto da Wim Wenders, regala un lieve sorriso. FC
2.
Anima rossa
Era bambina e la testina bruna
Quella sera vegliava…
E tra le siepi il raggio della luna
Un sogno mite all’ombra ricamava.
«Mamma», disse, d’un tratto, dolcemente:
«Che cosa è dunque il mondo?
Perché s’allarga e s’agita la mente
E il cuor diventa sempre più profondo?».
Ella rispose, cuore contro cuore:
«Per amare, piccina.
Non senti attorno attorno quanto amore
S’alza e divampa e l’anima trascina?»
Più tardi, adolescente, ella sentiva
Nel collegio remoto,
Mentre dal Tronto un alito saliva
E della vita l’affannava il vuoto,
Balzar, d’un tratto, la domanda antica:
«Che cosa è dunque il mondo?
Perché si lotta invano e si fatica
E il vuoto si fa sempre più profondo,
E l’essere si frange e s’avventura
Ne le trame fiorite
E l’anima s’angoscia e s’impaura
E serba aperte tutte le ferite?».
«Perché vita è l’amore e tu, purezza,
Apri la mente al sole,
Di canti adorna intatta giovinezza,
Da’ campi strappa fasci di viole».
Ma quando alla ribalta ella si fece
Della scena sognata,
E della gioia e dell’amore invece
Sentì l’assillo d’anima affannata,
E vide regge maestose, altere,
Nei tramonti dorati,
Sognanti baci delle pure sere
Sopra giardini vasti e imbalsamati,
E soffitte poi vide ed il tormento
D’antri luridi, impuri,
Miseria, fame e sibilo di vento
E fonde piaghe di martirî oscuri,
E gemme, argento e seriche vestaglie
E schiamazzi di feste,
E cenci, angosce e lacrime e gramaglie
E serti d’oro su le bionde teste,
Questa, disse, è la vita e noi si vive
Per vederci soffrire:
Questa è, dunque, la vita e noi si vive
Per puntellare i troni e poi morire.
Schiavi e vigliacchi noi, che assecondiamo
D’essere cenci e strame,
Bruti ammansati noi, che l’accettiamo
Il nodo acerbo di catene infame.
E verso il sole alzò la pura fronte
E disse: «Alla riscossa»
Gettò dal mare, a la pianura, al monte
La sfida calda di giornata rossa.
Virgilia d’Andrea, Anima Rossa, Firenze, 1919.
Se è vero che il ramo scagliato come lancia dal bambino di Peter Handke vibra ancora, vibra in una tensione tutta individuale, e in buona parte disillusa. Se ancora l’adulto aspetta la neve come allora, è però immerso nel lavoro, e del Paradiso ha ormai solo il sospetto. Alle domande di quel bambino affianco le domande di un’altra bambina, Virgilia D’Andrea.
Virgilia D’Andrea nasce a Sulmona nel 1888. Dopo l’infanzia trascorsa in collegio, matura un amore purissimo per l’idea anarchica, alla cui propaganda dedicherà la vita negli anni fra lo sciopero del pane, il piombo del “feroce monarchico Bava”, i colpi di rivoltella di Gaetano Bresci, la guerra, il biennio rosso, la reazione fascista. Una vita segnata dall’incontro con il sindacalista anarchico Armando Borghi, dalla militanza nell’Unione Sindacale Italiana che le costerà la galera e la costringerà all’espatrio prima in Francia e poi in America. Nel contesto di quegli anni il suo rievocare i giorni dell’infanzia non può rimanere elegia. Il ricordo dei cortili della sua giovinezza e della solitudine del collegio esce dalla dimensione individuale, si arricchisce di una coscienza di classe e si trasforma, attraverso la sensibilità altissima di Virgilia per le sofferenze degli sfruttati, in appello alla rivolta. Per noi oggi, i versi di Virgilia sono insieme documento storico di quelle lotte e sfida sempre rinnovata e attuale ai potenti della terra. Nella prefazione alla prima edizione della raccolta Tormento, uscita a Milano nel 1922, e da cui è tratta la poesia Anima Rossa, Errico Malatesta scrive:
Virgilia d’Andrea, poetessa dell’anarchia, degna di prendere il posto che lasciò vuoto il nostro Pietro Gori, scrive e canta perché sente e vuole, e perciò riesce più vera e più efficace di tanti poeti maggiori. Ella si serve della letteratura come di un’arma; e nel folto della battaglia, in mezzo alla folla ed in faccia al nemico, o da una tetra cella di prigione, o da un rifugio amico che alla prigione la sottrae, lancia i suoi versi come una sfida ai prepotenti, uno sprone agli ignavi, un incoraggiamento ai compagni di lotta. PM
3.
Sonata al chiaro di luna
(Sera primaverile. Grande stanza di una vecchia casa. Una donna anziana, vestita di nero, parla a un giovane. Non hanno acceso la luce. Dalle due finestre entra un implacabile chiaro di luna. Ho dimenticato di dire che la Donna in Nero ha pubblicato due o tre interessanti raccolte di versi di ispirazione religiosa. Dunque, la Donna in Nero parla al Giovane):
Lasciami venire con te. Che luna stasera!
La luna è buona – non si vedrà
che si sono imbiancati i miei capelli. La luna
me li farà di nuovo biondi. Non te ne accorgerai.
Lasciami venire con te.
Con la luna ingrandiscono le ombre nella casa,
mani invisibili tirano le tende,
un dito pallido scrive sulla polvere del piano
parole dimenticate – non le voglio sentire. Taci.
Lasciami venire con te
poco piú avanti, fino al recinto del mattonificio,
fin dove la strada svolta e appare
la città d’aria e di cemento, calcinata dal chiaro di luna,
cosí indifferente e immateriale,
cosí positiva, quasi metafisica,
che puoi finalmente credere che esisti e non esisti
che non sei mai esistito, non è esistito il tempo con la sua rovina.
Lasciami venire con te.
Ci sederemo un poco sul muretto, sull’altura,
rinfrescandoci al vento di primavera
forse immagineremo pure di volare,
perché spesso, e perfino ora, sento il fruscío della mia veste
che pare il battito di due ali forti,
e quando ti chiudi in questo rumore del volo
senti tendersi il collo, i fianchi, la tua carne,
e cosí stretto nei muscoli del vento azzurro,
nei nervi robusti dell’altezza,
non ha importanza che tu parta o torni
né conta che i miei capelli siano bianchi,
(non è questo che mi dà pena – mi dà pena
che non mi s’imbianchi anche il cuore).
Lasciami venire con te.
Lo so, ciascuno cammina solo verso l’amore,
solo verso la gloria e la morte.
Lo so. L’ho provato. Non giova a niente.
Lasciami venire con te.
Questa casa è abitata dai fantasmi, mi scaccia –
voglio dire ch’è invecchiata molto, i chiodi si staccano,
i quadri è come se si tuffassero nel vuoto,
gli intonaci cadono in silenzio
come il cappello del morto cade dall’attaccapanni nel corridoio scuro
come il guanto di lana consunto cade dalle ginocchia del silenzio
o come una striscia di luna cade sulla vecchia poltrona sventrata.
Un tempo era giovane anche lei – non la foto che guardi con tanta diffidenza,
parlo della poltrona, cosí riposante, potevi sedertici per ore
e a occhi chiusi sognare a tuo piacimento
– un arenile umido e liscio, lucido per la luna,
piú lucido delle mie vecchie scarpe di coppale che ogni mese porto dal lustrascarpe qui
all’angolo,
o della vela di un pescatore che si perde sul fondo cullata dal proprio respiro,
una vela triangolare come un fazzoletto piegato di traverso
come se non avesse nulla da chiudere o da contenere
o da salutare sventolando. Ho sempre avuto la mania dei fazzoletti,
non per tenervi ripiegato qualcosa,
certi semi di fiori o camomilla raccolti nei campi verso sera,
né farvi quattro nodi, come il berretto degli operai del cantiere di fronte,
o per asciugarmi gli occhi – ho conservato buona la vista;
non ho mai portato gli occhiali. Una semplice stravaganza i fazzoletti.
Adesso li piego in quattro, in otto, in sedici
per tenere occupate le dita. E ora mi ricordo
che ritmavo cosí la musica quando andavo al Conservatorio
col grembiule blu, il colletto bianco e due trecce bionde
– 8, 16, 32, 64 –
per mano a un’amichetta-pesco tutta luce e fiori rosa,
(perdona queste parole – una cattiva abitudine) – 32, 64 – e i miei riponevano
grandi speranze nel mio talento musicale. Dunque, dicevo, la poltrona –
sventrata – si vedono le molle arrugginite, la paglia –
pensavo di portarla dal mobiliere qui accanto,
ma chi ha il tempo, la voglia, i soldi – che cosa riparare per prima? –
pensavo di buttarci su un lenzuolo – ho avuto paura
del lenzuolo bianco con questo chiaro di luna. Qui si sono sedute
persone che hanno sognato grandi sogni, come te, e come me del resto,
e che ora riposano sottoterra senza che la pioggia o la luna li disturbi.
Lasciami venire con te.
Ci fermeremo un po’ in cima alla scala di marmo di San Nicola,
poi tu scenderai e io tornerò indietro
avendo sul fianco sinistro il calore del contatto casuale con la tua giacca,
alcuni riquadri di luce delle piccole finestre del quartiere
e questo fiato bianchissimo della luna che sembra un grande corteo di cigni d’argento –
non ho paura di questa frase, perché io
molte notti di primavera, un tempo, ho dialogato con Dio, che mi è apparso
nel manto di caligine e di gloria di un chiaro di luna come questo,
e molti giovani, piú belli anche di te, gli ho sacrificato,
svaporando cosí, bianca e inaccessibile nella mia fiamma bianca, nel biancore del chiaro
di luna,
incendiata dagli sguardi voraci degli uomini e dall’estasi incerta degli adolescenti,
assediata da stupendi corpi abbronzati,
da membra robuste addestrate nel nuoto, nei remi, nell’atletica, nel calcio (che fingevo di
non vedere)
da fronti, labbra, colli, ginocchia, dita e occhi
toraci, braccia, cosce (e davvero non li vedevo)
– sai, certe volte, ammirando, dimentichi quel che ammiri, ti basta l’ammirazione –
dio mio, che occhi pieni di stelle, e mi elevavo in un’apoteosi di stelle rifiutate
perché, cosí assediata, da dentro e fuori,
non mi restava altra via che verso l’alto o il basso. – No, non basta.
Lasciami venire con te.
Lo so che ormai si è fatto tardi. Lasciami,
poiché per tanti anni, giorni e notti e meriggi purpurei, sono rimasta sola,
irriducibile, immacolata e sola,
perfino nel mio letto nuziale immacolata e sola,
scrivendo versi gloriosi sulle ginocchia di Dio,
versi che, ti assicuro, resteranno come scolpiti su un marmo irreprensibile
oltre la mia vita e la tua, molto oltre. Non basta.
Lasciami venire con te.
Non fa piú per me questa casa.
Non sopporto di portarla sulle spalle.
Devi sempre badare a questo e a quello,
a puntellare il muro con la grande credenza
a puntellare la credenza con l’antichissimo tavolo intagliato
a puntellare il tavolo con le sedie
a puntellare le sedie con le mani
a sostenere con la spalla la trave che ha ceduto.
E il piano, chiuso come un feretro nero. Non osi aprirlo.
Badare sempre a questo e a quello, che non cada, a non cadere tu. Non ce la faccio.
Lasciami venire con te.
Questa casa, pur con tutti i suoi morti, non vuol saperne di morire.
Si ostina a vivere con i suoi morti
a vivere dei suoi morti
a vivere della certezza della sua morte
perfino a sistemare i suoi morti su letti e scaffali pericolanti.
Lasciami venire con te.
Qui, per quanto piano io cammini nel fiato della sera,
in pantofole o scalza,
qualcosa scricchiola – s’incrina un vetro o uno specchio,
si odono passi – non sono i miei.
Fuori, per strada, può darsi che non si odano questi passi –
il pentimento, dicono, porta scarpe di legno –
e se fai per guardare in questo specchio o in quello,
dietro la polvere e le incrinature,
scorgi piú opaco e frantumato il tuo viso,
il tuo viso: non chiedesti altro alla vita che di conservarlo integro e puro.
L’orlo del bicchiere riluce al chiaro di luna
come un rasoio circolare – come portarlo alle labbra,
pur cosí assetata? – Come? – Vedi?
Ho ancora voglia di similitudini, – mi è rimasto questo,
questo mi rassicura ancora che ci sono.
Lasciami venire con te.
A volte, quando fa sera, ho la sensazione
che fuori delle finestre passi l’ambulante con la sua vecchia orsa pesante
dal pelo pieno di lappole e di spine
sollevando polvere sulla strada del quartiere
una nube solitaria di polvere che incensa il crepuscolo,
e i bambini sono tornati alle loro case per la cena e non li lasciano piú uscire
benché dietro i muri loro indovinino i passi della vecchia orsa –
e l’orsa stanca incede nella saggezza della sua solitudine, senza un dove e un perché –
si è appesantita, non riesce piú a ballare sulle zampe posteriori
non riesce a portare la cuffia merlettata per far divertire i bambini, gli sfaccendati, gli
esigenti,
vuole solo stendersi a terra
lasciando che le calpestino il ventre, giocando cosí il suo ultimo gioco,
mostrando la sua tremenda forza di rinuncia,
la sua disobbedienza agli interessi altrui, agli anelli nelle labbra, alla necessità dei denti,
la sua disobbedienza al dolore e alla vita
con l’alleanza certa della morte – foss’anche di una morte lenta –
la sua estrema disobbedienza alla morte con la continuità e la cognizione della vita
che con la conoscenza e l’azione sale al di sopra della sua schiavitú.
Ma chi può giocare fino alla fine questo gioco?
E l’orsa si rialza e cammina
obbediente al suo laccio, agli anelli, ai denti,
sorridendo con le labbra lacere alle monete dei bambini belli e privi di sospetto
(belli proprio perché privi di sospetto)
e dicendo grazie. Perché gli orsi invecchiati
hanno solo imparato a dire: grazie, grazie.
Lasciami venire con te.
Questa casa mi soffoca. Anzi la cucina
è come il fondo del mare. I bricchi appesi brillano
come grossi occhi tondi di incredibili pesci,
i piatti si muovono lenti come meduse,
alghe e conchiglie mi si impigliano tra i capelli – non riesco piú a staccarle,
non riesco a risalire in superficie –
il vassoio mi cade di mano senza rumore – mi accascio
vedo salire, salire le bolle del mio respiro,
tento di svagarmi guardandole
e mi chiedo cosa direbbe chi dall’alto vedesse queste bolle,
forse che qualcuno annega, o che un sommozzatore esplora gli abissi?
E davvero, non di rado scopro lí, nel fondo dove annego,
coralli e perle e tesori di navi naufragate,
incontri imprevedibili, di ieri, di oggi e del futuro,
quasi una conferma di eternità,
un certo sollievo, un certo sorriso di immortalità, come si dice,
una felicità, un’ebbrezza, perfino un entusiasmo,
coralli, perle e zaffiri;
solo che non so donarli – no, li dono;
solo che non so se loro possono prenderli – comunque io li dono.
Lasciami venire con te.
Un momento, che prendo la maglia.
Con questo tempo instabile, per quanto, dobbiamo premunirci.
C’è umidità la sera, e la luna
non ti pare, davvero, che faccia aumentare il fresco?
Lascia che ti abbottoni la camicia – che petto forte hai,
– che luna forte – la poltrona, dico – e quando sollevo la tazzina dal tavolo
resta sotto un foro di silenzio, ci metto subito la mano
per non guardare dentro – rimetto a posto la tazzina;
anche la luna è un foro nel cranio del mondo – non guardarci dentro,
è una forza magnetica che attira – non guardare, non guardate,
date retta a quello che vi dico – ci cadrete dentro. Questa bella vertigine,
leggera – attento, cadi –
è un pozzo di marmo la luna,
si muovono ombre, ali mute, voci misteriose – non le udite?
Profonda la caduta,
profonda la risalita,
l’aerea statua tesa tra le sue ali aperte,
profonda la carità implacabile del silenzio –
luci tremule sull’altra riva, mentre oscilli sulla tua stessa fionda,
respiro dell’oceano. Leggerissima, bella
questa vertigine – sta’ attento che cadi. Non guardare me,
il mio posto è l’oscillazione – la stupenda vertigine. Cosí ogni sera
ho un po’ di mal di testa, certi capogiri.
Spesso faccio un salto alla farmacia di fronte per qualche aspirina,
a volte non mi va e resto con il mal di testa
a sentire il rumore sordo dei tubi dell’acqua dentro i muri,
o mi faccio un caffè; sempre distratta
e smemorata, ne preparo due – chi berrà il secondo? –
buffo davvero, lo lascio sul davanzale a raffreddarsi,
o a volte bevo anche l’altro, guardando dalla finestra la lampadina verde della farmacia
come la luce verde di un treno silenzioso che mi viene a prendere
con i miei fazzoletti, le mie scarpe sformate, la mia borsa nera, le mie poesie,
senz’alcuna valigia – per farne che?
Lasciami venire con te.
Ah, te ne vai? Buonanotte. No, non vengo. Buonanotte.
Tra poco esco. Grazie. Perché infine bisognerà
che esca da questa casa in rovina.
Devo vedere un po’ di città – no, non la luna –
la città con le sue mani callose, la città del salario quotidiano,
la città che giura sul pane e sul pugno,
la città che ci regge tutti sulle spalle
con le nostre meschinità, cattiverie, inimicizie,
con le nostre ambizioni, la nostra ignoranza e la vecchiaia,
devo sentire i grandi passi della città,
per non sentire piú i tuoi passi
né i passi di Dio, né i miei passi. Buonanotte.
(La stanza si fa buia. Si vede che una nube ha coperto la luna. D’un tratto, come se qualcuno avesse alzato il volume della radio del bar vicino, si ode una frase musicale molto nota. Allora mi sono reso conto che tutta questa scena era stata accompagnata a basso volume dalla Sonata al chiaro di luna, solo la prima parte. Ora il Giovane starà scendendo con un sorriso ironico, forse di commiserazione, sulle labbra ben disegnate, e con un senso di liberazione. Quando sarà arrivato a San Nicola, prima di scendere la scala di marmo, riderà − un riso forte, irrefrenabile. La sua risata non suonerà affatto sconveniente sotto la luna. Forse l’unica cosa sconveniente è che non c’è nulla di sconveniente. Poco dopo il Giovane tacerà, si farà serio e dirà: “La decadenza di un’epoca.” Cosí, ormai completamente tranquillo, si sbottonerà di nuovo la camicia e andrà per la sua strada. Quanto alla Donna in Nero, non so se sia infine uscita di casa. Il chiaro di luna splende ancora. E negli angoli della stanza le ombre si stringono per un’incontenibile contrizione, quasi un’ira, non tanto per la vita, quanto per l’inutile confessione. Lo sentite? La radio continua):
Atene, Giugno 1956
Ghiannis Ritsos, Sonata al Chiaro di Luna, da “Quarta Dimensione”, Crocetti Editore, 2020.
Il leitmotiv, la domanda continua della bambina-donna bruna “che cosa è dunque il mondo?” giunge in eco ad una casa che si sgretola sotto il peso duro e angosciante delle parole scandite piano in una notte al chiaro di luna. Intanto, quasi per bizzarria, una radio mezza rotta e lontana risponde riproducendo a loop alcune note della celebre Sonata di Beethoven senza mai portarla a termine. Dietro la porta scalcinata e squallida di cela la Donna in Nero, personificazione tutt’uno-con-la-sua-dimora della Quarta Dimensione. È una donna stanca, sfiancata dalla (non) vita e dalle reminiscenze; anche lei pone una domanda continua, quasi una ripetizione tantrica, ad un giovane di bell’aspetto che subisce senza fiatare il monologo lacerante dell’anziana: “lasciami venire con te”. La bambina bruna non sa che la sua domanda è stata colta da un Essere che trafigge quattro strati, quattro dimensioni del Mondo: il passato, la memoria individuale, la storia dell’oggi ed infine il Mito ovvero la Verità del Tempo.
La risposta-monologo sembra giungere alla bambina molti anni dopo, come da luce dei quasar e delle nebulose, quando ormai vessata dal tempo e dalla vita, la donna conclude che si vive per vederci soffrire e per puntellare i troni e poi morire.
Anche la Donna in Nero si ritrova a dover rappezzare la dimora-mondo-mente che abita e a alla quale tenta di sfuggire (o almeno così afferma), e similmente si ritrova a dover puntellare il muro con la grande credenza/a puntellare la credenza con l’antichissimo tavolo intagliato/ a puntellare il tavolo con le sedie/ a puntellare le sedie con le mani.
Entrambe puntellano come contrafforti di pietra ciò che le schiaccia, che le assedia invulnerabile. Resistono. Il sibilo di sofferenza dell’anarchica genererà l’istinto di riscossa politica e resistenza al potere; il lamento della Quarta Dimensione indurrà alla fuga dal Mondo vetusto in sfacelo e dalla Mente che intrappola e soffoca con la sua decadenza, con i suoi abissi.
Le due voci si mescolano così in una città d’aria e di cemento, calcinata dal chiaro di luna, /cosí
indifferente e immateriale,/ cosí positiva, quasi metafisica, /che puoi finalmente credere che esisti e non esisti /che non sei mai esistito, non è esistito il tempo con la sua rovina.
La Donna in Nero è un vortice di marmo che avviluppa e intorbidisce le menti di chi tende l’orecchio alla Sonata e spera che quella radio si aggiusti e continuino a correre le note; trascina il giovane (o la bambina bruna?) nella sua casa scricchiolante e fatiscente nonostante affermi di voler fuggire verso la città con le sue mani callose, la città del salario quotidiano,/la città che giura sul pane e sul pugno,/la città che ci regge tutti sulle spalle/con le nostre meschinità, cattiverie, inimicizie,/con le nostre ambizioni, la nostra ignoranza e la vecchiaia.
L’interlocutore muto della Donna in Nero si allontana senza essere seguito, sull’orlo del dirupo senza fondo della Quarta Dimensione. Si libera dalla decadenza e decide di rimuovere il filtro lunare, si divincola da una Società avvizzita e in rovina. Ad attenderlo c’è la realtà, vera (quella del pane e del pugno), politica, deludente. Starà a lui decidere se viverla e sperare nella redenzione della realtà o tornare nella vecchia dimora crivellata dai buchi di vecchi quadri mai appesi e sprofondare nella poltrona impolverata.
La bambina bruna, ormai donna, ha scelto anche lei di divincolarsi dal peso e dall’ombra della Donna in Nero ed il gemito finale rocambolesco “alla riscossa” la proietta nella realtà, e tenterà di contrastare la rovina del mondo, iniziando dalle parole, dalla poesia e soprattutto dalla loro condivisione. L’uomo sfuggito alla Donna e alla Sonata ripete forse, oltre i bordi della città, un verso cantato dal vento scritto in una notte simile da un citaredo greco che crede nel potere della parola (il poeta, dopotutto, è un politico) e grida muto con le baionette alle costole: “immensa, estatica orfanezza – libertà” (Ἐϰστατιϰή, μεγάλη ὀρφάνια – ἐλευθερία). GG
4.
Mattino nella casa bruciata
Nella casa bruciata faccio colazione.
Capirai: niente casa, niente colazione,
invece eccomi qua.
Il cucchiaio che si è fuso raschia
la ciotola che pure si è fusa.
non c’è nessun altro in giro.
Dove sono andati, il fratello e la sorella,
la madre e il padre? Via lungo il mare,
forse. I loro abiti sono ancora sulle grucce,
la pila dei piatti accanto al lavello,
accanto al fornello a legna
con la gratella e il bollitore incrostato,
ogni dettaglio è chiaro,
la tazza di latta e lo specchio grinzoso.
Il giorno è luminoso e senza canto,
il lago è blu, la foresta vigile.
A est un cumulo di nubi
lievita il silenzio come pane scuro.
Vedo i ghirigori nella carta oleata,
vedo i difetti nel vetro,
le vampe dove il sole batte.
Le mani e le gambe non me le vedo
e non so se è un problema o una benedizione,
ritrovarmi qui, dove ogni cosa
in questa casa si è da tempo estinta,
pentolino e specchio, cucchiaio e ciotola,
perfino il mio stesso corpo,
perfino il corpo che avevo allora,
perfino il corpo che ho adesso
mentre siedo a tavola stamattina, sola e felice,
piedi nudi di bimba sulle assi bruciacchiate
(li vedo quasi)
nei miei abiti in fiamme, i calzoncini verdi leggeri
e la maglietta gialla bisunta
che tiene insieme la mia inesistente, cinerina,
carne radiosa. Incandescente.
(Margaret Atwood, Mattino nella casa bruciata, Milano, Le Lettere, 2007).
Mi piacciono le case. Mi piace passeggiare nei quartieri residenziali e guardare i palazzi. E mi piacciono gli oggetti che fanno una casa, gli arredamenti. Non perché abbia chissà quale gusto sopraffino in fatto di architettura o di interior design (non ne capisco niente), ma perché le case e i loro oggetti raccontano le vite delle persone. Mi piace guardare un palazzo e immaginare la vita dei suoi occupanti: hanno il sole in casa al mattino? Prendono mai il caffè al bar lì sotto? Ci sono piante sul balcone? E chi le cura? Lo stesso vale per l’arredamento: gli oggetti di una casa raccontano il carattere di chi la abita. Questo vale per la celebre simbologia freudiana che vede nella casa una diretta rappresentazione della psiche del sognatore, ma è vero anche a un livello molto più prosaico: le scelte che stanno dietro un arredamento esprimono il carattere degli occupanti.
Perché vi racconto queste cose? Grazie per averlo chiesto. È per spiegare come mai la prima cosa che mi è saltata all’occhio di “Sonata al chiaro di luna” sia stata la prominenza con cui gli oggetti della casa si fanno largo nel testo. Sedie, attaccapanni, poltrone, pianoforti, credenze, specchi, affollano le parole della Donna e ne raccontano lo stato mentale (lo “infestano”, sarei tentato di dire).
Per questo ho deciso di rispondere con una poesia anch’essa popolata da oggetti domestici (ora che ci penso, ecco un’altra cosa che mi piace: le poesie costruite attorno a un lessico concreto. Questo perché sono tonto e faccio fatica a star dietro a ragionamenti troppo astratti, allora mi trovo meglio di fronte a poesie fatte di oggetti, di gesti, di cose che si possono vedere e toccare). Anche nella poesia di Atwood scodelle, piatti, cucchiai, fornelli, l’armamentario tipico di un gesto domestico per eccellenza, la colazione, concorrono a descrivere un universo emotivo e mentale. Con in più la nota di surrealtà che la casa di Margaret Atwood è bruciata, e tutti gli oggetti portano su di loro i segni del passaggio dell’evento incendiario, in una rappresentazione simbolica (del resto, il testo ce lo dice sin dalle prime righe, in realtà “non c’è casa, né c’è colazione”) della permanenza del lutto nell’esperienza di chi resta.
(Margaret Atwood, forse la più nota scrittrice canadese vivente, non necessità di introduzione. Ricordata forse più spesso per i suoi romanzi, in particolare per i suoi lavori di speculative fiction, ha in realtà compiuto il suo esordio nel mondo letterario in qualità di poeta e pubblicato nel corso della sua carriera diciotto raccolte di poesie. “Mattino nella casa bruciata” è contenuta nella raccolta omonima del 1995, edita in Italia da Le Lettere). DG
5.
In Morning in the Burned House Margaret Atwood invita subito il lettore a non prendere letteralmente l’immagine della colazione nella casa bruciata: “You understand: there is no house, there is no breakfast”. Eppure dopo questa rottura della finzione poetica, la poesia riprende dalla seconda strofa come se niente fosse: l’io sta facendo colazione nella casa della sua infanzia, tutto è al suo posto consueto, stoviglie, arredamento, abiti… Solo che appaiono bruciati e deformati dalla combustione del tempo. Non c’è casa, non c’è colazione, “yet here I am”, eppure eccomi qui, dice la voce narrante, come qualcuno che si presenta a un appuntamento. Margaret Atwood ha preso appuntamento con il proprio passato, un appuntamento che può realizzarsi solo nel sogno e nella scrittura. Che si tratti di un sogno risulta chiaro dal fatto che l’io non vede le proprie braccia e le proprie gambe, come spesso succede nei sogni in cui il sognatore non agisce, ma è spettatore di quanto accade. Atwood può quasi vedere i suoi piedi di bambina ed è questo “almost” a ricordarci che ogni appuntamento con il passato è un appuntamento mancato, un incontro impossibile, in absentia. Potrebbe realizzarsi davvero solo se fossimo in grado di ritrovare il nostro corpo di allora, se non fosse che la nostra carne è fatta della stessa materia della casa, soggetta alla fiamma del tempo e perciò “cindery, non-existent, / radiant”.
La prima associazione che ho avuto leggendo Morning in the Burned House non è stata con una poesia, ma con un’immagine, quella delle sequenze finali del Sacrificio di Tarkovskij. Anche lì c’è una casa, quella del protagonista Alexander, che brucia. Da Tarkovskij figlio la mia mente è passata a Tarkovskij padre e ai versi straordinari di “Primi incontri” che la voce fuori campo legge ne Lo specchio. Poco prima la macchina da presa ha inquadrato il padre che si volge un’ultima volta verso la madre prima di allontanarsi attraverso i campi mentre il vento soffia forte e piega l’erba. All’improvviso il suono del vento si spegne e in un silenzio assoluto la voce comincia a recitare i versi di Arsenij mentre la macchina da presa segue la madre, vaga per il giardino, indugia sui bambini al tavolo della colazione e infine di nuovo su Margarita Terechova e sulla bellezza (Боже правый!) del suo volto in lacrime. PL
Primi incontri
Ogni istante dei nostri incontri
lo festeggiavamo come un’epifania,
soli a questo mondo. Tu eri
più ardita e lieve di un’ala di uccello,
scendevi come una vertigine
saltando gli scalini, e mi conducevi
oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti
al di là dello specchio.
Quando giunse la notte mi fu fatta
la grazia, le porte dell’iconostasi
furono aperte, e nell’oscurità in cui luceva
e lenta si chinava la nudità
nel destarmi: “Tu sia benedetta”,
dissi, conscio di quanto irriverente fosse
la mia benedizione: tu dormivi,
e il lillà si tendeva dal tavolo
a sfiorarti con l’azzurro della galassia le palpebre,
e sfiorate dall’azzurro le palpebre
stavano quiete, e la mano era calda.
Nel cristallo pulsavano i fiumi,
fumigavano i monti, rilucevano i mari,
mentre assopita sul trono
tenevi in mano la sfera di cristallo,
e – Dio mio! – tu eri mia.
Ti destasti e cangiasti
il vocabolario quotidiano degli umani,
e i discorsi s’empirono veramente
di senso, e la parola tua svelò
il proprio nuovo significato: zar.
Alla luce tutto si trasfigurò, perfino
gli oggetti più semplici – il catino, la brocca – quando,
come a guardia, stava tra noi
l’acqua ghiacciata, a strati.
Fummo condotti chissà dove.
Si aprivano al nostro sguardo, come miraggi,
città sorte per incantesimo,
la menta si stendeva da sé sotto i piedi,
e gli uccelli c’erano compagni di strada,
e i pesci risalivano il fiume,
e il cielo si schiudeva al nostro sguardo…
Quando il destino ci seguiva passo a passo,
come un pazzo con il rasoio in mano.
(Arsenij Tarkovskij, Primi incontri, in Poesie scelte, Scheiwiller, Milano 1989, traduzione di G. Zappi)
6.
Adesso sto sempre in casa
e sposto carte o guardo
oltre i vetri della finestra
le mandorle secche attaccate ai rami
che arrivano fino quassù
e sembrano pendagli alle orecchie
di gente che non c’è più.
O sto seduto su una sedia
vicino al camino
e si fa notte presto
con la luce che cade dietro le montagne
e io vado a letto con la voglia di sognare
i giorni che nevicava a Mosca,
e io ero innamorato.
Tonino Guerra, Si fa notte presto, 1981
Le analogie tra le due poesie sono molteplici e si riflettono e si nutrono nel lungo sodalizio artistico tra Tonino Guerra, autore della poesia che ho selezionato, e Ardreij Tarkovskij, che ne Lo Specchio celebra la poesia scritta dal padre Arsenij. Tra Guerra e Tarkovskij figlio vi è stata una lunga e fruttuosa amicizia e collaborazione, in cui il primo ha supportato la scrittura di alcuni dei più importanti film del secondo. Il loro percorso comune culmina con “Tempo di Viaggio” del 1983, documentario co-diretto dai due: una sorta di “viaggio in Italia” del regista russo insieme all’amico e sceneggiatore italiano, alla ricerca dei luoghi per realizzare il capolavoro Nostalghia – il film che forse maggiormente rende manifesto il mondo di Tarkovskij, la sua visione poetica ed estetica. Un film fatto di luoghi, in cui ricopre un ruolo privilegiato proprio uno di quelli solcati dai due durante il viaggio: l’affascinante metafisica Abbazia di San Galgano, tra Siena e la Val d’Orcia.
Vi è una analogia inoltre tra i due artisti, cioè quella di essere intellettuali che non si sono espressi prettamente attraverso un solo medium: entrambi si sono dedicati con profitto all’industria culturale, in particolare quella cinematografica, coltivando uno la parola poetica, l’altro la fotografia lungo i bordi dei rispettivi percorsi artistici. Ciò non rende queste produzioni meno significative all’interno dei rispettivi percorsi, piuttosto si tratta di momenti che arricchiscono, a tratti illustrano con ancora maggiore veridicità, la poetica messa in campo dai due all’interno della scrittura e della produzione cinematografica. È inoltre lo stesso Guerra a guidare Ardreij Tarkovskij nei meandri della parola poetica, di cui spesso sono puntellate le sceneggiature dei suoi film.
Infine, si tratta di due testi che oscillano tra il fisico ed il metafisico, tra una dimensione descrittiva di situazioni quotidiane effettuata con un linguaggio asciutto ma sempre stemperato da fughe sinestetiche come: “la voglia di sognare / i giorni che nevicava a Mosca” o “a sfiorarti con l’azzurro della galassia le palpebre”, che sembrano attingere dallo stesso universo linguistico. PN
7.
Nell’anno in cui le ragazze
Per la prima volta mi hanno chiamato vecchio
E mi hanno detto «Nonno», disprezzando ad alta voce
Offeso per il corpo, senza alcuna vergogna
Offerto, ma non mangiato, il cibo,
Con le mani dalle lunghe notti,
Nei sanatori della salute,
Io, in questo ruscello di Narzan,
Bagnai il mio corpo,
Mi irrobustii e rinforzai
E mi rimisi insieme.
Le vene comparvero sulle braccia,
Il petto diventò più largo,
Una barba di seta
Copriva il collo.
Vladimir Chlebnikov, in 47 poesie facili e 1 difficile, Quodlibet 2009 (trad. Paolo Nori)
“Il signor Grobe cominciò a domandarsi a quale ora della sera, se avesse avuto voce in capitolo, avrebbe voluto che il tempo si fermasse, così da rimanere in compagnia dei suoi pensieri meno infelici.
Come ora più lunga ne avrebbe certamente scelta una non troppo tarda: avrebbe preferito essere incline alla meditazione, piuttosto che al sonno, nel momento in cui il tempo si fosse fermato. Avrebbe scelto l’ora in cui il tabacco ha il gusto più dolce, quando la notte profonda non ha ancora posato la propria mano sul fuoco.
Avrebbe voluto che nessun pensiero, per quanto lungo e piacevole, potesse mai ricordargli che era giunta «l’ora di andare a letto», perché questa, sul piano simbolico, era come «l’ora di andare nella fossa».
Avrebbe anche potuto, se il tempo si fosse fermato al momento giusto, starsene seduto a rimuginare, nel corso della lunga serata, e avrebbe magari riscoperto e persino richiamato in quella stanza il suo Dio perduto, per farlo accomodare su quella poltrona e indurlo a parlare del tempo che faceva.
[…]Questi sentimenti, benché potessero essere null’altro che poetiche menzogne – e si sa che una menzogna può essere immortale quanto una verità –, occupavano il signor Grobe e proiettavano i suoi pensieri verso l’eterno. Un momento di tranquillità, che sia colmo della giusta soddisfazione, può dare sollievo, così come la più feroce agonia o l’immensa gioia della passione possono conferire a chiunque ne sia partecipe un’estasi tanto sacra che la valle delle ombre in un attimo è superata, e subito si vede il sole giallo sorgere sui monti dell’eternità.
Quantunque la morte, però, possa essere in qualche maniera sconfitta, essa nella sua modestia ha comunque i suoi doveri da compiere, e l’immortalità, intravista nei momenti di passione o di solitudine, non può che presentarsi sotto forma di chiazze di sole viste in un caldo e afoso pomeriggio estivo su cui incomba un velo sottile di morbide nuvole. Queste chiazze, però, dovrebbero quantomeno consolarci un po’ della perdita di noi stessi.
[…]«Forse,» pensò il signor Grobe «l’orologio potrebbe fermarsi alle sette». Quella, infatti, era l’ora che lui considerava la più felice”.
Theodore F. Powyes, Mr. Weston’s Good Wine, Chatto & Windus, London 1927.
Come reagire al trascorrere inesorabile? Siamo Grobe, o l’oscuro bagnante di Chlebnikov? In che direzione navighiamo il tempo? Non resta che stare a osservare come il mondo ci tocca. LA
7+1.
In questo salto, da Chlebnikov a Glück, l’associazione tra le due liriche non è basata su una regola metrica o su un nesso diretto tra elementi dei versi; non è neanche propriamente tematica, ma è piuttosto un’assonanza di immagini. A sua volta mediata da una terza immagine, non poetica ma tuttavia letteraria, innescata da una convergenza di letture.
Verso il termine della storia raccontata in Babilonia, romanzo di Yasmina Reza – evitando di rivelare qualcosa della sorprendente trama – in una piccola riflessione, la protagonista realizza di essere attratta da alcune persone per il loro potere evocativo del paesaggio. «Non si può capire chi sono le persone fuori dal paesaggio. Il paesaggio è fondamentale. La vera filiazione sta nel paesaggio. La stanza e la pietra non meno che il taglio del cielo».
Quanto più una persona porta il paesaggio in sé, «senza difesa», tanto più lei la ama.
E nella ri-nascita nel ruscello di Narzan l’uomo della poesia di Chlebnikov diventa tutt’uno con il paesaggio. Il suo corpo stesso si fa paesaggio: porta le vene a rilievo sulle braccia, distende una pianura più vasta sul petto, la barba rivegeta lungo il collo. Porta di fatto il paesaggio in sé.
Il paesaggio viene portato in sé anche quando non esiste semplicemente fuori dal sé, ma il sé cerca di costruirlo. Da qui l’accostamento con L’Iris selvatico di Louise Glück. Una raccolta di poesie scritta in pochi mesi, dalla primavera all’estate, intorno a una metafora semplice e oltremodo efficace, quella del giardino. Un giardino specchio di quello reale, della sua casa in Vermont, agli inizi degli anni Novanta, dove si alternano nascita e rinascita, e dove l’autrice coltiva i suoi fiori, se stessa, la propria famiglia, e la storia di un matrimonio. Nell’essenzialità del giardino viene messo in scena un coro di voci, tra poesie parlate dai fiori stessi o dagli elementi della natura e delle stagioni, e quelle dove si rivela l’autrice, cadenzate dai rituali di preghiera di Vespri e Mattutini.
Nel primo dei Mattutini «attaccata all’albero vivo, il mio corpo […] / quasi capace di sentire / la linfa fermentare e salire»: la linfa del giardino guarisce il corpo – e la mente sofferente come ci viene poi suggerito – come l’acqua del ruscello di Narzan. NF
Mattutino
Il sole splende; presso la cassetta della posta, foglie
della betulla divisa, piegate, pieghettate come pinne.
Sotto, steli cavi dei narcisi bianchi, Ali di Ghiaccio,
Cantatrice; scure
foglie della viola di prato. Noah dice
che i depressi odiano la primavera, disequilibrio
fra mondo interno ed esterno. Io sostengo
un’altra tesi: depressa sì, ma in qualche modo
appassionatamente
attaccata all’albero vivo, il mio corpo
effettivamente rannicchiato nel tronco spaccato, quasi in pace,
nella pioggia serale
quasi capace di sentire
la linfa fermentare e salire: Noah dice che questo è
un errore dei depressi, identificarsi
con un albero, mentre il cuore felice
erra nel giardino come una foglia cadente, figura
di una parte, non del tutto.
Louise Glück, in L’Iris selvatico, Il Saggiatore, Milano 2020 (trad. it. Massimo Bacigalupo – 1° ed. originale The Wild Iris, 1992).
Hanno partecipato: Francesca Coppolino, Pietro Marchesi, Giulio Grossi, Daniele Giovannone, Pierluigi Lanfranchi, Pasquale Napolitano, Luigiemanuele Amabile, Nicoletta Faccitondo.
L’immagine _prošlost e’ di Roberto Preradov
Se desideri partecipare alla rubrica contattaci scrivendo all’indirizzo email: federicadeo@gmail.com
Testi in lingua originale
1.
Lied Vom Kindsein
Als das Kind Kind war,
ging es mit hängenden Armen,
wollte der Bach sei ein Fluß,
der Fluß sei ein Strom,
und diese Pfütze das Meer.
Als das Kind Kind war,
wußte es nicht, daß es Kind war,
alles war ihm beseelt,
und alle Seelen waren eins.
Als das Kind Kind war,
hatte es von nichts eine Meinung,
hatte keine Gewohnheit,
saß oft im Schneidersitz,
lief aus dem Stand,
hatte einen Wirbel im Haar
und machte kein Gesicht beim fotografieren.
Als das Kind Kind war,
war es die Zeit der folgenden Fragen:
Warum bin ich ich und warum nicht du?
Warum bin ich hier und warum nicht dort?
Wann begann die Zeit und wo endet der Raum?
Ist das Leben unter der Sonne nicht bloß ein Traum?
Ist was ich sehe und höre und rieche
nicht bloß der Schein einer Welt vor der Welt?
Gibt es tatsächlich das Böse und Leute,
die wirklich die Bösen sind?
Wie kann es sein, daß ich, der ich bin,
bevor ich wurde, nicht war,
und daß einmal ich, der ich bin,
nicht mehr der ich bin, sein werde?
Als das Kind Kind war,
würgte es am Spinat, an den Erbsen, am Milchreis,
und am gedünsteten Blumenkohl.
und ißt jetzt das alles und nicht nur zur Not.
Als das Kind Kind war,
erwachte es einmal in einem fremden Bett
und jetzt immer wieder,
erschienen ihm viele Menschen schön
und jetzt nur noch im Glücksfall,
stellte es sich klar ein Paradies vor
und kann es jetzt höchstens ahnen,
konnte es sich Nichts nicht denken
und schaudert heute davor.
Als das Kind Kind war,
spielte es mit Begeisterung
und jetzt, so ganz bei der Sache wie damals, nur noch,
wenn diese Sache seine Arbeit ist.
Als das Kind Kind war,
genügten ihm als Nahrung Apfel, Brot,
und so ist es immer noch.
Als das Kind Kind war,
fielen ihm die Beeren wie nur Beeren in die Hand
und jetzt immer noch,
machten ihm die frischen Walnüsse eine rauhe Zunge
und jetzt immer noch,
hatte es auf jedem Berg
die Sehnsucht nach dem immer höheren Berg,
und in jeder Stadt
die Sehnsucht nach der noch größeren Stadt,
und das ist immer noch so,
griff im Wipfel eines Baums nach dem Kirschen in einemHochgefühl
wie auch heute noch,
eine Scheu vor jedem Fremden
und hat sie immer noch,
wartete es auf den ersten Schnee,
und wartet so immer noch.
3.
Ἡ σονάτα τοῦ σεληνόφωτος
(Ἀνοιξιάτιϰο βράδι. Μεγάλο δωμάτιο παλιοῦ σπιτιοῦ. Μιά ἡλιϰιωμένη γυναίϰα ντυμένη στά μαῦρα μιλάει σ᾿ ἕναν νέο. Δέν ἔχουν ἀνάψει φῶς. Ἀπ᾿ τά δυό παράθυρα μπαίνει ἕνα ἀμείλιϰτο φεγγαρόφωτο. Ξέχασα νά πῶ ὅτι ἡ γυναίϰα μέ τά μαῦρα ἔχει ἐϰδώσει δυό-τρεῖς ἐνδιαφέρουσες ποιητιϰές συλλογές θρησϰευτιϰῆς πνοῆς. Λοιπόν, ἡ Γυναίϰα μέ τά μαῦρα μιλάει στόν Nέο):
Ἄφησέ με ναρθῶ μαζί σου. Τί φεγγάρι ἀπόψε!
Εἶναι ϰαλό τό φεγγάρι, – δέ θά φαίνεται
πού ἄσπρισαν τά μαλλιά μου. Τό φεγγάρι
θά ϰάνει πάλι χρυσά τά μαλλιά μου. Δέ θά ϰαταλάβεις.
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου.
Ὅταν ἔχει φεγγάρι, μεγαλώνουν οἱ σϰιές μές στό σπίτι,
ἀόρατα χέρια τραβοῦν τίς ϰουρτίνες,
ἕνα δάχτυλο ἀχνό γράφει στή σϰόνη τοῦ πιάνου
λησμονημένα λόγια – δέ θέλω νά τ᾿ ἀϰούσω. Σώπα.
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου
λίγο πιό ϰάτου, ὡς τή μάντρα τοῦ τουβλάδιϰου,
ὡς ἐϰεῖ πού στρίβει ὁ δρόμος ϰαί φαίνεται
ἡ πολιτεία τσιμεντένια ϰι ἀέρινη, ἀσβεστωμένη μέ φεγγαρόφωτο,
τόσο ἀδιάφορη ϰι ἄϋλη,
τόσο θετιϰή σάν μεταφυσιϰή
πού μπορεῖς ἐπιτέλους νά πιστέψεις πώς ὑπάρχεις ϰαι δέν ὑπάρχεις
πώς ποτέ δέν ὑπῆρξες, δέν ὑπῆρξε ὁ χρόνος ϰι ἡ φθορά του.
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου.
Θά ϰαθίσουμε λίγο στό πεζούλι, πάνω στό ὕψωμα,
ϰι ὅπως θά μᾶς φυσάει ὁ ἀνοιξιάτιϰος ἀέρας
μπορεῖ νά φαντάζουμε ϰιόλας πώς θά πετάξουμε,
γιατί, πολλές φορές, ϰαί τώρα ἀϰόμη, ἀϰούω τό θόρυβο τοῦ φουστανιοῦ μου,
σάν τό θόρυβο δυό δυνατῶν φτερῶν πού ἀνοιγοϰλείνουν,
ϰι ὅταν ϰλείνεσαι μέσα σ᾿αὐτόν τόν ἦχο τοῦ πετάγματος
νιώθεις ϰρουστό τό λαιμό σου, τά πλευρά σου, τή σάρϰα σου,
ϰι ἔτσι σφιγμένος μές στούς μυῶνες τοῦ γαλάζιου ἀγέρα,
μέσα στά ρωμαλέα νεῦρα τοῦ ὕψους,
δέν ἔχει σημασία ἂν φεύγεις ἢ ἂν γυρίζεις
ϰι οὔτε ἔχει σημασία πού ἄσπρισαν τά μαλλιά μου,
(δέν εἶναι τοῦτο ἡ λύπη μου – ἡ λύπη μου
εἶναι πού δέν ἀσπρίζει ϰ᾿ἡ ϰαρδιά μου).
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου.
Τό ξέρω πώς ϰαθένας μοναχός πορεύεται στόν ἔρωτα,
μοναχός στή δόξα ϰαί στό θάνατο.
Τό ξέρω. Τό δοϰίμασα. Δέν ὠφελεῖ.
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου.
Τοῦτο τό σπίτι στοίχειωσε, μέ διώχνει –
θέλω νά πῶ ἔχει παλιώσει πολύ, τά ϰαρφιά ξεϰολλᾶνε,
τά ϰάδρα ρίχνονται σά νά βουτᾶνε στό ϰενό,
οἱ σουβάδες πέφτουν ἀθόρυβα
ὅπως πέφτει τό ϰαπέλο τοῦ πεθαμένου ἀπ’ τήν ϰρεμάστρα στό σϰοτεινό διάδρομο
ὅπως πέφτει τό μάλλινο τριμμένο γάντι τῆς σιωπῆς ἀπ’ τά γόνατά της
ἤ ὅπως πέφτει μιά λουρίδα φεγγάρι στήν παλιά, ξεϰοιλιασμένη πολυθρόνα.
Κάποτε ὑπῆρξε νέα ϰι αὐτή, – ὄχι ἡ φωτογραφία πού ϰοιτᾶς μέ τόση δυσπιστία –
λέω γιά τήν πολυθρόνα, πολύ ἀναπαυτιϰή, μποροῦσες ὧρες ὁλόϰληρες νά ϰάθεσαι
ϰαί μέ ϰλεισμένα μάτια νά ὀνειρεύεσαι ὅ,τι τύχει
– μιάν ἀμμουδιά στρωτή, νοτισμένη, στιλβωμένη ἀπό φεγγάρι,
πιό στιλβωμένη ἀπ’ τά παλιά λουστρίνια μου πού ϰάθε μήνα τά δίνω στό στιλβωτήριο τῆς γωνιᾶς,
ἤ ἕνα πανί ψαρόβαρϰας πού χάνεται στό βάθος λιϰνισμένο ἀπ’ τήν ἴδια του ἀνάσα,
τριγωνιϰό πανί σά μαντίλι διπλωμένο λοξά μόνο στά δυό
σά νά μήν εἶχε τίποτα νά ϰλείσει ἤ νά ϰρατήσει
ἤ ν’ ἀνεμίσει διάπλατο σέ ἀποχαιρετισμό. Πάντα μου εἶχα μανία μέ τά μαντίλια,
ὄχι γιά νά ϰρατήσω τίποτα δεμένο,
τίποτα σπόρους λουλουδιῶν ἤ χαμομήλι μαζεμένο στούς ἀγρούς μέ τό λιόγερμα
ἤ νά τό δέσω τέσσερις ϰόμπους σάν τό σϰουφί πού φορᾶνε οἱ ἐργάτες στ’ ἀντιϰρυνό γιαπί
ἤ νά σϰουπίζω τά μάτια μου, – διατήρησα ϰαλή τήν ὅρασή μου·
ποτέ μου δέ φόρεσα γυαλιά. Μιά ἁπλή ἰδιοτροπία τά μαντίλια.
Τώρα τά διπλώνω στά τέσσερα, στά ὀχτώ, στά δεϰάξη
ν’ ἀπασχολῶ τά δάχτυλά μου. Καί τώρα θυμήθηϰα
πώς ἔτσι μετροῦσα τή μουσιϰή σάν πήγαινα στό Ὠδεῖο
μέ μπλέ ποδιά ϰι ἄσπρο γιαϰά, μέ δυό ξανθές πλεξοῦδες
– 8, 16, 32, 64, –
ϰρατημένη ἀπ’ τό χέρι μιᾶς μιϰρῆς φίλης μου ροδαϰινιᾶς ὅλο φῶς ϰαί ρόζ λουλούδια,
(συχώρεσέ μου αὐτά τά λόγια – ϰαϰή συνήθεια) – 32, 64, –
ϰ’ οἱ διϰοί μου στήριζαν
μεγάλες ἐλπίδες στό μουσιϰό μου τάλαντο. Λοιπόν, σοὔλεγα γιά τήν πολυθρόνα –
ξεϰοιλιασμένη – φαίνονται οἱ σϰουριασμένες σοῦστες, τά ἄχερα –
ἔλεγα νά τήν πάω δίπλα στό ἐπιπλοποιεῖο,
μά ποῦ ϰαιρός ϰαί λεφτά ϰαί διάθεση – τί νά πρωτοδιορθώσεις; –
ἔλεγα νά ρίξω ἕνα σεντόνι πάνω της, – φοβήθηϰα
τ’ ἄσπρο σεντόνι σέ τέτοιο φεγγαρόφωτο. Ἐδῶ ϰάθησαν
ἄνθρωποι πού ὀνειρεύτηϰαν μεγάλα ὄνειρα, ὅπως ϰ’ ἐσύ ϰι ὅπως ϰ’ ἐγώ ἄλλωστε,
ϰαί τώρα ξεϰουράζονται ϰάτω ἀπ’ τό χῶμα δίχως νά ἐνοχλοῦνται ἀπ’ τή βροχή ἤ τό φεγγάρι.
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου.
Θά σταθοῦμε λιγάϰι στήν ϰορφή τῆς μαρμάρινης σϰάλας τοῦ Ἅη–Νιϰόλα,
ὕστερα ἐσύ θά ϰατηφορίσεις ϰ’ ἐγώ θά γυρίσω πίσω
ἔχοντας στ’ ἀριστερό πλευρό μου τή ζέστα ἀπ’ τό τυχαῖο ἄγγιγμα τοῦ σαϰϰαϰιοῦ σου
ϰι ἀϰόμη μεριϰά τετράγωνα φῶτα ἀπό μιϰρά συνοιϰιαϰά παράθυρα
ϰι αὐτή τήν πάλλευϰη ἄχνα ἀπ’ τό φεγγάρι ποὖναι σά μιά μεγάλη συνοδεία ἀσημένιων ϰύϰνων –
ϰαί δέ φοβᾶμαι αὐτή τήν ἔϰφραση, γιατί ἐγώ
πολλές ἀνοιξιάτιϰες νύχτες συνομίλησα ἄλλοτε μέ τό Θεό πού μοῦ ἐμφανίστηϰε
ντυμένος τήν ἀχλύ ϰαί τή δόξα ἑνός τέτοιου σεληνόφωτος,
ϰαί πολλούς νέους, πιό ὡραίους ϰι ἀπό σένα ἀϰόμη, τοῦ ἐθυσίασα,
ἔτσι λευϰή ϰι ἀπρόσιτη ν’ ἀτμίζομαι μές στή λευϰή μου φλόγα, στή λευϰότητα τοῦ σεληνόφωτος,
πυρπολημένη ἀπ’ τ’ ἀδηφάγα μάτια τῶν ἀντρῶν ϰι ἀπ’ τή δισταχτιϰήν ἔϰσταση τῶν ἐφήβων,
πολιορϰημένη ἀπό ἐξαίσια, ἡλιοϰαμμένα σώματα,
ἄλϰιμα μέλη γυμνασμένα στό ϰολύμπι, στό ϰουπί, στό στίβο, στό ποδόσφαιρο (πού ἔϰανα πώς δέν τἄβλεπα)
μέτωπα, χείλη ϰαί λαιμοί, γόνατα, δάχτυλα ϰαί μάτια,
στέρνα ϰαί μπράτσα ϰαί μηροί (ϰι ἀλήθεια δέν τἄβλεπα)
– ξέρεις, ϰαμμιά φορά, θαυμάζοντας, ξεχνᾶς, ὅ,τι θαυμάζεις, σοῦ φτάνει ὁ θαυμασμός σου, –
θέ μου, τί μάτια πάναστρα, ϰι ἀνυψωνόμουν σέ μιάν ἀποθέωση ἀρνημένων ἄστρων
γιατί, ἔτσι πολιορϰημένη ἀπ’ ἔξω ϰι ἀπό μέσα,
ἄλλος δρόμος δε μοὔμενε παρά μονάχα πρός τά πάνω ἤ πρός τά ϰάτω. – Ὄχι, δέ φτάνει.
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου.
Τό ξέρω ἡ ὥρα πιά εἶναι περασμένη. Ἄφησέ με,
γιατί τόσα χρόνια, μέρες ϰαί νύχτες ϰαί πορφυρά μεσημέρια,
ἔμεινα μόνη,
ἀνένδοτη, μόνη ϰαί πάναγνη,
ἀϰόμη στή συζυγιϰή μου ϰλίνη πάναγνη ϰαί μόνη,
γράφοντας ἔνδοξους στίχους στά γόνατα τοῦ Θεοῦ,
στίχους πού, σέ διαβεβαιῶ, θά μείνουνε σά λαξευμένοι σέ ἄμεμπτο μαρμαρο,
πέρα ἀπ’ τή ζωή μου ϰαί τή ζωή σου, πέρα πολύ. Δέ φτάνει.
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου.
Τοῦτο τό σπίτι δέ μέ σηϰώνει πιά.
Δέν ἀντέχω νά τό σηϰώνω στή ράχη μου.
Πρέπει πάντα νά προσέχεις, νά προσέχεις,
νά στεριώνεις τόν τοῖχο μέ τό μεγάλο μπουφέ
νά στεριώνεις τόν μπουφέ μέ τό πανάρχαιο σϰαλιστό τραπέζι
νά στεριώνεις τό τραπέζι μέ τίς ϰαρέϰλες
νά στεριώνεις τίς ϰαρέϰλες μέ τά χέρια σου
νά βάζεις τόν ὦμο σου ϰάτω ἀπ’ τό δοϰάρι πού ϰρέμασε.
Καί τό πιάνο, σά μαῦρο φέρετρο ϰλεισμένο. Δέν τολμᾶς νά τ’ ἀνοίξεις.
Ὅλο νά προσέχεις, νά προσέχεις, μήν πέσουν, μήν πέσεις. Δἐν ἀντέχω.
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου.
Τοῦτο τό σπίτι, παρ’ ὅλους τούς νεϰρούς του, δέν ἐννοεῖ νά πεθάνει.
Ἐπιμένει νά ζεῖ μέ τούς νεϰρούς του
νά ζεῖ ἀπ’ τούς νεϰρούς του
νά ζεῖ ἀπ’ τή βεβαιότητα τοῦ θανάτου του
ϰαί νά νοιϰοϰυρεύει ἀϰόμη τούς νεϰρούς του σ’ ἑτοιμόρροπα ϰρεββάτια ϰαί ράφια.
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου.
Ἐδῶ, ὅσο σιγά ϰι ἄν περπατήσω μές στήν ἄχνα τῆς βραδιᾶς,
εἴτε μέ τίς παντοῦφλες, εἴτε ξυπόλυτη,
ϰάτι θά τρίξει, – ἕνα τζάμι ραγίζει ἤ ϰάποιος ϰαθρέφτης,
ϰάποια βήματα ἀϰούγονται, – δέν εἶναι διϰά μου.
Ἔξω, στό δρόμο μπορεῖ νά μήν ἀϰούγονται τοῦτα τά βήματα, –
ἡ μεταμέλεια, λένε, φοράει ξυλοπάπουτσα, –
ϰι ἄν ϰάνεις νά ϰοιτάξεις σ’ αὐτόν ἤ στόν ἄλλον ϰαθρέφτη,
πίσω ἀπ’ τή σϰόνη ϰαί τίς ραγισματιές,
διαϰρίνεις πιό θαμπό ϰαί πιό τεμαχισμένο τό πρόσωπό σου,
τό πρόσωπό σου πού ἄλλο δέ ζήτησες στή ζωή παρά νά τό ϰρατήσεις ϰαθάριο ϰι ἀδιαίρετο.
Τά χείλη τοῦ ποτηριοῦ γυαλίζουν στό φεγγαρόφωτο
σάν ϰυϰλιϰό ξυράφι – πῶς νά τό φέρω στά χείλη μου;
ὅσο ϰι ἄν διψῶ, – πῶς νά τό φέρω; – Βλέπεις;
ἔχω ἀϰόμη διάθεση γιά παρομοιώσεις, – αὐτό μοῦ ἀπόμεινε,
αὐτό μέ βεβαιώνει ἀϰόμη πώς δέ λείπω.
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου.
Φορές–φορές, τήν ὥρα πού βραδιάζει, ἔχω τήν αἴσθηση
πώς ἔξω ἀπ’ τά παράθυρα περνάει ὁ ἀρϰουδιάρης μέ τήν γριά βαριά του ἀρϰούδα
μέ τό μαλλί της ὅλο ἀγϰάθια ϰαί τριβόλια
σηϰώνοντας σϰόνη στό συνοιϰιαϰό δρόμο
ἕνα ἐρημιϰό σύννεφο σϰόνη πού θυμιάζει τό σούρουπο
ϰαί τά παιδιά ἔχουν γυρίσει σπίτια τους γιά τό δεῖπνο ϰαί δέν τ᾿ἀφήνουν πιά νά βγοῦν ἔξω
μ᾿ὅλο πού πίσω ἀπ᾿ τούς τοίχους μαντεύουν τό περπάτημα τῆς γριᾶς ἀρϰούδας –
ϰ᾿ἡ ἀρϰούδα ϰουρασμένη πορεύεται μές στή σοφία τῆς μοναξιᾶς της, μήν ξέροντας γιά ποῦ ϰαί γιατί –
ἔχει βαρύνει, δέν μπορεῖ πιά νά χορεύει στά πισινά της πόδια δέν μπορεῖ νά φοράει τή δαντελένια σϰουφίτσα της νά διασϰεδάζει τά παιδιά, τούς ἀργόσχολους τούς ἀπαιτητιϰούς,
ϰαί τό μόνο πού θέλει εἶναι νά πλαγιάσει στό χῶμα
ἀφήνοντας νά τήν πατᾶνε στήν ϰοιλιά, παίζοντας ἔτσι τό τελευταῖο παιχνίδι της,
δείχνοντας τήν τρομερή της δύναμη γιά παραίτηση,
τήν ἀνυπαϰοή της στά συμφέροντα τῶν ἄλλων, στούς ϰρίϰους τῶν χειλιῶν της, στήν ἀνάγϰη τῶν δοντιῶν της,
τήν ἀνυπαϰοή της στόν πόνο ϰαί στή ζωή
μέ τή σίγουρη συμμαχία τοῦ θανάτου – ἔστω ϰ᾿ἑνός ἀργοῦ θανάτου –
τήν τελιϰή της ἀνυπαϰοή στό θάνατο μέ τή συνέχεια ϰαί τή γνώση τῆς ζωῆς
πού ἀνηφοράει μέ γνώση ϰαί μέ πράξη πάνω ἀπ᾿τή σϰλαβιά της.
Μά ποιός μπορεῖ νά παίξει ὡς τό τέλος αὐτό τό παιχνίδι;
Κ᾿ἡ ἀρϰούδα σηϰώνεται πάλι ϰαί πορεύεται
ὑπαϰούοντας στό λουρί της, στούς ϰρίϰους της, στά δόντια της,
χαμογελώντας μέ τά σϰισμένα χείλια της στίς πενταροδεϰάρες πού τίς ρίχνουνε τά ὡραῖα ϰαί ἀνυποψίαστα παιδιά
(ὡραῖα ἀϰριβῶς γιατί εἶναι ἀνυποψίαστα)
ϰαί λέγοντας εὐχαριστῶ. Γιατί οἱ ἀρϰοῦδες πού γεράσανε
τό μόνο πού ἔμαθαν νά λένε εἶναι: εὐχαριστῶ, εὐχαριστῶ.
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου.
Τοῦτο τό σπίτι μέ πνίγει. Μάλιστα ἡ ϰουζίνα
εἶναι σάν τό βυθό τῆς θάλασσας. Τά μπρίϰια ϰρεμασμένα γυαλίζουν
σά στρογγυλά, μεγάλα μάτια ἀπίθανων ψαριῶν,
τά πιάτα σαλεύουν ἀργά σάν τίς μέδουσες,
φύϰια ϰι ὄστραϰα πιάνονται στά μαλλιά μου – δέν μπορῶ νά τά ξεϰολλήσω ὕστερα,
δέν μπορῶ ν’ ἀνέβω πάλι στήν ἐπιφάνεια –
ὁ δίσϰος μοῦ πέφτει ἀπ’ τά χέρια ἄηχος, – σωριάζομαι
ϰαί βλέπω τίς φυσαλίδες ἀπ’ τήν ἀνάσα μου ν’ ἀνεβαίνουν, ν’ ανεβαίνουν
ϰαί προσπαθῶ νά διασϰεδάσω ϰοιτάζοντάς τες
ϰι ἀναρωτιέμαι τί θά λέει ἄν ϰάποιος βρίσϰεται ἀπό πάνω ϰαί βλέπει αὐτές τίς φυσαλίδες,
τάχα πώς πνίγεται ϰάποιος ἤ πώς ἕνας δύτης ἀνιχνεύει τούς βυθούς;
Κι ἀλήθεια δέν εἶναι λίγες οἱ φορές πού ἀναϰαλύπτω ἐϰεῖ, στό βάθος τοῦ πνιγμοῦ,
ϰοράλλια ϰαί μαργαριτάρια ϰαί θησαυρούς ναυαγισμένων πλοίων,
ἀπρόοπτες συναντήσεις, ϰαί χτεσινά ϰαί σημερινά ϰαί μελλούμενα,
μιάν ἐπαλήθευση σχεδόν αἰωνιότητας,
ϰάποιο ξανάσασμα, ϰάποιο χαμόγελο ἀθανασίας, ὅπως λένε,
μιάν εὐτυχία, μιά μέθη, ϰ’ ἐνθουσιασμόν ἀϰόμη,
ϰοράλλια ϰαί μαργαριτάρια ϰαί ζαφείρια·
μονάχα πού δέν ξέρω νά τά δώσω – ὄχι, τά δίνω·
μονάχα πού δέν ξέρω ἄν μποροῦν νά τά πάρουν – πάντως ἐγώ τά δίνω.
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου.
Μιά στιγμή, νά πάρω τή ζαϰέτα μου.
Τοῦτο τόν ἄστατο ϰαιρό, ὅσο νἆναι, πρέπει νά φυλαγόμαστε.
Ἔχει ὑγρασία τά βράδια, ϰαί τό φεγγάρι
δέ σοῦ φαίνεται, ἀλήθεια, πώς ἐπιτείνει τήν ψύχρα;
Ἄσε νά σοῦ ϰουμπώσω τό πουϰάμισο – τί δυνατό τό στῆθος σου,
– τί δυνατό φεγγάρι, – ἡ πολυθρόνα, λέω – ϰι ὅταν σηϰώνω τό φλιτζάνι ἀπ’ τό τραπέζι
μένει ἀπό ϰάτω μιά τρύπα σιωπή, βάζω ἀμέσως τήν παλάμη μου ἐπάνω
νά μήν ϰοιτάξω μέσα, – ἀφήνω πάλι τό φλιτζάνι στή θέση του·
ϰαί τό φεγγάρι μιά τρύπα στό ϰρανίο τοῦ ϰόσμου – μήν ϰοιτάξεις μέσα,
εἶναι μιά δύναμη μαγνητιϰή πού σέ τραβάει – μήν ϰοιτάξεις, μήν ϰοιτᾶχτε,
ἀϰοῦστε με πού σᾶς μιλάω – θά πέσετε μέσα. Τοῦτος ὁ ἴλιγγος
ὡραῖος, ἀνάλαφρος – θά πέσεις, –
ἕνα μαρμάρινο πηγάδι τό φεγγάρι,
ἴσϰιοι σαλεύουν ϰαί βουβά φτερά, μυστηριαϰές φωνές – δέν τίς ἀϰοῦτε;
Βαθύ–βαθύ τό πέσιμο,
βαθύ–βαθύ τό ἀνέβασμα,
τό ἀέρινο ἄγαλμα ϰρουστό μές στ’ ἀνοιχτά φτερά του,
βαθειά–βαθειά ἡ ἀμείλιϰτη εὐεργεσία τῆς σιωπῆς, –
τρέμουσες φωταψίες τῆς ἄλλης ὄχθης, ὅπως ταλαντεύεσαι μές στό ἴδιο σου τό ϰύμα,
ἀνάσα ὠϰεανοῦ. Ὡραῖος, ἀνάλαφρος
ὁ ἴλιγγος τοῦτος, – πρόσεξε, θά πέσεις. Μήν ϰοιτᾶς ἐμένα,
ἐμένα ἡ θέση μου εἶναι τό ταλάντευμα – ὁ ἑξαίσιος ἴλιγγος. Ἔτσι ϰάθε ἀπόβραδο
ἔχω λιγάϰι πονοϰέφαλο, ϰάτι ζαλάδες.
Συχνά πετάγομαι στό φαρμαϰεῖο ἀπέναντι γιά ϰαμιάν ἀσπιρίνη,
ἄλλοτε πάλι βαριέμαι ϰαί μένω μέ τόν πονοϰέφαλό μου
ν᾿ἀϰούω μές στούς τοίχους τόν ϰούφιο θόρυβο πού ϰάνουν οἱ σωλῆνες τοῦ νεροῦ,
ἢ ψήνω ἕναν ϰαφέ, ϰαί, πάντα ἀφηρημένη,
ξεχνιέμαι ϰ᾿ἑτοιμάζω δυό – ποιός νά τόν πιεῖ τόν ἄλλον; –
ἀστεῖο ἀλήθεια, τόν ἀφήνω στό περβάζι νά ϰρυώνει
ἢ ϰάποτε πίνω ϰαί τόν δεύτερο, ϰοιτάζοντας ἀπ᾿τό παράθυρο τόν πράσινο γλόμπο τοῦ φαρμαϰείου
σάν τό πράσινο φῶς ἑνός ἀθόρυβου τραίνου πού ἔρχεται νά μέ πάρει
μέ τά μαντίλια μου, τά σταβοπατημένα μου παπούτσια, τή μαύρη τσάντα μου, τά ποιήματά μου,
χωρίς ϰαθόλου βαλίτσες – τί νά τίς ϰάνεις;
Ἄφησέ με νἄρθω μαζί σου.
Ἄ, φεύγεις; Καληνύχτα. Ὄχι, δέ θἄρθω. Καληνύχτα.
Ἐγώ θά βγῶ σέ λίγο. Εὐχαριστῶ. Γιατί ἐπιτέλους, πρέπει νά βγῶ ἀπ᾿ αὐτό τό τσαϰισμένο σπίτι.
Πρέπει νά δῶ λιγάϰι πολιτεία, – ὄχι, ὄχι τό φεγγάρι –
τήν πολιτεία μέ τά ροζιασμένα χέρια της, τήν πολιτεία τοῦ μεροϰάματου,
τήν πολιτεία πού ὁρϰίζεται στό ψωμί ϰαί στή γροθιά της,
τήν πολιτεία πού ὅλους μας ἀντέχει στήν ράχη της
μέ τίς μιϰρότητές μας, τίς ϰαϰίες, τίς ἔχτρες μας,
μέ τίς φιλοδοξίες, τήν ἄγνοιά μας ϰαί τά γερατειά μας,–
ν’ ἀϰούσω τά μεγάλα βήματα τῆς πολιτείας,
νά μήν ἀϰούω πιά τά βήματά σου μήτε τά βήματα τοῦ Θεοῦ, μήτε ϰαί τά διϰά μου βήματα. Καληνύχτα.
(Τό δωμάτιο σϰοτεινιάζει. Φαίνεται πώς ϰάποιο σύννεφο θἄϰρυβε τό φεγγάρι. Μονομιᾶς, σάν ϰάποιο χέρι νά δυνάμωσε τό ραδιόφωνο τοῦ γειτονιϰοῦ μπάρ, ἀϰούστηϰε μία πολύ γνώστη μουσιϰή φράση. Καί τότε ϰατάλαβα πώς ὅλη τούτη τή σϰηνή τή συνόδευε χαμηλόφωνα ἡ «Σονάτα τοῦ Σεληνόφωτος», μόνο τό πρῶτο μέρος. Ὁ Nέος θά ϰατηφορίζει τώρα μ᾿ ἕνα εἰρωνιϰό ϰ᾿ ἴσως συμπονετιϰό χαμόγελο στά ϰαλογραμμένα χείλη του ϰαί μ᾿ ἕνα συναίσθημα ἀπελευθέρωσης. Ὅταν θά φτάσει ἀϰριβῶς στόν Ἅη-Νιϰόλα, πρίν ϰατεβεῖ τή μαρμαρίνη σϰάλα, θά γελάσει, -ἕνα γέλιο δυνατό, ἀσυγϰράτητο. Τό γέλιο του δέ θ᾿ ἀϰουστεῖ ϰαθόλου ἀνάρμοστα ϰάτω ἀπ᾿ τό φεγγάρι. Ἴσως τό μόνο ἀνάρμοστο νἆναι τό ὅτι δέν εἶναι ϰαθόλου ἀνάρμοστο. Σέ λίγο, ὁ Νέος θά σωπάσει, θά σοβαρευτεῖ ϰαί θά πεῖ «Ἡ παραϰμή μιᾶς ἐποχῆς». Ἔτσι, ὁλότελα ἥσυχος πιά, θά ξεϰουμπώσει πάλι τό πουϰάμισό του ϰαί θά τραβήξει τό δρόμο του. Ὅσο γιά τή γυναίϰα μέ τά μαῦρα, δέν ξέρω ἂν βγῆϰε τελιϰά ἀπ᾿ τό σπίτι. Τό φεγγαρόφωτο λάμπει ξανά. Καί στίς γωνιές τοῦ δωματίου οἱ σϰιές σφίγγονται ἀπό μίαν ἀβάσταχτη μετάνοια, σχεδόν ὀργή, ὄχι τόσο γιά τή ζωή ὅσο γιά τήν ἄχρηστη ἐξομολόγηση. Ἀϰοῦτε; τό ραδιόφωνο συνεχίζει):
Γιάννης Ρίτσος
Ἀθήνα, Ἰούνιος, 1956
4.
MORNING IN THE BURNED HOUSE
In the burned house I am eating breakfast.
You understand: there is no house, there is no breakfast,
yet here I am.
The spoon which was melted scrapes against
the bowl which was melted also.
No one else is around.
Where have they gone to, brother and sister,
mother and father? Off along the shore,
perhaps. Their clothes are still on the hangers,
their dishes piled beside the sink,
which is beside the woodstove
with its grate and sooty kettle,
every detail clear,
tin cup and rippled mirror.
The day is bright and songless,
the lake is blue, the forest watchful.
In the east a bank of cloud
rises up silently like dark bread.
I can see the swirls in the oilcloth,
I can see the flaws in the glass,
those flares where the sun hits them.
I can’t see my own arms and legs
or know if this is a trap or blessing,
finding myself back here, where everything
in this house has long been over,
kettle and mirror, spoon and bowl,
including my own body,
including the body I had then,
including the body I have now
as I sit at this morning table, alone and happy,
bare child’s feet on the scorched floorboards
(I can almost see)
in my burning clothes, the thin green shorts
and grubby yellow T-shirt
holding my cindery, non-existent,
radiant flesh. Incandescent.
(Margaret Atwood, Morning in the burned house, Toronto, McClelland & Stewart, 1995).
5.
Первые свидания
Свиданий наших каждое мгновенье,
Мы праздновали, как богоявленье,
Одни на целом свете. Ты была
Смелей и легче птичьего крыла,
По лестнице, как головокруженье,
Через ступень сбегала и вела
Сквозь влажную сирень в свои владенья
С той стороны зеркального стекла.
Когда настала ночь, была мне милость
Дарована, алтарные врата
Отворены, и в темноте светилась
И медленно клонилась нагота,
И, просыпаясь: “Будь благословенна!” –
Я говорил и знал, что дерзновенно
Мое благословенье: ты спала,
И тронуть веки синевой вселенной
К тебе сирень тянулась со стола,
И синевою тронутые веки
Спокойны были, и рука тепла.
А в хрустале пульсировали реки,
Дымились горы, брезжили моря,
И ты держала сферу на ладони
Хрустальную, и ты спала на троне,
И – Боже правый! – ты была моя.
Ты пробудилась и преобразила
Вседневный человеческий словарь,
И речь поьгорло полнозвучной силой
Наполнилась, и слово ты раскрыло
Свой новый смысл и означало: царь.
На свете все преобразилось, даже
Простые вещи – таз, кувшин, – когда
Стояла между нами, как на страже,
Слоистая и твердая вода.
Нас повело неведомо куда.
Пред нами расступались, как миражи,
Построенные чудом города,
Сама ложилась мята нам под ноги,
И птицам с нами было по дороге,
И рыбы поднимались по реке,
И небо развернулось перед нами…
Когда судьба по следу шла за нами,
Как сумасшедший с бритвою в руке.
7.
В тот год, когда девушки
Впервые прозвали меня стариком
И говорили мне: «Дедушка», — вслух презирая
Оскорбленного за тело, отнюдь не стыдливо
Поданное, но не съеденное блюдо,
Руками длинных ночей,
В лечилицах здоровья, —
В это<м> я ручье Нарзана
Облил тело свое,
Возмужал и окреп
И собрал себя воедино.
Жилы появились на рук<ах>,
Стала шире грудь,
Борода шелковистая
Шею закрывала.
7+1
Matins
The sun shines; by the mailbox, leaves
of the divided birch tree folded, pleated like fins.
Underneath, hollow stems of the white daffodils, Ice Wings,
Cantatrice; dark
leaves of the wild violet. Noah says
depressives hate the spring, imbalance
between the inner and the outer world. I make
another case — being depressed, yes, but in a sense
passionately
attached to the living tree, my body
actually curled in the split trunk, almost at peace,
in the evening rain
almost able to feel
sap frothing and rising: Noah says this is
an error of depressives, identifying
with a tree, whereas the happy heart
wanders the garden like a falling leaf, a figure for
the part, not the whole.
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