Secondo la Teoria del Mondo Piccolo tra due qualsiasi oggetti, punti o persone vi sono non più di sei gradi di separazione. Così ipotizzava nel 1929 lo scrittore ungherese Frigyes Karinthy nel racconto uscito anonimo Catene. Sette poesie, sei gradi e un solo racconto tessuto a quattordici mani: questa la nostra rubrica in Potlatch.
1.
Le femmine sono stupende
Le femmine sono tacche nei quaderni dei ragazzi
Le femmine fanno bene all’ego
Le femmine sono belle e anche intelligenti
Le femmine sono un pericolo costante non solo al volante
ti incastrano tirano più di un carro di buoi
Le femmine sono organi genitali, bei pezzi di organi genitali
e anche ortaggi
Le femmine la danno o non la danno
donne danno fanno l’uomo e lo disfanno
Le femmine sono come la birra
un colore per ogni gusto
Le femmine sono costole sesso debole
Le femmine sono misurabili
nelle pubblicità di letti motori gioie dolori.
Ma io conosco femmine che lavorano nei call center delle assicurazioni e crescono i bambini sole che percorrono chilometri a piedi sulla cresta dei monti Appalachi e non
hanno paura di dormire nel bosco di notte che si lanciano da trapezi e pareti camminano sul filo e insegnano circo ai detenuti che hanno abortito che non hanno abortito che
amano donne che amano uomini che soffiano sulle girandole e parlano con i fiori che girano il Sud America sole ma la notte tornano in taxi per timore degli assalitori che
dicono sì per dire sì e no per dire no che combattono nei reparti pediatrici di malattie spesso incurabili e se ne fregano dei capelli bianchi che per sopravvivere si son tolte
entrambi i seni e sono amazzoni travestite da avvocati che si fotografano con la parrucca rosa in testa dopo la chemio poi partoriscono una bimba la chiamano Dora come la nonna
che vivono ad occhi aperti
amano a piene mani
e sono femmine stupende
di debole non hanno proprio niente.
Francesca Gironi, Le femmine sono stupende, in Supernove. Poesie per gli anni 2000, Sartoria Utopia /VandA ePublishing, 2018.
Propongo Le femmine sono stupende di Francesca Gironi perché 1) è una poesia che fa storcere il naso agli studiosi laureati, i quali, come usa in casi come questi, non dicono che la poesia in questione sia brutta, ma che “non è poesia”; e 2) perché è una poesia (non me ne vogliano gli studiosi laureati di cui sopra) a cui ho visto dare dal pubblico di un poetry slam cinque 10, ovvero il massimo voto possibile. L’incrocio problematico di questi due dati me la rende particolarmente cara. E mi riempie di stupore. AMP
2.
Sii dolce con me. Sii gentile.
È breve il tempo che resta. Poi
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.
Una nostalgia d’imperfetto
ci gonfierà i fotoni lucenti.
Sii dolce con me.
Maneggiami con cura.
Abbi la cautela dei cristalli
con me e anche con te.
Quello che siamo
è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei
e affettivo e fragile. La vita ha bisogno
di un corpo per essere e tu sii dolce
con ogni corpo. Tocca leggermente
leggermente poggia il tuo piede
e abbi cura
di ogni meccanismo di volo
di ogni guizzo e volteggio
e maturazione e radice
e scorrere d’acqua e scatto
e becchettio e schiudersi o
svanire di foglie
fino al fenomeno
della fioritura,
fino al pezzo di carne sulla tavola
che è corpo mangiabile
per il mio ardore d’essere qui.
Ringraziamo. Ogni tanto.
Sia placido questo nostro esserci –
questo essere corpi scelti
per l’incastro dei compagni
d’amore.
Mariangela Gualtieri, in Bestia di gioia, Einaudi, Torino, 2010.
Le femmine di Gualtieri, anche se in forma umana, amano, e lo fanno senza genere nè specie.
Amano l’umano mutevole animale, il vegetale come il minerale.
Sono monadi-nomadi che zigzagando tra continui tremori abitano la terra ma ripiegano il mondo in un unico abbraccio.
In quel sospiro d’aria che ogni cosa tiene insieme. DR
3.
Le mani
Per cinque lunghi anni
ha tenuto il calcio del fucile:
la mano del soldato.
Essa è stata obbligata
ad abbattere l’amato cane:
la mano del cacciatore.
Essa per tutta la vita
scagliava dei colpi:
la mano del pugile.
Essa per tutta la vita
portava la bocca al bicchiere:
la mano dell’ubriacone.
Ed ecco anche la mano felice
che già da vent’anni
ti carezza.
Ecco anche la mano felice.
Izet Sarajlić, Le Mani (1968), in Chi ha fatto il turno di notte, Einaudi, 2012.
Sono le mani che uniscono Mariangela Gualtieri al poeta bosniaco Izet Sarajlić. Nella prima la loro mancanza in un’altra vita luminosissima, la nostalgia delle carezze e di guance da sfiorare. Nel secondo, mani che fanno esperienza di una vita intera. In entrambi mani che ci permettono di avvicinarci a ciò che ci sta di fronte, che è altro, di fare quello che più desideriamo ma anche ciò che non avremmo mai voluto fare. Di conoscere altre mani, altri corpi da toccare con dolcezza. Se Mariangela Gualtieri racconta quel momento in cui non avremo più mani per farlo, Izet Sarajlić nel 1968 ricorda quel tempo in cui le mani hanno combattuto, ammazzato, lottato, e bevuto. Ma anche quelle mani che per venti anni gli hanno permesso di accarezzare la moglie, quelle mani felici. Perché l’amore è per Sarajlić una cosa semplice, per cui non sevono grandi magie, ma solo due braccia con cui stringersi e due mani per esplorarsi. Lo stesso incastro dei compagni d’amore di cui parla Mariangela Gualtieri. Izet Sarajlić perde la moglie tanto amata nel 1997, a guerra terminata, lasciando versi che nella loro semplicità trasmettono il tangibile vuoto emotivo causato da questa scomparsa. “È breve il tempo che resta” dice Gualtieri, mentre Sarajlić vorrebbe recuperarlo quel tempo, quando in un’altra poesia della stessa raccolta, Fosse almeno l’anno 1993, scrive: “Magari fosse ancora quel terribile, quel tante volte maledetto anno 1993! Avrei ancora cinque anni pieni da poterti guardare e da tenerti per mano!”. Ancora le mani, primo strumento regalatoci per maneggiare con cura questi nostri corpi scelti. AT
4.
La dolcezza del cane dell’acrobata
esercita la pietas
di una mobile coda
per sollecitare
il gesto improbabile
della mano indifferente,
e il sonno sopra il letto
dell’amico potente
prima del maltempo della morte.
1958, autunno-inverno
Giorgio Manganelli, in Poesie, Crocetti Editore, 2022.
Another time, another place. Le cose ritornano. Però diverse. O forse le stesse. MB
5.
I passi
I tuoi passi, figli del mio silenzio,
santamente, lentamente posati,
verso il letto della mia attenta veglia
muti procedono, muti e gelati.
Ombra divina sei, persona pura,
e come dolci sono i trattenuti
tuoi passi! Dèi!… tutti i doni ch’io spero
tu me li rechi sui tuoi piedi nudi!
Se, colle labbra protese, t’appresti
a nutrir d’un bacio, a dare pace
a quel di me che m’abita i pensieri,
non affrettarlo un atto così tenero,
è dolce come l’essere il non essere,
perché io sono vissuto in quest’attesa
di voi, ed il mio cuore altro non era
che i vostri passi…
Paul Valéry, “Les pas” da Charmes (1922), Traduzione di Giorgio Ghiberti, 29 marzo 2019.
Il gesto atteso, sperato nonostante tutto, un gesto di amore che per Manganelli è “improbabile”, perché la mano è “indifferente”, da parte del cane dell’acrobata, è in fin dei conti la rappresentazione (scarna e quasi quotidiana nel lessico scelto dallo scrittore milanese) del più classico dei rapporti di forza, quello fra desiderante e desiderato. Se il cane dell’acrobata può essere inconsapevole di essere destinato all’eterna attesa di quel gesto, nella propria natura di animale, e si contenta di dormire sul letto dell’amico “potente” in attesa della morte che cancella ogni desiderio,
in Paul Valéry al contrario è chiarissima (e addirittura cercata) la tensione impossibile verso la persona amata.
I suoi passi sono, infatti, “figli del mio silenzio”, dolci perché trattenuti; nella terza strofa Valéry giunge al punto di invitare la persona a cui è dedicata la poesia a non affrettare il gesto del bacio che dovrebbe dargli pace, perché lui è “vissuto in quest’attesa di voi”. E tuttavia, come spesso accade nel grandissimo poeta francese, l’attesa e il desiderio si tingono di una sottile, elegante inquietudine e i movimenti dell’amata, che nella sua fantasia cammina con i piedi nudi, muti e gelati verso il suo letto (anche qui come in Manganelli si presenta l’eterna attesa sul giaciglio, il luogo-simbolo
dell’intimità negata) somigliano in tutto e per tutto ai gesti di un fantasma o di una succube. A poco vale rimarcare la dolcezza: sia nel testo di Manganelli che in quello di Valéry, per motivi diversi, l’elemento della tenerezza risulta sterile, nel primo caso perché dall’altra parte vi è una mano indifferente a questa dolcezza, nel secondo perché il poeta è innamorato di uno spettro, di un mostro o di una fantasia. Nel tempio del desiderio, il cane dell’acrobata e Paul Valéry aspettano entrambi la morte. MC
6.
Penso a come dire questa fragilità che è guardarti,
stare insieme a cose come bottoni o spille,
some le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone.
Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze
dove ci fermiamo davanti a noi un momento
con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso,
dopo la paura in ogni mano, o braccio, passo,
che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano.
Mario Benedetti, “A D.”, da Umana Gloria (2004).
La patologia di cui a quanto pare soffro nell’accostare questa poesia all’altra non lo so come si chiama. Mancanza, lutto, malinconia, nostalgia – ammetto ormai senza più vergogna di essere un soggetto malinconico, in passato mi sarei dovuta curare la milza. E questa patologia che ora vorrei chiamare bile nera è per chi è morto, per chi è ancora vivo, o per chi è semplicemente lontano, troppo lontano, a volte vicinissimo da fare male e disperare nella possibilità della sua mancanza. D’altronde Mario Benedetti soffriva anche lui di bile nera. È chiaro, no? Tutta Umana Gloria è un manifesto della bile nera. Della nostalgia di casa, della famiglia, della comunità, del paese.
I morti e i vivi sono sia vivi che morti. CDA
7.
La memoria finalmente
La memoria ha finalmente quel che cercava.
Si è trovata mia madre, mi è apparso mio padre.
Ho sognato per loro un tavolo, due sedie. Si sono seduti.
Erano di nuovo miei e per me di nuovo vivi.
Sono balenati con le due lampade del viso
all’imbrunire, come a Rembrandt.
Solo ora posso dire
In quanti sogni hanno vagato, in quante resse
li tiravo fuori da sotto le ruote,
in quante agonie da quante mani mi scivolavano.
Recisi – ricrescevano di traverso.
L’assurdità li costringeva alle mascherate.
Che importa se non potevano soffrirne fuori di me,
se ne soffrivano in me.
La turba sognata mi ha sentito chiamare “mamma”
qualcosa che saltellava pigolando su un ramo.
E si è riso del fiocco sulla testa di mio padre.
Mi risvegliavo con vergogna.
E infine,
una notte normale,
da un venerdì qualsiasi a un sabato,
mi sono arrivati così come li volevo.
Mi apparivano in sogno, ma come liberi da sogni,
obbedienti solo a sé stessi e a null’altro.
Nel fondo del quadro si erano spente tutte le possibilità,
ai casi è mancata la forma necessaria.
Solo loro splendevano belli, perché somiglianti.
Mi apparivano a lungo, a lungo e felicemente.
Mi sono svegliata. Ho aperto gli occhi.
Ho toccato il mondo come una cornice intagliata.
Wisława Szymborska, “La memoria finalmente”, in Uno spasso (1967)
L’elaborazione della mancanza narrata dalla poeta polacca fa da contrappunto alla paura della perdita descritta da Mario Benedetti. Gioia, paura e mancanza si accompagnano nell’esperienza d’amore restituendoci frammenti del suo oggetto – la donna amata in un caso, la prima fonte d’amore nell’altro.
Tali frammenti sopravvivono in noi, permettendoci di ritornarvi, per ricomporli nella loro forma complessa e, così, far rivivere ciò che abbiamo perso. DV
Hanno partecipato: Alfonso Maria Petrosino, Domenico Rapuano, Anna Francesca Triboli, Marco Biraghi, Manuel Crispo, Claudia D’Angelo, Daria Verde.
In copertina accarezzami, chiese la terra, di Michela Caserini.
Se vuoi partecipare alla prossima puntata di Raimonda Zeugma scrivimi a federicadeo@gmail.com
Testi in lingua originale:
3.
Ruke
Pet punih godina
držala ke kundak puške:
ruka vojnika.
Ona je bilaprinuđena
da dotuče voljenog psa:
ruka lovca.
Ona je čitav život
zadavala udarce:
ruka boksera.
Ona čitav život
prinosila ustima čašu:
ruka pijanice.
A evo i sretne ruke
koja te dvadset godina
miluje.
Evo i sretne ruke!
5.
LES PAS
Tes pas, enfants de mon silence,
Saintement, lentement placés,
Vers le lit de ma vigilance
Procèdent muets et glacés.
Personne pure, ombre divine,
Qu’ils sont doux, tes pas retenus!
Dieux!… tous les dons que je devine
Viennent à moi sur ces pieds nus!
Si, de tes lèvres avancées,
Tu prépares pour l’apaiser,
A l’habitant de mes pensées
La nourriture d’un baiser,
Ne hâte pas cet acte tendre,
Douceur d’être et de n’être pas,
Car j’ai vécu de vous attendre,
Et mon cœur n’était que vos pas.
7.
Pamięć nareszcie
Pamięć nareszcie ma, czego szukała.
Znalazła mi się matka, ujrzał mi się ojciec.
Wyśniłam dla nich stół, dwa krzesła. Siedli.
Byli mi znowu swoi i znowu mi żyli.
Dwoma lampami twarzy o szarej godzinie
błyśli jak Rembrandtowi.
Teraz dopiero mogę opowiedzieć,
w ilu snach się tułali, w ilu zbiegowiskach
spod kół ich wyciągałam,
w ilu agoniach przez ile mi lecieli rąk.
Odcięci – odrastali krzywo.
Niedorzeczność zmuszała ich do maskarady.
Cóż stąd, że to mogło ich poza mną boleć,
jeśli bolało ich we mnie.
Śniona gawiedź słyszała, jak wołałam mamo
do czegoś, co skakało piszcząc na gałęzi.
I był śmiech, że mam ojca z kokardą na głowie.
Budziłam się ze wstydem.
No i nareszcie.
Pewnej zwykłej nocy,
z pospolitego piątku na sobotę,
tacy mi nagle przyszli, jakich chciałam.
Śnili się, ale jakby ze snów wyzwoleni,
posłuszni tylko sobie i niczemu już.
W głębi obrazu zgasły wszystkie możliwości,
przypadkom brakło koniecznego kształtu.
Tylko oni jaśnieli piękni, bo podobni.
Zdawali mi się długo, długo i szczęśliwie.
Zbudziłam się. Otwarłam oczy.
Dotknęłam świata jak rzeźbionej rany.
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