Sulla poesia di Barbara Korun
“Era come se sentissi che quel luogo aperto a tutti i venti nascondeva un segreto, come un poema che non si capisce del tutto ma che, leggendolo, sentiamo che ci sta cambiando la vita.”
– Teodor Cerič ”Giardini in tempo di guerra”, a cura di Marco Martella, Milano 2015, pag. 20
Chiunque si accinga a parlare di un testo poetico dovrebbe avere l’umiltà di riconoscere che sta facendo un’operazione destinata a sicura sconfitta, considerato che la poesia è incomprensibile e indefinibile (131 – il numero tra parentesi si riferisce a “Voglio parlare di te notte. Monologhi”, salvo diversa indicazione) . Dovrebbe altresì essere sempre conscio del fatto che sta parlando di altro da sé (massimamente se è egli stesso un poeta) e dunque cercare di rimanere quanto più è possibile aderente al testo di cui si sta occupando. Io, temerario, ci proverò, perché questa raccolta di poesie davvero notevole (Barbara Korun, “Voglio parlare di te notte. Monologhi”, traduzione di Jolka Milič, Multimedia, Baronissi 2013) merita di essere portata all’attenzione di un pubblico più vasto di quello che, come me, ha avuto fin qui la fortuna di assistere ai reading tenuti dalla poetessa slovena in Italia, poiché in essa c’è, declinato splendidamente, l’essenziale, quello che rende umano un essere umano, quello di cui credo ci sia un disperato bisogno in questo nostro tempo caotico e cinico.
Loredana Umek nell’incipit della prefazione al libro afferma: “L’erotismo è il punto di partenza della poesia di Barbara Korun (…)”(5). In effetti si tratta di una poesia che dà grande risalto al corpo, alla fisicità; da un sommario spoglio ricaviamo: amare, ventre, amore (21), cuore, sesso, alito, di nuovo ventre, ossa , vene, materia, contatto (23), occhi – due volte – palpebre, cuore, volto, corpo (25), voluttà, cuore, grembo (27), corpi, occhi, cuore (29), penetri, occhi – due volte –(31), cuore, abbracciano, abbraccia, ossa (33) utero (35), penetra, utero (37) mani, accarezzano, abbracci, corpo, pelle, ventre, lingue (39) ombelico, dita (41) occhio, occhi, faccia, cuore (43) corpi, corpo, palpebre (45) viso, volto – due volte – voluttà, cuore (47) corpo, toccarti, spalla, grembo, corpo (49), e ancora in maniera evidente le intere Mljet (67-69), Donna (73-77), Gelido fuoco (87).
D’altronde la stessa Korun (Lubiana, 1963) a riguardo è esplicita:
“Scrivo forse diversamente essendo una poetessa e non un poeta? In quanto poetessa i lettori mi accettano diversamente di come lo farebbero se fossi un poeta? Per me fa lo stesso. Ma sociologicamente parlando non lo è. Il genere sessuale al quale appartengo senza dubbio influisce su come scrivo, anche se ignoro in che modo, essendo io un’entità. Ciò che sono comprende anche il mio sesso, comunque non posso assolutamente togliermelo da dosso, fare finta che non esiste o astrarlo, neanche ipoteticamente. Nemmeno intendo farlo. Leggo la poesia che certe donne scrivono in maniera da eludere il loro sesso, di negarlo, di non metterlo in mostra bensì sottrarlo alla vista. In quanto a me la mia femminilità mi eccita più che inquieta. Mi fa piacere (ne godo) e mi rende felice.” (Barbara Korun, Riflessioni sulla poesia, in Fili d’aquilone n. 13 gennaio/marzo 2009 – www.filidaquilone.it/num013milic2.html)
Tuttavia io vorrei scegliere un diverso punto di partenza, certo come sono che l’elemento di cui abbiamo appena parlato, davvero cruciale, riemergerà in tutta la sua evidenza in corso d’opera. Sin dal titolo della raccolta, infatti, un ruolo centrale è rivestito dalla notte, cui è dedicata un’intera sezione del libro (35 – 49); ma, come sempre nella vera poesia, le parole sono sovradeterminate: sono cioè al tempo stesso il significante di un significato comunemente accettato e la figura di una o più alterità. Intendo dire, restando al nostro primo “oggetto”, la notte, che essa è nei testi della Korun, simultaneamente, quella porzione di giorno connotata dall’assenza o scarsità di luce (per approfondire questi concetti rimando all’interessante saggio di Gérard Genette, “Il giorno, la notte” in Figure II, Torino 1972, pagg. 71-91), ma è altresì la donna (anche in sloveno noč è femminile e dan è maschile), il mistero, forse anche la morte (“Notte e morte, due amorevoli sorelle”, 53). Non v’è dubbio che assistiamo ad una personificazione della notte: “l’oscuro volto della notte” (25), “tu sei l’utero dell’universo” (35), sono appena due testimonianze della evidente corporeità di questa entità, alla quale peraltro l’autrice si rivolge con un familiare tu. Soggetto che ha anche una sua spiccata personalità: la notte infatti è ammaliatrice (41), aggiunge “premeditatamente” (35).
Sorprendentemente (ma non troppo se leggiamo Genette, pag. 72: “Coppia di parole, giacché (…) i due termini sono chiaramente uniti da una relazione molto forte che non lascia loro nessun valore autonomo.”) la notte si ribalta con frequenza nel suo contrario, a cominciare dalla poesia eponima: “Voglio parlare di te notte / voglio parlare dell’alba”. La luce acquista un ruolo imprescindibile sin dalla lirica d’apertura, Euridice: “Il mio canto sarà luce”, “Dal ventre / si espande la luce.” (21). All’ “oscuro volto della notte” si contrappone immediatamente nella strofa successiva “il luminoso volto del cielo” (25). Però “la luce è scura / e calda” (27), “risplendono i corpi” ma “nell’azzurro / si oscurano” (29) e ancora “morte solare” (29); “nel cielo comincerà / a risplendere l’aurora polare” (31); “nei tuoi occhi / una scura spaccatura / fino al cielo // nei tuoi occhi / chiare spaccature dal cielo // nelle spaccature / le ombre portano / la luce” (31). E ancora “siedo sotto la volta della luce” (33).
Siamo così tornati, attraverso questa breve carrellata che avrebbe potuto certamente estendersi alle pagine successive, alla poesia eponima di pagina 35. Soffermandoci su di essa possiamo acquisire una chiave di lettura che andremo a verificare in seguito in altri componimenti:
Voglio parlare di te notte
voglio parlare dell’alba
voglio parlare del bosco che sorge da te
(tu sei l’utero dell’universo
tu concepisci ciò che esiste)
come si delineano dapprima i contorni
come in seguito aggiungi
premeditatamente le foglie
e prepari i tronchi
affinché risplendano
nella luce solare
e questo è l’attimo che io fermo
per sentirlo profondamente
quando il buio s’intreccia con gli atomi della luce
quando il crepuscolo è palpitante
e promette
la nascita
quando quatto quatto
si trattiene fino a soffrirne
e lo stridore dell’attesa trascende
in giubilo del giorno
quando è pieno zeppo
saturo e colmo di silenzio
quando è sul punto di proprio sul punto
La parte iniziale è fortemente ritmata da una catena di anafore (Hočem o – Voglio parlare nei primi tre versi, ti – tu nei successivi due della prima strofa, kako – come nei primi due della seconda strofa), ma in realtà tutta la poesia è scandita da iterazioni (nella terza strofa ko – quando si trova per ben sei volte ad inizio di verso). La prima strofa è caratterizzata da una forte assertività (che si ritrova spesso in questo libro, quasi a voler creare un contrasto con il registro sussurrato che lo pervade) e da un dialogo tra un io sottinteso ed un tu che, declinato (tebi, tebe, ti, ti) torna ben quattro volte su cinque versi, nonché da una definizione di spazi (bosco, universo). La seconda strofa è connotata dalla presenza del come che evidenzia le modalità utilizzate dalla notte per concepire ciò che risplenderà nel giorno. Mentre nella terza strofa ad un ritorno dell’io (e dunque del protagonismo dell’autrice) corrisponde la prevalenza del dato temporale, scandito, come abbiamo detto, dal quando, ma rafforzato da una serie di sostantivi (attimo, buio intrecciato a luce, crepuscolo) e verbi (fermo, promette, trattiene, trascende) che indicano un mutamento in atto. Genette, nel saggio già citato, ci dice (pag. 72): “La Natura, almeno alle nostre latitudini, passa insensibilmente dal giorno alla notte; la lingua invece non può passare insensibilmente da una parola all’altra: tra giorno e notte può introdurre qualche vocabolo intermedio come alba, crepuscolo, ecc., ma non può dire contemporaneamente giorno e notte, un po’ giorno e un po’ notte.” Sembra quasi che Barbara abbia raccolto questa sfida e provi a esprimere il momento del passaggio, quando la notte sta partorendo il nuovo giorno, quando la notte sta per trasformarsi in giorno, “quando è sul punto di”. Troviamo una variante molto interessante in “Il giorno” (41): “Di nuovo guardo come l’enorme sfera / terrestre cova un nuovo mattino.”, in questo caso si passa dalla natura umana della notte a quella animale – ovipara – della Terra. E ancora, in “Notte insonne”, “la fine della notte ricucita coi chiari cinguettii” (43).
Quanto sopra detto ci consente di introdurre immediatamente un altro tema centrale della poetica di Barbara Korun: la metamorfosi. Non estranea alla cultura classica, come testimoniano i riferimenti a Euridice (21), Pizie (23), Sisifo (85) e, in testi qui non antologizzati, ad Antigone, l’autrice ci propone le sue metamorfosi spesso in chiave onirica: ad esempio in “Tu sei un bosco”(39) – e il bosco, sia detto per inciso, è un’altra figura ricorrente almeno nella prima parte del libro – “e ospite del sole rinasca in aria / e diventi bosco”; o in “Donna” (73-77), “E in questa notte (…) io sono tutto e sono dappertutto / in ogni fogliolina che cresce / in ogni neonato perfino nel feto / immensa irripetibile”. Anche il procedimento stesso della scrittura si rivela in fondo una lunga, dolorosa trasformazione in “Come scrivi una poesia” (105). Ma l’apoteosi della metamorfosi è costituita senza dubbio dalla poesia “Il cervo” (71-73)
mi sveglio con la calda lingua di un cervo tra le gambe.
attraverso la porta aperta penetra la piana luce della sera.
il cervo mi punzecchia lievemente i seni leccandoli. lascio
che con la ruvida lingua mi lambisca il sesso,
il petto e il viso, m’inebria il suo profumo,
profumo di terra, di muschio, di fradicio e di paura.
odore d’istinto.
poi mi si sdraia accanto, accanto al mio ventre, da poter
accarezzare i suoi peli setolosi, ha la testa vigile sollevata
e lo sguardo fisso lateralmente, nel bosco.
nell’oscurità risalta il suo nudo pene rosso.
quando il tempo si addensa e tendo il braccio nel buio, sfioro
un corpo maschile. la mia smania d’amore è cocente.
mi ama con naturalezza e da vicino.
nelle mani ha i venti del nord e del sud.
attraverso il suo corpo scorrono i fiumi e si muovono gli oceani.
la bocca è calda e piena come la pioggia estiva,
la stanza è colma di voci terrestri ed extraterrestri.
a volte qualche raggio smarrito della luna gli scopre il volto.
non mi guarda negli occhi come se volesse difendermi da se stesso.
talvolta mi ama con trasporto da non farmi sentire più la gravità.
talvolta la voluttà sgorga dal suo ombelico come una piccola
sorgente limpida, talvolta dal suo interno vomita la lava,
ma non mi ferisce mai.
sempre con immensa attenzione mi posa con il ventre sulla terra,
e quando mi morde il collo e fiuto il suo caldo alito, lo so
che verrò inevitabilmente risparmiata.
ai primi albori nei suoi capelli tasto due cornetti
le setole dalla testa si allargano sulla schiena, fino al coccige.
sul ventre gli spunta la soffice erba animale.
all’alba mi scruta una testa di cervo con occhi ormai appena umani,
con occhi di là del confine.
le sempre più coriacee mani mi accarezzano assenti.
gli cresce una corona.
nel capanno si fa strada la fragranza del mattino e il cervo si alza.
quando esco davanti alla porta, mi guarda in maniera
da spaccarmi in due pezzi sull’istante e bruciarmi.
e mentre ascolto frusciare l’eco dei suoi veloci passi animaleschi,
sento che dalle mie due riarse metà crescono fiori
selvatici.
Il cervo, come è noto, è un animale simbolico molto presente nella letteratura di tutti i tempi e di vari paesi. In particolare in Slovenia, paese dove il cervo è effettivamente presente in natura, lo ritroviamo ad esempio nelle poesie di Tomaž Šalamun e di Peter Semolič. L’erotismo nella poesia sopra riportata è esplicito e non necessita di particolari interpretazioni. Il simbolismo del cervo forse si potrebbe ricondurre al confronto tra la cultura patriarcale nordica e la donna vista nella sua passionale fragilità (“difendermi da se stesso”, “non mi ferisce mai”, “verrò inevitabilmente risparmiata”). Oppure ad un incontro/scontro tra la natura (il cervo, appunto) e la cultura (la donna all’interno del capanno). Ma io vorrei piuttosto soffermarmi su un aspetto di continuità rispetto a quanto detto in precedenza, considerato che il cervo simboleggia pure la rigenerazione, la rinascita. In questi versi esso si trasforma in “un corpo maschile” che “ai primi albori” comincia di nuovo a trasformarsi in cervo, mentre un’altra metamorfosi avviene nei versi conclusivi: stavolta è l’autrice o quel che ne rimane (“due riarse metà”) ad assumere una natura vegetale e selvatica, come in alcune splendide “favole” ovidiane. Innegabilmente in questa poesia si fondono tutti gli elementi finora rilevati – l’erotismo, la notte, il sogno, la metamorfosi in fieri – a cui si aggiunge un nuovo elemento, quello degli “animali totemici” (Umek, pag. 13), il leone, il cervo, il lupo, che insieme ad entità “non umane” (45) o, come in questo caso, “extraterrestri”, sembrano apportare un quid di inquietudine e “oscuro mistero” (53). D’altronde l’autrice stessa si attribuisce “occhi serpigni” (87). Dicevamo della dimensione onirica: “Navigo in una bara”(43) racconta un sogno veneziano, più avanti troviamo “che io sogni ad occhi aperti/ che il fiume dei sogni/ mi attraversi” (51), ed emergono più volte anche dei tipici elementi del sogno, come, ad esempio, la sensazione di cadere, precipitare (29, 37, 45, 53) e volare (29, 39). Il tema della morte, oltre che nel sogno veneziano, è presente in vari componimenti, e dà addirittura il titolo ad una intera sezione, “Canti di morte” (51-57). Se da un lato può essere ricondotto alla valenza universale del rapporto Eros/Thanatos, dall’altro va rilevato che esso assume quasi sempre una valenza tutt’altro che angosciante, “senza paura” (55), anzi la morte viene accettata in maniera naturale, quasi gioiosa: “che la gioia sia grande fino alla morte” (51), “il pensiero della morte è come / un soffice cuscino” (53), “la morte è come una sorella”, “la morte è (…) una grande amica”(55), fino a divenire “oscura felicità” (57). Anche la morte è paragonata ad un “enorme utero” (55), confermando l’assimilabilità alla notte, ma anche l’imprescindibile legame con la vita.
Un altro elemento centrale nella poetica della Korun è il dualismo che, come abbiamo in parte già avuto modo di osservare in relazione a giorno/notte e vita/morte, non è mai manicheo, piuttosto direi dialettico. Lo si riscontra sin da alcuni titoli: “Ho due animali” (59), “Due” (83), la sequenza “Donna” (73-77) “Uomo” (77 – 79). Dualismo che viene spinto fino al limite dell’ossimoro come vediamo in “Gelido fuoco” (87), “aspra dolcezza” (29), ecc. Mi sembra di poter dire che, come nello Yin/Yang della filosofia cinese, due nature si confrontino e cerchino un equilibrio dinamico: da una parte un’anima fiera e combattiva, dall’altra una tenera ed introspettiva.
A ulteriore testimonianza del primo aspetto, cito: “Le poetesse slovene – dichiara Barbara nel 2003 – sono spesso molto più sovversive, oneste e ironiche dei loro colleghi maschi. Sono dotate di una grande sensibilità verso quella specie di violenza sottile che si nasconde sotto la cloaca della decenza e del decoro” (in “La giovane poesia slovena fra versi e interviste” a cura di Angelo Floramo, eSamizdat 2005, pag. 209) e ancora “la poesia non è mai politicamente corretta” (in “Conversando con Barbara Korun”, Arquitrave. Revista colombiana de poesia, n.58, 2008)
Per il secondo vorrei rimandare il lettore anche a “Non racconto a nessuno”(47), ma pure sottolineare come ricorrenti siano termini come tenerezza, sottovoce, silenzio, nascondermi, ecc.
Una sintesi, almeno per quanto riguarda la prima parte del libro, può essere raggiunta forse in quello che Loredana Umek definisce “coraggiosa intimità” (9), pratica che va ben oltre l’erotismo, spingendosi fino a mettersi a nudo, non in una esibizione all’altro o al mondo, ma in una rivelazione a se stessi della propria interiorità, che mi sembra ben rappresentata dalla magnifica “Due” (83):
due si spogliano
si tolgono le vesti
si sfilano le scarpe
si levano i gioielli e l’orologio
si denudano completamente
continuano a spogliarsi
con mani carezzevoli
si tolgono la professione il nome
le abitudini quotidiane
con baci pazienti
si liberano dei loro amori
trascorsi delle loro attese
con morsi profondi si disfano
degli anni della loro passione
con la bocca a vicenda
si sbarazzano del sesso
si svestono dell’infanzia
(operazione lunghissima)
si tolgono di dosso la mamma
e il padre con energici lavacri
forti abbracci e strusciate
di corpo a corpo
ed effusione di linfa
raggiungono le tenebre
mai nominate alle quali
danno a ritroso dei nomi
che man mano dimenticano
quando s’infiammano
continuano a spogliarsi
attraverso il riso il pianto
i gemiti e le grida
fino all’innominabile
carnalità
di là della nascita
sono nudi
Va innanzitutto specificato che la lingua slovena, a differenza dell’italiano, prevede tre numeri (singolare, duale, plurale) e quindi ci sono forme specifiche per sostantivi, verbi, ecc. in presenza di due persone o oggetti, come in questo caso.
Mentre la prima strofa è semplicemente descrittiva di un’azione fisica, benché fortemente marcata da un ritmo iterativo ottenuto attraverso una serie di sinonimi di spogliarsi (slačita, slečeta, sezujeta, snameta, slečeta), la seconda sorprende il lettore attraverso la continuazione della stessa azione (slačita) spostata però su un piano metaforico, anch’essa scandita dalla ripetizione di slačita e slečeta, tuttavia conservando alcune connotazioni corporee (mani, baci, morsi, bocca, sesso), così come nella terza strofa (lavacri, abbracci, strusciate, corpo a corpo, linfa) nella quale non troviamo però alcuna ripetizione; anche la quarta strofa è caratterizzata da questa compresenza di un’azione metaforica e di elementi fisici (riso, pianto, gemiti, grida, carnalità). L’ultima strofa è costituita da un unico verso, lapidario, che sembra affermare nella sua laconicità una verità incontrovertibile, il raggiungimento di una nudità prenatale, essenziale.
Ancora attraverso alcune affermazioni dell’autrice, vorrei provare ad aggiungere qualche altro rilievo formale: “Per la mia poesia la musica delle parole è molto importante, il ritmo ed i suoni fanno sì che la mia poesia rimanga ad un livello inconscio ma in superficie sono più visuali, spesso io vedo il poema al momento di scriverlo, così come i miei sogni sono anche reali, vividi” (in “Conversando con Barbara Korun”, cit.). Sempre nella stessa intervista la Korun sottolinea l’importanza del silenzio per i suoi versi, al punto da preferire i poemi brevi (“non mi piacciono i poemi lunghi, mi bastano quindici o venti righe.”), e rende manifesta anche la sua costante ricerca di nuovi modi di esprimere i suoi contenuti, nel solco, ritengo, tracciato da poeti da lei ammirati come Srečko Kosovel, Dane Zajc ed Edvard Kocbek. Per Barbara Korun “la letteratura è comunicazione” (Riflessioni sulla poesia, cit.), ed infatti ci troviamo di fronte ad una poesia dialogante, niente affatto ermetica, anche se non priva di complessità, come abbiamo constatato in precedenza.
Bisogna certamente aggiungere a quanto finora detto, come la poesia della Korun sia protagonista di una trasgressione consapevole rispetto alla tradizione letteraria del suo paese (vedi Umek, 7-9), forte come è di una solida conoscenza della letteratura internazionale (Beckett, Kafka, Ionesco, Dostoevskij Lorca, Eluard, Breton, Artaud Blok, Mandel’štam, Blake, Rilke, Whitman, Cvetaeva, Plath, Woolf, Stein, Barnes, Ingerborg Bachmann, sono tra gli autori che hanno contribuito alla sua formazione), ma anche sottolinearne la carica sovversiva, che si è andata accentuando nell’evoluzione del proprio lavoro e della cui portata sono testimoni le dichiarazioni più sopra citate.
La parte finale del libro è costituita dai Monologhi (107 – 137), “su eventi storici e vicende di attualità”: in essa troviamo personaggi storici o attuali, più o meno noti, titoli talvolta lunghissimi perché sintetizzano una vicenda, un’apertura al mondo con la sua complessità, visto talvolta con grande ironia, sempre con grande capacità di analisi e voglia di porsi domande a cui è difficile dare una risposta, come sulla responsabilità del poeta (Barbara Korun ecc., 131), o sulla funzione e limiti della poesia (Hannah Arendt ecc., 135-137). Questa sezione, che rappresenta un punto di arrivo della scrittura e della poetica della Korun (“Sono stata più autistica, più egocentrica quando ero giovane,ora sono più attenta al mondo, agli animali, alle piante, al paesaggio”, dichiara sempre in “Conversando con Barbara Korun”, cit..) meriterebbe di sicuro un ben più ampio spazio, ma non voglio abusare della pazienza del lettore; sottolineo solo come, a mio parere, con questi monologhi la Korun in qualche modo si ricongiunga alla tradizione familiare che vede il padre e la sorella (e lei stessa, nella sua veste di critico teatrale) impegnati sul versante del teatro e la madre nella produzione di programmi radiofonici, preconizzando, probabilmente, esiti del suo lavoro verso la prosa: sarebbe una grave perdita per la poesia, ma un sicuro acquisto per la prosa, teatro o narrativa che sia.
Vorrei infine rivolgere un ringraziamento a Multimedia Edizioni di Baronissi che ha meritoriamente pubblicato il libro di cui ho finora parlato e a Jolka Milič per le tantissime traduzioni da lei fatte, diventando un insostituibile ponte tra la letteratura italiana e quella slovena
Giancarlo Cavallo
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