Solo adesso che il tempo utile dell’esistenza – utile a farne qualcosa – stringe il suo cerchio a ridosso del tramonto, torna a indorarci e ancora ci abbaglia la lucida memoria dell’adolescenza dove si estendeva a perdita d’occhio la terra promessa, una terra fresata e inseminata di scoperte nascenti, di sogni esaltanti, di utopie sublimi.
Se poi l’adolescenza coincide con una fase epocale dalle peculiarità uniche e irripetibili come quella degli anni Sessanta, a mio avviso la più luminosa e struggente, la più ricca di pulsioni umanistiche, dal dopoguerra a oggi, ecco che quella età formativa, quella spugna assetata di conoscenza, di innovazioni, di rivoluzioni, di poesia multiforme, timbrerà per sempre la vita di quella generazione, la condizionerà nelle scelte etiche, negli imperativi morali, negli schieramenti ideologici, nelle vocazioni artistiche, nell’ascesa e nella caduta di ogni tensione onirica.
In quegli otto anni che vanno dal 1960 al 1968 è accaduto tutto. La carne tenera della coscienza adolescenziale come un tessuto assorbente s’è impregnata di tutte le emanazioni e le trasformazioni metamorfiche di un contesto socio-storico che assunse poi le caratteristiche di un vero e proprio cambiamento epocale, di un cataclisma poetico e catartico, creando la generazione “contro”, la generazione utopica, la generazione che credeva nell’altrove. L’altrove di Rimbaud.
Furono molti i richiami che ci fecero voltare la testa ai quattro punti cardinali dove si trovava “la fantasia al potere”: il rock, il movimento beat, tra musica e letteratura, quello hippy, tra misticismo e nuovo tribalismo, i poeti in musica cioè i cantautori, i poeti letterari, i filosofi anarchici, i guerriglieri marxisti, la rivolta del maggio francese: richiami diversi tra loro, eppure sotterraneamente collegati da una visione sociale destrutturata, reinventata, e unificante, da condividere tra contest-azione e cultura antiaccademica, anzi cultura underground, per dichiarare ogni arte non inferiore all’altra, per volerla nelle strade tra le masse giovanili, per affermare il valore estetico di ogni prodotto artistico nel suo specifico, per abolire il classismo intellettuale discriminante esistente allora e resistente oggi all’interno dei pascoli creativi, per restituire priorità contenutistica all’opera artistica come dovere morale dell’autore davanti alla realtà sociale e politica planetaria.
Dunque scardinare le convenzioni borghesi, lottare contro le istituzioni repressive, rifiutare l’intero Sistema, “senza mai perdere la propria tenerezza”. Ma procediamo per strati.
Alla fine degli anni Cinquanta, l’Italia del dopoguerra aveva terminato l’opera di ricostruzione post-bellica, impostandola su canoni di produttività dettati dalla civiltà industriale e dal consumismo con il sostegno della politica e del clero, così la rinnovata triade Dio Patria Famiglia tornò in scena, mascherata di democrazia e benessere, a rimettere in funzione i vecchi collaudati meccanismi dei riferimenti nazional-popolari tra potere e massa.
Ma fin dai primi anni Sessanta, una generazione inquieta e bisognosa di sogni, in crisi di rigetto con il pragmatismo capitalistico dell’establishment filo-americano in continua espansione al di qua dell’oceano, stava per aggregarsi in tutti gli angoli del mondo seguendo la percezione magica di un accordo universale; flussi inestinguibili di giovani si interscambiavano di paese in paese, affratellandosi, solidarizzando tra loro attraverso una consanguineità spontanea ed elettiva.
Il primo Big Bang, il punto sorgivo primordiale, fu il rock che a tutto questo fece da miccia ma che si rivelò essere subito un ordigno antiborghese, la cui forza dirompente provocò l’insanabile rottura dei giovani con l’autorità famigliare.
Ma fu soprattutto la “beat generation”, a creare questo miracolo laico di fratellanza basato su comuni intenti utopici e uno stile di vita “on the road”, “sulla strada”, intesa come viaggio permanente in altre culture e all’interno del sé, rifiutando i criteri convenzionali che prevedono il concetto di progettualità e relative tappe esistenziali già codificate, addirittura obbligate, come non ci fosse un’alternativa felicemente improduttiva da scegliere e poter perseguire.
Il movimento beat nacque e dilagò nel mondo per via naturale come la crescita dell’erba o il passaggio delle nubi. Antinuclearista, antimilitarista, pacifista, fece da contro/canto alla guerra del Vietnam, ad ogni guerra esistente sul pianeta, al terrore atomico. Milioni di giovani stesi sul selciato nei sit-in di protesta, milioni di manganelli ligi al dovere di massacrarli.
Naturalmente da noi arrivarono i simulacri più popolari del beat: i complessi musicali con le loro canzoni che sebbene commerciali avevano comunque la capacità di sostenere un clima, una tematica, un’atmosfera, differenti com’erano nei testi da quelle che solo poco tempo prima gorgheggiavano in televisione. I grandi, tanto per ricordarli, erano Bob Dylan, Joan Baez, Donovan.
Ma il beat fu prima ancora un movimento letterario già vivo alla fine degli anni ’40. A noi fornì gli strumenti di indagine Fernanda Pivano che fu la sola a importare dall’America gli autori di quella corrente e ancora oggi molti di noi continuano a nutrire verso “Nanda” una profonda gratitudine e una autentica venerazione. Saggista outsider, già allieva di Pavese, operò sempre “in direzione ostinata e contraria” come cantava Fabrizio De André per il quale curò la versione musicale di “Spoon river” di Edgar Lee Masters: un vero capolavoro.
Dunque anteponiamo per un attimo alle gaudenti e sfrenate serate degli anni Sessanta dove si consumava la giusta voglia di vivere tra spiagge assolate, locali da ballo, e corse azzardate su spyder lanciate oltre i limiti del buon senso, anteponiamo le serate molto diverse che vivevamo noi, l’altra faccia di quegli anni, quando fuggivamo il chiasso e una ludica superficialità, ritirandoci in collina, mirando il mare dall’alto, le lucine tremolanti, col sottofondo di una musica che ci giungeva flebile, attutita dalla distanza. Lì si che parlando di Kerouac, di Ferlinghetti, di Corso, o recitando i versi di Howl di Allen Ginsberg, genio del ‘900, ci lasciavamo andare a un’esaltazione mai provata, come visionari dilettanti senza freni, facili prede di una smania inconfessabile di volerci ritrovare poeti all’indomani… Adesso tutto questo ha un sapore quasi commovente ma si vorrebbe ritrovarla quella passione, anche se infantile, quel senso del sogno… anche se decaduto, quando si pensava che i poeti avessero tanto pubblico quanto le rockstars e che la poesia fosse in grado di cambiare il mondo, come voleva Rimbaud… Ginsberg operava una tale scomposizione del verso, un accoltellamento delle strofe che dagli squarci ogni regola ortodossa defluiva come un’emorragia inarrestabile, direi un salasso benefico e letterariamente terapeutico… Nelle notti estive ci pareva di assistere a uno spettacolo pirotecnico ma non erano i fuochi artificiali a illuminare l’oscurità, erano i versi di Ginsberg, le sue visioni come le visoni degli indiani d’America a digiuno sulla montagna, le sue rabbie politiche, la sua disperazione esistenziale, le sue angosce metropolitane, erano quei versi a creare l’arcobaleno psichedelico delle nostre folli notti di ragazzi solitari e confusi.
A quel tempo eravamo assediati da tanti richiami ma erano assedi d’amore, travasi straripanti di poesia, la poesia ci colava addosso, nell’anima, nei calzini, fuori dalle orecchie, in fondo agli occhi. Nel trambusto assordante del rock e del beat all’improvviso si fecero avanti voci più delicate, musiche più melodiose, testi più intimisti: erano i cantautori italiani che qui chiamerò poeti in musica. Gino Paoli, Luigi Tenco, Umberto Bindi, Fabrizio De André, Bruno Lauzi, la cosiddetta “scuola genovese” (senza dimenticare Piero Ciampi e Sergio Endrigo) s’infiltrò nella nostra fragile ma intensa sensibilità ricettiva creando un’identificazione empatica che ci guidò nell’intricata foresta dei sensi amorosi decriptandoli, rivestendoli d’incanto e di lirismo ma di un incanto e di un lirismo asciutto e moderno senza fronzoli né sospiri melò. Come il beat ci indusse a essere partecipi degli eventi sociali del mondo e ad accogliere i giovani nomadi che quel mondo lo percorrevano ad ogni latitudine, scambiando informazioni, suggellando amicizie transnazionali, così i poeti in musica ci portarono dentro il mondo dei sentimenti privati, individuali, diventando gli osservatori dei nostri primi incerti diagrammi ghiandolari, equivocati per amori assoluti, i confessori segreti, i fratelli maggiori, addirittura i genitori che avremmo voluto avere. Come può oggi un poeta che tanto li ha amati da ragazzo e da adulto e che continua ad amarli da vecchio, svilirli o contrapporsi o denigrarli come molti fanno? Li ascoltavamo con lo stesso coinvolgimento, lo stesso struggimento che provavamo nel leggere le poesie di Pavese, di Cardarelli, di Prevert… Eravamo una spugna imbevuta di sogni… l’età della terra promessa… Se i poeti letterari avessero risposto alle istanze interiori e sociali di quella massa giovanile che chiedeva poesia e impegno, se avessero partecipato a quella grande festa di vita, se fossero stati capaci di creare una Woodstock poetica invece di ritirarsi su un trespolo elitario guardando la plebaglia con sprezzo aristocratico, non ci troveremmo oggi a contarci in una nicchia sempre più ristretta, sempre più vicina al rischio d’estinzione, in ogni caso meno dolorosa del non essere ascoltati. Voglio ricordare che la poesia in musica nacque a Parigi alla fine degli anni’40…Un artista su tutti ne fu l’immaginifico fautore: Léo Ferré.
Il destino mi offrì più tardi il privilegio di essergli amico devoto negli ultimi dieci anni della sua vita e devo a lui, al suo magico ascendente, se mi sono dedicato totalmente alla poesia in questi venticinque anni di creatività ininterrotta. Ferré, in quelle caves parigine, anguste e fumose, aprì la via alla poesia in musica, seguito da Georges Brassens, Jacques Brel, Juliette Greco, Patachou, Barbara, Moustaki, Mouloudji…Non solo i suoi testi rappresentavano di per sé una forma letteraria qualitativamente alta a tal punto che Ferré oggi figura nel Petit Larousse insieme ai più grandi poeti francesi del ‘900, ma il Maestro si spinse oltre e musicò e cantò Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Apollinaire, Aragon, Villon, Pavese, e Angiolieri. Un’operazione sublime e coraggiosa che non ha eguali al mondo. Louis Aragon proclamò: “ bisognerà riscrivere la storia della letteratura a causa di Léo Ferré ”. E i letterati che frequentavano e sostenevano con entusiasmo quegli artisti si chiamavano Jean Paul Sartre, Albert Camus, André Breton, Simone De Beauvoir, Jacques Prevert, Boris Vian…
I nostri cantautori, i poeti in musica, arrivarono circa dieci anni dopo ma, ebbero dei “padri” di tutto rispetto, delle fonti ispiratrici nobili e altissime che hanno dato tanta poesia agli uomini.
Certo, se vogliamo circoscrivere la poesia al puro gesto di scrittura su un foglio, allora chi canta non è un poeta. Mi piace però pensare che sia la poesia ad autodeterminarsi dove e quando vuole, come un’entità indipendente che sceglie ogni volta la forma in cui apparire: una volta sulla carta, un’altra volta attraverso la macchina da presa di un regista, o sulla tela di un pittore, o infine in una canzone d’autore. Non è il genere che la determina, ma il tipo d’artista. Non ci sono arti maggiori o arti minori, ma artisti maggiori e artisti minori.
Ma terminiamo la nostra breve incursione sugli anni Sessanta. Dopo il rock, il beat, i poeti in musica, ecco che arrivarono gli hippies, i figli dei fiori, costola transfuga del beat ma con tendenze più misticheggianti, con uno spiccato senso tribale a tal punto da formare “la comune hippie”, l’abbandono della città e della civiltà, organizzandosi in “famiglie allargate”, coltivando nei campi il cibo per la sussistenza alimentare, sperimentando in pratica la possibilità di sopravvivere senza cedere all’integrazione forzata nel Sistema. Una forma di condominio anarcopacifista alleggerita e sublimata dalla sua inclinazione verso le dottrine filosofiche indiane e orientali in genere e da una sessualità collettiva condivisa all’interno della comunità stessa.
Ma è un’ultima trincea nel deserto. Siamo arrivati al ’68 dove le “istanze sociali ghandiane” espresse in libertà, pacificamente, fuori da contesti teorici, vengono risucchiate dalle ideologie marxiste che spazzano tutti quei fenomeni giovanili precedenti dando il via alla rivolta di maggio a Parigi e nel mondo. Il mondo prende fuoco ma forse, al di là degli anni, sulle ceneri di quel falò utopico, è proprio la cultura beat a resistere nel tempo, a significarsi nella storia, grazie ai suoi scrittori, alla sua poesia, cantata o scritta che sia. Dunque la nostra adolescenza, la dinamica formativa di quell’età meravigliosa, s’è nutrita di utopie, del senso del sogno, di poesia, dell’impeto rivoluzionario . I miti d’allora erano miti artistici, filosofici, politici. Li abbiamo seguiti come fossimo stati generati da loro, da loro venuti alla luce per la seconda volta.
Che dire dunque quando dalla beat generation della nostra giovinezza ci siamo trovati, molti anni dopo, da adulti, da vecchi, davanti alla digital degeneration? Che dire nel vedere quei miti sostituiti da altri miti, i nostri bersagli d’allora divenuti, al contrario, semidei idolatrati : manager, aziendalisti, imprenditori, tecnocrati ? L’involuzione antropologica spacca la bottiglia di champagne allo scoccare degli anni Ottanta, quando il Titanic umanistico inizia la sua tragica traversata giungendo in pezzi ai giorni nostri, affondando nel mare gelato e necrotico della cancellazione mnemonica ogni volta che ci si dimentica di un autore d’appartenenza, ogni volta che un arrembaggio corsaro neoliberista o ipertecnologico trascina sul fondo dell’oblio i nostri padri, la nostra identità culturale: Pavese, Vittorini, Fenoglio, Soffici, Papini, Bobbio, Sbarbaro, Montale, Ungaretti, Piovene, Pratolini, Pasolini, Morante, Lalla Romano, e tanti tanti altri ….
Domandate alla digital degeneration chi sono questi padri appena citati, solo il pesante e agonico silenzio d’occidente vi risponderà con eloquenza cimiteriale e s’archivia s’archivia, verso su verso, riga dopo riga, come in una necropoli museale. Una generazione seppellisce l’altra e ricopre i nostri padri sotto un cumulo cartaceo come sotto lenzuola di marmo. Le lotte d’allora, le utopie lontane vengono schernite o addirittura demonizzate. Il cordone ombelicale con il nostro più recente passato è stato tagliato e gli ultimi umanisti vagano sospesi nel buio epocale come astronauti fuori dall’abitacolo nell’oscurità siderale dell’universo. Il trapianto globale è riuscito perfettamente, la grande protesi è stata applicata sostituendo i soggetti con gli oggetti. Oh si, l’uomo nuovo è davvero nato ma non ha le caratteristiche che auspicavamo, un uomo senza consapevolezza del passato è un uomo – cicala, un organismo usa e getta fatto in laboratorio e asservito a un sistema globale onnivoro e mandibolare destinato a morire per anemia onirica. Ma il danno non è solo nell’aver creato e nel continuare ad alimentare i barbari del nuovo analfabetismo, il danno è più profondo, più irreversibile. Il danno finale è di aver rarefatto i sentimenti e i valori morali, di averli desertificati a tal punto di averli espropriati dal DNA collettivo, di aver leso il nucleo intimo dell’individuo, desensibilizzandolo come in un’anestesia mondializzata.
Alcuni decenni fa Pasolini disse: “Credo nel progresso, non credo nello sviluppo”. Nel 1965 il regista Jean-Luc Godard realizzò un bellissimo film , altrettanto profetico, intitolato “Missione Alphaville” che narrava l’avventura di un agente segreto in missione sul pianeta Alphaville dove uno scienziato – simbolo del potere assoluto – domina l’intera società disumanizzandola, togliendo la capacità alla gente di percepire e vivere i sentimenti, e rendendola così asservita a un tirannico regime tecnologico. Tutti i personaggi della storia vengono spogliati d’ogni umana pulsione. L’agente Lemmy Caution, s’innamorerà di una ragazza anch’essa inconsapevole della azione snaturante subita e incapace di ricambiarlo. Quando, alla fine del film, l’uomo riesce a strappare la ragazza ai suoi sorveglianti e a fuggire con lei da Alphaville, la ritroviamo all’interno della macchina mentre tiene tra le mani il libro di Paul Eluard “Capitale del dolore” che Lemmy Caution gli ha rifilato come ultima speranza. Solo attraverso la poesia lei riuscirà a dire: “ io ti amo”.
Non so se sarà la poesia a salvarci, so che da Alphaville dobbiamo tutti scappare.
Mauro Macario
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