La “poesia della settimana” è dedicata a Giovanni Quessep, uno dei maggiori poeti colombiani, con “Carta imaginaria / Lettera immaginaria“. La traduzione è di Martha L. Canfield, la registrazione realizzata a Casa della poesia nel 1998 nel corso di Latinoamericapoesia e come al solito troverete in questa pagina traduzione, testo originale e la bella lettura dell’autore. Continua l’impegno di Casa della poesia e di Potlatch per una cultura libera e condivisa.
Giovanni Quessep
Lettera immaginaria
(da Ulisse a Nausicaa)
Vivo in un regno millenario. Il cielo
passa sopra le torri come un’acqua
piena di canti. Posso vedere la luna
che avvolge gli uccelli, la pietra
dove qualcuno ha scritto che tutto è vano,
che il filo della tunica svanisce
per non trovarsi più. Tamarindi
c’erano che dalle foglie annunziavano
dolore e musica per le regine
che venivano dall’acqua più profonda.
E c’era la mattina, il mezzogiorno,
i giardini di pietra, il cacto nero.
Conservo ancora in mano un ramo
argentato dalla morte, e una storia
che parla di coloro che furono. Le mura
della città evocano ancora
una nave che a un’altra sponda
fu ancorata dal peso dei miei viaggi
tra ombre, lotofagi, e demoni.
Se tu sapessi, Nausicaa, come è stata
la mia vita da allora: non grata
per chi ha visto i fiori del melograno
sparsi sul proprio letto e nel ricordo,
mentre il cieco cantava e gli offrivano
una sedia di cedro e una favola.
Tu mi portasti nella città, nudo,
soltanto coperto dal mare di sabbia
e da foglie di luce del folto del bosco
per dire la mia gloria, la mia pena.
Io ti seguii credendomi un dio, quindi
sognando la mia isola felice
dove avevo lasciato tre colori
e un patio e una vigna e i miei amici.
Ma la regina non attese la mia nave,
la sognò in fondo alle agognate acque,
e sognò il mio scheletro abbagliato
da mezze luci e pesci e madreperla
dove la sera arriva a un tratto e il legno
non è altro che ponte di un giardino in ombre.
Nel suo sogno mi vidi, re abbattuto
dalla spada che tengo ancora occulta
per il re foraneo. Ho sognato allora
che sarei morto lontano dalla patria,
che non avrei rivisto negli specchi
le strade della mia Itaca né il volo
che propizia il mio arco nella gioia
perfetta dei marosi e delle pietre.
Vivo in un regno millenario, è vero,
un mare di gelsomini mi circonda,
entro nei boschi quando il cielo forma
la mezzanotte, solo e silenzioso
con la mia vita; il destino non mi lascia
lanciare la mia freccia, come vorrei,
dritta al cuore del cinghiale e della luna:
non colpisco il bersaglio e solo posso
pensare a te, Nausicaa. I feaci
non seppero vedere nel racconto
di Demodoco, il cieco, che avevano
nel salone di sandalo il più povero
e il più disincantato dei navigatori.
Io non ascoltai la storia dei miei viaggi,
perché nei tuoi occhi vedevo un’altra storia,
e quella notte sognai di un abito
che le tue mani adoravano, e di una spada.
Il resto, Nausicaa, non vorrei
ricordarlo: la nave fatta a pezzi,
i marinai morti e un fantasma
che vagava nel pineto dell’isola.
Dei pini che erano così belli
non mi rimane ormai nemmeno l’ombra.
Itaca era un giardino, ma oggi sento solo
il canto dei serpenti; rami duri,
prugnoli anziché mandorli e la pietra
dove qualcuno scrisse tutto è vano.
Traduzione di Martha L. Canfield
Giovanni Quessep
Carta imaginaria
(de Ulises a Nausica)
Vivo en un reino milenario. El cielo
pasa sobre las torres como un agua
llena de cantos. Puedo ver la luna
que rodea a los pájaros, la piedra
donde alguien escribió que todo es vano,
que el hilo de las túnicas se pierde
y no retorna nunca. Tamarindos
había que en sus hojas anunciaban
un dolor y una música a las reinas
que venían del agua más profunda.
Y había la mañana, el mediodía,
los jardines de piedra, el cactus negro.
Tengo aún en mis manos una rama
plateada por la muerte, y una historia
que habla de los que fueron. Las murallas
de la ciudad recuerdan todavía
una nave que estuvo en otra orilla
anclada por el peso de mis viajes
entre sombras, lotófagos, demonios.
Si supieras, Nausica, cómo ha sido
mi vida desde entonces: nada grata
para quien vio la flor de los granados
y la esparció en su lecho y su memoria,
mientras cantaba el ciego al que ofrecieron
una silla de cedro y una fábula.
Tú me guiaste a la ciudad, desnudo,
sólo cubierto por el mar de arena
y por hojas de luz de su hondo prado
para contar mi gloria, mi infortunio.
Te seguí, como dios que me creía,
soñando con mi isla venturosa
donde había dejado tres colores
y un patio y una vid y a mis amigos.
Pero la reina no esperó mi nave,
la soñó bajo el agua deseada,
y soñó mi esqueleto deslumbrado
por nácares y peces y penumbras
donde cae la tarde y la madera
no es sino puente de un jardín en sombra.
En su sueño me vi, rey abatido
por la espada que guardo aún oculta
para el rey extranjero. Soñé entonces
que moriría lejos de mi patria,
que no volvería a ver en los espejos
las calles de mi Itaca y el vuelo
que prepara mi arco en esa dicha
perfecta de las olas y las piedras.
Vivo en un reino milenario, es cierto,
sólo un mar de jazmines me rodea,
salgo a los bosques cuando el cielo teje
la medianoche, solo y en silencio
con mi vida; el destino no me deja
lanzar mi flecha, como yo quisiera,
al corazón del jabalí y la luna:
nunca doy en el blanco, y sólo puedo
pensar en ti, Nausica. Los feacios
jamás supieron ver en el relato
de Demódoco, el ciego, que tuvieran
en su sala de sándalo al más pobre
y más desencantado navegante.
Yo no escuché la historia de mis viajes,
pues veía en tus ojos otra historia,
y esa noche soñé con un vestido
que adoraban tus manos, y una espada.
De los demás, Nausicaa, no quisiera
acordarme: la nave hecha pedazos,
los marineros muertos y un fantasma
vagando entre los pinos de la isla.
Los pinos de la isla eran tan bellos,
y ya no tengo cerca ni su sombra.
Itaca fue un jardín, y hoy sólo escucho
cantar a las serpientes; ramas duras,
endrinos y no almendros, y la piedra
donde alguien escribió que todo es vano.
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