La poesia della settimana è dedicata ad un poeta ed intellettuale cubano tra i più importanti e conosciuti, Roberto Fernández Retamar. La poesia scelta è “Con le stesse mani / Con las mismas manos”, la traduzione è di Silvio Bertocci, con la registrazione realizzata a Casa de las Américas in Cuba. Prosegue l’impegno di Casa della poesia e di Potlatch per una cultura libera e condivisa.
Roberto Fernández Retamar
Con le stesse mani
Con le stesse mani con cui ti accarezzo sto costruendo una scuola.
Arrivai quasi all’alba, con quello che pensai fossero abiti da lavoro,
ma gli uomini e i ragazzi che aspettavano nei lori stracci,
comunque mi dissero signore.
Stanno in un casermone mezzo demolito,
con qualche branda: lì passano le notti ora invece di dormire sotto i ponti o nei portoni.
Uno sa leggere, e lo mandarono a cercare quando seppero che io avevo una biblioteca.
(È alto, luminoso, e ha una barbetta sull’insolente volto di mulatto.)
Passai attraverso quello che sarà il refettorio della scuola, oggi segnalato solo da una tavola
sulla quale il mio amico traccia col dito nell’aria porte e finestre.
Dietro c’erano le pietre, e un gruppo di ragazzi
le trasportavano su veloci carriole. Ne chiesi una
e comincia ad imparare il lavoro elementare degli uomini elementari.
Poi presi la mia prima pala e bevvi l’acqua silvestre dei lavoratori,
e, stanco, pensai a te, quella volta
che lavorasti ad una raccolta finché la vista ti si annebbiò
come ora a me.
Come eravamo lontani dalle cose vere, amore quanto lontani – come uno dall’altro!
La conversazione e il pranzo
furono meritati, e l’amicizia del pastore.
Poi ci fu una coppia di innamorati
che arrossivano quando li indicavamo, ridendo
fumando, dopo il caffé.
Non c’è un momento
in cui non pensai a te.
Oggi forse di più,
e mentre aiuto a costruire questa scuola
con le stesse mani con cui ti accarezzo.
Traduzione di Silvio Bertocci
Roberto Fernández Retamar
CON LAS MISMAS MANOS
Con las mismas manos de acariciarte estoy construyendo una escuela.
Llegué casi al amanecer, con las que pensé que serían ropas de trabajo,
Pero los hombres y los muchachos que en sus harapos esperaban
Todavía me dijeron señor.
Están en un caserón a medio derruir,
Con unos cuantos catres y palos: allí pasan las noches
Ahora en vez de dormir bajo los puentes o en los portales.
Uno sabe leer, y lo mandaron a buscar cuando supieron que yo tenía biblioteca.
(Es alto, luminoso, y usa una barbita en el insolente rostro mulato.)
Pasé por el que será el comedor escolar, hoy sólo señalado por una zapata
Sobre la cual mi amigo traza con su dedo en el aire ventanales y puertas.
Atrás estaban las piedras, y un grupo de muchachos
Las trasladaban en veloces carretillas. Yo pedí una
Y me eché a aprender el trabajo elemental de los hombres elementales.
Luego tuve mi primera pala y tomé el agua silvestre de los trabajadores,
Y, fatigado, pensé en ti, en aquella vez
Que estuviste recogiendo una cosecha hasta que la vista se te nublaba
Como ahora a mí.
¡Qué lejos estábamos de las cosas verdaderas, Amor, qué lejos —como uno de otro!
La conversación y el almuerzo
Fueron merecidos, y la amistad del pastor.
Hasta hubo una pareja de enamorados
Que se ruborizaban cuando los señalábamos, riendo
Fumando, después del café.
No hay momento
En que no piense en ti.
Hoy quizá más,
Y mientras ayude a construir esta escuela
Con las mismas manos de acariciarte.
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