Giancarlo Cavallo, Tra respiro e ignoto, Multimedia edizioni, Baronissi (SA), 2023, pp. 59. Con disegni di Gaetano Bevilacqua; postfazione di Francesco Napoli.
Se, per Goethe, “il mondo si sorregge alle madri” è perché per millenni questo è stato e questo ancora dura. Così Giancarlo Cavallo, partendo dalle matres di Capua, indagandole scavandole, e cioè indagando e scavando in sé stesso, ci conduce con la sua ultima opera, la silloge poetica Tra respiro e ignoto, a un cammino generoso, ricco, aspro. “…Dicono che la bellezza ci salverà: no, siamo noi a dover salvare la bellezza”, dice e –cosa rara, per lui- quasi alza la voce, il poeta, in una presentazione a Trieste, in via San Michele, presso l’incantato 517SanVito Studio d’arte e design (Chiara, Edoardo, Gastone).
Cavallo è poeta di sicura forza, traduttore (sue ultime fatiche, Michel Cassir e Francis Combes – con Rossella Nicolò), animatore culturale nella sua Salerno e, un po’ più all’interno, in quella Baronissi in cui vivono e costruiscono reti d’affetti e di poesia Raffaella Marzano e Sergio Iagulli. Grande e bella famiglia, tra la Casa della poesia di Baronissi, gli Incontri internazionali di Poesia di Sarajevo (dal 2002 al 2011) e altri luoghi e posti –Napoli, Pistoia, Desenzano…- dove stare e amare, e dove sono venuti ad amare stare raccontare poeti/e da ogni parte del mondo, sotto il segno di Izet Sarajlić e di Jack Hirschman, di Etel Adnan e di Francisca Aguirre. È in questo campo che nascono le poesie di Cavallo, e cioè a contatto con il mondo intero. Il pianeta è lì sotto, scavando.
Si può rintracciare un’architettura in questa raccolta? Forse sì, umilmente azzardando. Ci sono tre sezioni: “Matres Variazioni”; “Paestum: tra respiro e ignoto”; “Sacrificio 2022” – e ci sono i disegni di Gaetano Bevilacqua e la Postfazione di Francesco Napoli, parti integranti del libro. La prima sezione va da un “Frammento 0”: ab origine, suoni inarticolati, caos che non diventa cosmo e che, almeno in prima battuta, non si addensa in forme compiute; con a fianco un disegno di Bevilacqua, il primo, in cui dallo strato più buio della terra nascono lettere e dentro al secondo strato, più caldo e sabbioso, si avvicinano alla superficie azzurra. Le lettere, dall’alto verso il basso, sono d a r m e, con qualche segno di interpunzione (un punto, un punto fermo, due punti come due occhietti rossi o la puntura d’una vipera, un apostrofo). Ma: d a r m e (dare a me?) ci dà, in anagramma (nelle lingue che conosco almeno un poco e seguendo alcune lancinanti suggestioni di Mario Mieli), madre / derma / merda / dream / drame: così forte è l’origine, così frammentata, così inarticolata da non poter nascondere, però, eruzioni come formazione/formazioni di parole. E la prima sezione termina con “Frammento ∞ In finem infinitum”, un testo che riassume, con la tecnica del cut up (centrale in 26 tribute to twenty-six dead women, precedente poemetto di Cavallo, del 2020), l’intero cammino iniziale. La seconda sezione, “Paestum: Tra respiro e ignoto”, si apre con “Rosa di Paestum” (a introdurre il tema, qui non iniziatico, della rosa) e si chiude con la nona poesia, “Quello che resta”. La terza sezione, “Sacrificio 2022: ultimo atto”, si apre con “Capro espiatorio” (qui a introdurre il tema della rituale quotidiana ferocia) e si chiude con “Quello che resterà. A Rossella”. E quello che resterà è “Amore / Anima”. Per sintetizzare: la raccolta sembra aprirsi con un’origine difettosa e problematica (ab origine) e chiudersi, dopo aver anche attraversato l’apocalissi-rivelazione dei nostri giorni, con un sogno spudorato di poesia e di gioia (ad rosam). Ab origine ad rosam, allora: “…ti amo come hanno amato / per secoli i poeti: / senza difese, senza pudore…” (pag. 48). Qui la parola si ricovera rosseggiando su per il corpo di una donna, priva di testa e di arti inferiori come un torso di statua antica, come un torso-tronco, nell’ultimo disegno di Bevilacqua, tronco da cui crescono foglie.
Individuare un’architettura interna non significa voler a tutti i costi irrigidire un’opera, fatta di singoli e autonomi testi, in una struttura, ma semplicemente contribuire a dare senso al frammento grazie al tutto e al tutto grazie alle sue parti. Che sono prodigiose. Cuore della raccolta (uno dei cuori) è la poesia “Il lato oscuro” che fornisce, nell’ultimo verso, il titolo dell’intera opera. L’immagine iniziale è quella del tuffatore, fermo immagine-madre, “fotogramma eterno”, come nella parte superiore/interna della tomba del tuffatore, scoperta massima (1968) dell’archeologo Mario Napoli e della sua équipe: da quel miracolo a oggi, quanti versi, quanti sogni, quante interpretazioni. Giancarlo Pontiggia (“Una svolta, fine, poi. / È quel poi che lo assilla. / Come ferve, dietro di sé, l’antico / bulicame delle cose. Buttarsi non / buttarsi. Un ramo oscilla / sul ciglio dell’occhio che precipita / in un’ardesia di fuoco, / immane”); Roberto Mussapi (“Io sono l’anima di tuo padre, il tuffatore: / ti ho seguito ogni giorno, ti sono accanto / conosco come da allora le tue zone d’ombra, / il linguaggio dei moti tracciato dalla tua faccia, / niente è cambiato da allora, in questo senso…”); Tommaso Di Francesco in una raccolta del 1992 dal titolo Tuffatori e un chiaro rimando, qui, ai ragazzi che si gettavano, e si gettano, dal ponte di Mostar, nella guerra feroce attorno – e il ponte e i tuffi spezzati, ora ricostruiti; Claude Lanzmann, La tombe du divin plongeur (La tomba del divino tuffatore – raccolta di articoli, non tradotta in italiano), 2014; Nicola Bottiglieri, La tomba del tuffatore (2018); e infine un romanzo di Elena Stancanelli del 2022, Il tuffatore, in cui la scrittrice racconta la vita di Raul Gardini. In copertina di quest’ultimo libro un fermo immagine, l’ennesimo, in inizio terzo millennio. In tutti questi testi, e in quello di Cavallo, il tuffatore è lettera e metafora: armonia di corpi, aerea compostezza, simmetria e coraggio, ma anche passaggio ad altra fase, altra dimensione, cammino come scopo – ma grande risorsa: dal fermo immagine si può avanzare e vedere il tuffatore immergersi nell’acque, oppure guardare il corpo risalire sul trampolino/torre. Innovativa è la lettura proposta da Tonio Hölscher in un saggio del 2023, Il tuffatore di Paestum. Cultura del corpo, eros e mare nella Grecia antica: “…Il tuffo raffigurato nella tomba di Paestum è stato spesso interpretato come prova di iniziazione. Ma non è l’iniziazione alla beatitudine nell’oltretomba, bensì il passaggio a una nuova fase della vita…” (pag. 39 dell’edizione italiana, presso Carocci). Hölscher scioglie la scelta tra escatologia e vita reale a favore di quest’ultima e contro la tendenza a trovare simboli/allegorie/metafore al posto della lettera. Cavallo, invece, ci sembra mantenere la continuità tra lettera e metafora. “Amici oltre la morte per brindare / al dono dolce e breve della vita…”: così inizia il testo “Il tuffatore” di Cavallo, che non si ispira solamente alla lastra che chiude la tomba, ma anche ai disegni laterali che riproducono un simposio. Tra Grecia ed Etruria (gli “etruschi di frontiera”, sul Sele, e nel bel museo di Pontecagnano), questo coglie Cavallo: un passaggio che dura, un indizio assoluto, un transito irrisolto che però mantiene il legame con la lettera, con l’immagine che produce tutto il resto, qui come in altri testi della sezione. Egli non risolve la dualità escatologia/vita reale, ma la mantiene in vita, se ne nutre e la nutre: mantiene, cioè, l’interrogativo creante.
I primi testi della seconda sezione sono generativi di altre immagini e altri testi non solo per quanto riguarda l’oggetto della ricerca poetica, ma anche il ruolo del poeta, così legato, in asindeto: “…un ladro un archeologo un poeta / scavando danno in sorte un’altra vita / o forse nella luce un’altra morte” (“Scavando”). Fa bene Francesco Napoli (sia detto per inciso, figlio di quel Mario che scoprì la tomba del tuffatore e a cui Hölscher tributa un bell’omaggio…), nella postfazione, a chiarire subito questo nesso: “Credo sia una questione di metodo: Archeologia e Poesia sono molto prossime (…) Un buon archeologo deve avere buone gambe, questo è risaputo, e così il poeta…” – così un agrimensore. E così il tuffatore può essere avvicinato ad altre figure analoghe, nel Novecento poetico italiano: il palombaro di Govoni; il poeta-nuotatore che si immerge nelle acque del porto sepolto, in Ungaretti (in Cavallo si legge “sull’antico sepolto mare di Paestum”, mentre sono “sepolte da millenni” le lastre della tomba – ciò che è sepolto genera, aiutato da levatrici femmine e maschi); e infine chi si cala nella terra, come il minatore di Caproni, e l’archeologo e/o il ladro e la figura che riassume queste ultime due: il tombarolo, il sensitivo Arthur che, nel film di Alice Rohrwacher Chimera (2023), cerca un varco, un cunicolo sotterraneo capace di fargli raggiungere l’amata e perduta Beniamina. Nei versi di Cavallo appena sopra citati, infine, viene data alla luce “un’altra morte”, forse una morte seconda nella forza dell’ossimoro luce/morte, per decostruire entrambe.
I due termini del titolo, respiro/ignoto, sono vitalissimi: servono buone gambe ma anche buon respiro per calarsi, immergersi nell’ignoto. Il fascino dell’ignoto, in Novalis, può essere lontana fonte della raccolta di Cavallo: ma anche altro vi agisce. Il tema della tana/grembo, ad esempio, e quello connesso dell’utero che genera vita e che raccoglie quest’ultima dopo la morte, nella morte. Ed è tema ben esplorato da Marija Gimbutas: nasciamo da un ventre materno, che è acqua, è terra umida, pozza, antro, grotta; la terra poi sorregge i nostri passi; la stessa terra infine ci accoglie come grembo finale, tomba. E tutta la prima sezione vive di questo rapporto di limite, di lembi che si toccano, prima sfiorandosi e poi compenetrandosi, così come si sfiorano e si compenetrano la vita e la morte. “Il mondo si sorregge alle madri…”, così abbiamo iniziato, ma a quali madri? La Mater di Cavallo è obscura / maligna / incesta [non casta] / matuta / algida / nocturna / petrosa / imperitura / antithetica, e cioè riassume in sé le feroci contraddizioni e i più dolci sollievi che alla specie umana sono dati. Se da un lato vi è una “prolifica madre multimammellare” (come l’Artemide dei Musei capitolini) che, diventata mater matuta e cioè stella mattutina, “partorisce il seme / matriarcale di una nuova aurora”; dall’altro la minaccia della pietrificazione è costantemente presente: in Mater incesta troviamo “madre e figlio uniti nell’amplesso / di pietra dura e densa millenaria”; in Mater algida c’è una “madre di pietra / (…) scultorea materia indifferente” che stronca ogni “illusione d’amore tra gli umani”; in Mater petrosa troviamo un “erotismo pietrificato / dal tuo sguardo castrante meduseo”; e infine l’utero umido e sorgente di ogni cosa diventa, in Mater imperitura, “utero di pietra / (…) roccia cristallo ghiaccio siderale”. Questa radicale duplicità delle matres ci fa riflettere, però, sul legame, in parte giustificato dall’etimologia, che si crea tra mater e materia: “antimaterica madre antimaterna”, scrive Cavallo in Mater antithetica, testo tra i più inquietanti. È possibile che la madre si sia così allontanata dalla forza avvolgente/accogliente della mater / materia? È possibile che non porti con sé almeno un poco del significato originario di materia che è anche legno scortecciato, nutrimento, etc.? In realtà, se pensiamo più a fondo, se scaviamo, ci accorgiamo che proprio nella consistenza della materia, e persino della pietra/roccia, vi è molto di quel flusso vitale rintracciabile nella natura nutriente della mater: c’è coincidenza non degli opposti, ma di ciò che è radicalmente simile, materia nutriente, quindi, non solo sorda passività ma quanto permette l’emersione. Solo immergendosi (nell’acqua, nella terra) si può riemergere in gioia e creatività, solo “disfacendo discreando distruggendo / (…) dissipando disperando disdicendo / in fine di frammento dispoetando” (sempre in Mater antithetica), oppure “disboscando / disamando dispoetando” (qui ci affacciamo alla terza sezione, la poesia “Parabola”) si può raggiungere la forma crescente, il frutto più dolce, la dimensione della vita retta. Ma certo non è il male necessario per raggiungere un bene (non c’è male che possa far bene): è il bene del percorso stesso, la dolcezza della profondità, la ricchezza delle dimensioni altre rispetto a quelle della superficie e della poco rassicurante posizione eretta. Così assumono valore non necessariamente negativo alcune immagini come quelle delle “nere stelle del mattino” (in Mater incesta – tra la cronaca nera di un programma televisivo e l’astronomia), che pure inevitabilmente rimandano alla ferocia del Novecento (alla Shoah, in questo caso) in un testo di Paul Celan: “Nero latte dell’alba lo beviamo la sera / lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo di notte / beviamo e beviamo / scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti…” (in “Fuga di morte”). Suggestiva, per il nostro discorso, è quella “tomba nell’aria”, ma anche la valenza negativa del colore nero, che è invece anche il colore della forza ctonia, dell’umidità in cui le forme della vita si mescolano e si impastano in aggregati continuamente nuovi. Per Primo Levi –amante della luce e della semplicità, della vita come del verso- “Le stelle nere”, in un testo del 1974, sono segno della vanità del tutto: “…E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla, / E i cieli si convolgono perpetuamente invano.”
È nella terza sezione “Sacrificio 2022: ultimo atto” che i nodi della raccolta vengono a comporsi in groviglio finale, che è il groviglio della Storia nuovamente/sfacciatamente tornata a essere orrido accumulo di violenza. Una violenza che nessuna ritualizzazione riesce a placare, a domare. Anzi, il rito rischia di confermare l’orrore, di lavarlo dalla sua oscenità: leggiamo in “Capro espiatorio”, primo testo dell’ultima sezione, di un “sacro sangue” che “purifica i solchi delle rughe / purifica le mie mani / d’assassino”; nel secondo, “Les mains sales” (con richiamo a Sartre), leggiamo ancora di un “sacro sangue del capro” e, in fine testo, di un’azione primordiale e così primitiva da essere ipermoderna e a noi contemporanea: “…Sgozzare con le mani. / Le nostre mani / lorde di sangue.” Ecco, non c’è speranza, non c’è ritualizzazione possibile, non c’è salvezza. Questa è la civiltà umana, il suo culmine, il suo momento di rivelazione, in “Apocalittica”: “…Brucia il bosco bruciano le case / tempesta divora distrugge dilava / dilapidati tesori sapienziali. / Ignari inerti inani inutili / miserabili accumulatori di inezie: / eccoci alla Fine senza giudizio / senza il conforto della giusta / inevitabile condanna.” Il diritto di essere puniti… Parallelismi, accumulo di verbi e di aggettivi (cinque, addirittura, a scortare un solo sostantivo, “accumulatori” – altri aggettivi moltiplicati sono in ogni parte della raccolta, significativamente ancora cinque in “Imperfetto presente”: “…arcana misterica ignota ignea / adamantina Verità…”), in “puro stile elencativo”, suggerisce Francesco Napoli. E questo accostare i termini, in versi che sono spesso perfetti endecasillabi, dà un suggello formale alla costernazione/indignazione dinanzi all’ulteriore gara di violenza, al sempre rinnovato ciclo di morte volontariamente inflitta. Assiste a tutto questo una Grande Madre “semplicemente resiliente / (…) natura mortalmente vitale / vitalissimamente mortale.”, in ossimoro e chiasmo. Le matres e la madre/materia della prima sezione, diventano ora la Grande Madre e cioè la Natura che nell’operetta morale di Leopardi “Dialogo della natura e di un islandese” assiste indifferente al destino dell’essere umano: ella non vuole colpirlo, ma è la potenza anonima dell’esistente a perseguitarlo, a dargli la caccia, a farlo finire nel ridicolo (Leopardi come, sia pure in modo storicamente diverso, Kafka ridono, nei propri testi, della razza umana e dei singoli individui che ne fanno parte). Quel Leopardi che cita Terenzio Mamiani nella Ginestra, a sua volta citato da Cavallo in “Imperfetto presente”: “…invidio la tua morte senza macchia / la tua inappartenenza al secolo / alle magnifiche sorti e progressive…” Nella sezione finale è il secolo, cioè il presente, a farsi protagonista: dimenticate le “viscere dei secoli” (in Mater maligna), messe da parte mitologia e archeologia, è la contemporaneità, è un nuovo tempo verbale a prendersi la scena: “…Il nostro risibile tempo, scadente, / scaduto, inferno presente remoto / vento incessante ghiaccio e fuoco / rovente ghiaccio e gelido fuoco / e vento d’avvampante follia…”, in “Ultimo atto”. Non riuscendo a praticare il tempo della rivoluzione (qualunque forma questa abbia preso, persino le peggiori) che è il futuro anteriore, è in questo presente remoto che tutto annaspa, ripetendosi stancamente, schianto e piagnisteo al tempo stesso. Avvicinandosi alla fine della raccolta ci si avvicina, non iniziaticamente (lo ribadiamo), alla rosa: che è corpo caldo e memoria letteraria (Saffo, Ovidio, Catullo espressamente evocati), è un nome, in dedica e negli ultimi versi: “…inebriato dal profumo di Rosa / appena risvegliata dai tuoi sogni / anima amore / quello che resta della polvere dei secoli / di Saffo, di Ovidio, di Catullo, di noi / quello che resterà / Amore / Anima”. Non si tratta di una soluzione, impossibile da trovare da dentro il cuore dei misfatti, ma di un lascito. Se Quello che resta (nono testo della seconda sezione) è un lungo elenco di bei momenti –sembra di leggere un frammento di Il sale della vita (2012) di Françoise Héritier-, chiuso dai versi finali “…Quello che sempre infine resta: / la vita la morte l’amore la vita.” (in epanadiplosi, dice Cavallo, figura retorica da lui prediletta); Quello che resterà (ultimo testo della terza e ultima sezione) è fatto di due parole, Amore/Anima, e cioè fiato, respiro, aria, soffio, vento e spirito vitale che finalmente hanno adottato un nome nel tempo verbale non della rivoluzione ma nemmeno in quello del ristagno: crediamo nel futuro semplice (resterà e non solo resta, pur splendido) e nella semplicità del futuro, che è lento traguardo non da poco.
Gianluca Paciucci
Lascia un commento