Prosegue l’impegno di Casa della poesia e di Potlatch per far conoscere, soprattutto al pubblico italiano, l’opera straordinaria di uno dei maggiori scrittori, poeti e intellettuali dell’America Latina che abbiamo avuto l’onore e il piacere di conoscere, frequentare, pubblicare, Jorge Enrique Adoum. A 90 anni dalla sua nascita e a 40 anni dalla pubblicazione del suo romanzo più famoso “Entre Marx y una mujer desnuda”, considerato insieme a “Rayuela” di Cortazar il maggiore romanzo sperimentale dell’America Latina, ne presentiamo un frammento, approfittando di una registrazione fatta da Jorge Enrique. Come per il suo libro italiano “L’amore disinterrato e altre poesie” pubblicato nel 2002, la traduzione di questo testo è di Raffaella Marzano. La bellissima lettura di Jorge Enrique Adoum ci prende, ci affascina, ci commuove.
Jorge Enrique Adoum
Tra Marx e una donna nuda…
(frammento)
La miopia del Fakir era quasi cecità: forse per questo gli risultavano chiare le cose occulte nelle cose. Figlio di un sarto che aveva deciso che avrebbe ereditato il suo mestiere, la miopia lo salvò a favore della poesia. “Io non vedevo il cammello, commentava, figuriamoci la cruna dell’ago”. Leggeva poco paragonato alla nostra bibliofagia: per questo sapeva più di tutti noi. Era trasparente come un angelo, e non vedeva l’apparenza ma il simbolo. Era l’unico fra noi a preoccuparsi dello spirito e del superamento della materia: per questo la sua poesia era alchemica.
Vivibeveva nei luoghi più sordidi dell’altra oscurità, quella del vizio, e gli si intuiva una vita segreta della quale nessuno ebbe mai prove. Ma era sicuro che frequentava le cantine più abiette bazzicate da ladruncoli parlando loro dell’amore universale, gli incredibili lupanari di sdentate dicendo loro che il loro ventre era un campo di grano e parlando del corpo astrale, e che da lì usciva illuminato e intatto “perché la strada che porta verso l’alto e la strada che porta verso il basso sono la stessa”. Qualche volta fu guardiano notturno del Carcere Municipale, cosa che risultava semplicemente logica. Noi non capivamo niente dell’Uroboro – maschio e femmina, padre e madre, madre e figlio – né dei tatwas né dei mantra sacri a cui a volte si riferiva, e sorridevamo perché disdegnavamo quel che ignoravamo nel nostro materialismo feroce ed irriducibile. Sembrava non necessitare cibo: non accettò mai l’invito a pranzo di nessuno di noi: “È un atto primitivo, come defecare, diceva, che non si può fare in pubblico”, e quando dopo aver bevuto tutta la notte mettevamo insieme gli ultimi spiccioli per resuscitare il giorno con un brodo di anatra spesso e grasso, lui diceva: “No, grazie, preferisco introvertirmi in acquavite” e ripeteva la parola AUM varie volte, impegnandosi in lunghe inspirazioni dell’aria rada, fetida di alcol, vomito e urina. E, tuttavia era il più sano fra noi. Ne “El Murcielagario” dovemmo spogliarlo con la forza e bruciare la sua camicia che ormai era “prova di sevizia atroce, soprattutto sul collo” disse il Rispido, mentre Galvez gli metteva la sua. Tuttavia, era il più puro. Quando si sparse l’insolita voce che si era sposato con una delle sdentate che gli era affezionata (“Sono nato sposato, disse, non vedete che mia moglie somiglia a mia madre per età?”) il Rispido capitanò una notte un assalto alla sua stanza per verificare che fosse vero, come si diceva, che ora dormiva col pigiama: si sentì preso in fallo. Riuscimmo a trovargli un impiego pubblico. “L’unica cosa che deve fare è presentarsi a firmare il registro di entrata e uscita e passi il giorno a scrivere versi se vuole” aveva detto il Ministro, “il che sarebbe stato come costruire grimaldelli in carcere” disse Galvez, ma il Fakir rifiutò dicendo che non poteva trascurare i suoi altri impegni: forse per questo era il più libero. Era solito portare a spasso i suoi demoni di notte. In genere lo incontravamo all’angolo del parco, mentre cercava di vedere da lontano la collina, la torre della chiesa, mettendo interminabilmente alla prova la sua teoria che la modifica della convessità del cristallino, ottenuta con la pressione delle dita sugli occhi, rendeva normale la visione. Quando passeggiava con lui in quelle ore, il Rispido, all’improvviso faceva finta di salutare qualcuno: “Quiubo, Huevas, come stai” e il Fakir diceva: “Dov’è, dov’è?”. “Ma come, è passato vicino a te e quasi ti ha toccato” e lui si metteva a guardare da tutti i lati, meravigliato di non averlo visto, strizzando ancora di più gli occhi, e poi, più avanti: “Hey Negrito, come ti va?” e il Fakir a torturarsi gli occhi con le dita. Forse per questo, quando ci incontrava, era il più cordiale. Un giorno tutti insieme gli regalammo un paio di occhiali, e gli facemmo un danno: cominciò a scoprire la realtà, prima con stupore, poi con dispiacere di astrologo convertito in agrimensore. “Il mondo ha saputo esser bello” disse. “Ora mi spiego l’altra poesia. Voi lo sapevate, ad esempio, che le mosche hanno le zampe? E la Individua de Falcon de Alaquez non è scema ma ha l’anima bianca”. Andò in campagna e disse che era un luogo atroce in cui i polli camminano crudi; andò al cinema e disse che era il rito della caverna dei primitivi del futuro; andò a una mostra di scultura e disse che era assurdo starla a guardare, quell’arte era fatta per essere accarezzata perché era un’arte carnale. “Fratellino, andiamo a vedere che succede al parco” mi disse una mattina, inquieto. Io non trovai nulla di diverso o inusuale. “Come niente, disse quasi furioso, come niente. Non hai visto che hanno abbattuto un albero? Il poverino aveva ancora vive le foglie che tremavano al sole.” Andò a una festa a casa del Cretino, bevve fino all’alba e quando salutò disse: “Grazie, vero? ma non invitatemi un’altra volta, il whisky mi fa male.” A me, invece, disse “Il Gautama aveva ragione, fratellino: ogni focolare è dimora di spazzatura.” L’alcol, più efficace e nocivo della poesia, lo liberava da se stesso, da noi e dagli altri. Puzzava sempre di guarapo, chiedeva soldi e nessuno poteva negarglieli: non era la sua ubriachezza una lotta disperata con la realtà che gli stava stretta? Holderlin del tropico, non sapeva forse, come l’altro, quello della nebbia, che la vita non è altro che la ricerca di una forma? Lo trovai ferito, forse a causa di una caduta o un di un colpo di chissà che notte, il sangue secco sull’ex-camicia di Galvez, vacillando, premendosi di nuovo il cristallino. “E gli occhiali, Fakir, li hai impegnati per bere, non è vero?” “Sì, fratellino, è vero” “Ma avevi detto che il mondo era bello.” “Sì, disse, ma l’essere umano è brutto.” Poi se ne andò all’estero, dove pure ci sono esseri umani, e certamente tornò ad usare occhiali, perché là si tagliò la giugulare con una lametta in una stanza d’albergo, vinto dall’infinito, dallo spazio, così come aveva previsto.
Traduzione di Raffaella Marzano
Jorge Enrique Adoum
Entre Marx Y una mujer desnuda
(fragmento)
La miopía del Fakir era casi ceguera: tal vez por eso le resultaban claras las cosas ocultas en las cosas. Hijo de un sastre que había decidido que heredaría su officio, la miopía lo salvó para la poesía: “Yo no veía el camello, comentaba, peor el ojo de la aguja”. Leía poco en comparación con nuestra bibliofagia: por eso sabía más que nosotros. Era trasparente como un ángel, y no veía la apariencia sino el símbolo. Era el único de nosotros a quein preocupaban el espíritu y la superación de la materia: por eso su poesía era alquímica.
Vivibebía en los sitios más sórdidos de la otra oscuridad, la del vicio, y se le adivinaba una vida secreta de la que nadie tuvo pruebas jamás. Pero era seguo que atravesaba las cantina más abyectas frecuentadas por rateros hablándoles del amor universal, los increíbles lupanares de desdentadas diciéndoles que su vientre era un campo de trigo y hablándoles del cuerpo astral, y que de allí salía iluminado e intacto “porque el camino quel lleva para arriba y el camino quel lleva para abajo son lo mismo”. Alguna vez fue guardián nocturno de la Cárcel Municipal, lo que resultaba simplemente lógico. Nosotros no entendíamos nada del Ourovourus –macho y hembra, padre y madre, madre e hijo– ni de los tatwas ni de lo mantrams sagrados a que se refería a veces, y sonreíamos porque desdeñábamos cuanto ignorábamos en nuestro materialismo feroz e irreductible. Parecía no necesitar de alimento: jamás le aceptó a ninguno de nosotros una invitación a comer: “Es un acto primitivo, come defecar, decía, que no se puede hacer en público”, y cuando después de haber bebido toda la noche juntábamos nuestro último dinero para resucitar al día con el caldo de patas espeso y grasiento, él decía: “No, gracias, prefiero introvertirme un aguardiente” y repetía la palabra AUM varias veces, entregándose a largas inspiraciones del aire ralo, fétido de trago, vómito y orina. Y, sin embargo, era el más sano de nosotros. En “El Murcielagario” tuvimos que desvestirlo por la fuerza y quemar su camisa que ya era “puebra de sebicia atroz, sobre todo en el cuello” dijo el Ríspido, mientras Gálvez le ponía la suya. Sin embargo, era el más puro. Cuando corrió el insólito rumor de que se había casado con una de las desdentadas que le tenían ternura (“Yo nací casado, dijo, ¿no ven que mi mujer parece mi mamá por la edad?”) el Ríspido encabezó una noche un asalto a su cuarto para comprobar si era verdad, come se decía, que ahora dormía con pijamas: se sintió como pillado en falta. Le conseguimos un empleo público. “Lo único que tiene que hacer es presentarse a firmar el registro de entrada y salida y que se pase el día escribiendo versos si quiete” habio dicho el Ministro, “lo cual habría sido como fabricar ganzúas en la cárcel” dijo Gálvez, pero el Fakir lo rechazó diciendo que no podía desatender sus otros asuntos: tal vez por eso era el más libre. Solía sacar a pasear por la tarde a sus demonios. Por lo general lo encontrábamos en la equina del parque, tratando de ver a lo lejos el cerro, la torre de la iglese, poniendo interminablemente a prueba su teoría de que la modificación de la convexidad del cristallino, obtenida por la presión de los dedos sobre los ojos, volvía normal la visión. El Ríspido, cuando paseaba con él a esas horas, saludaba de pronto, a nadie, de gana: “Quiubo, Huevas, cómo estás” y el Fakir decía: “Dónde está, dónde está”. “Pero si pasó al ladito tuyo casi topándote” y él se volvía a mirar a todos lados, extrañado de no haberlo visto, entrecerrado aún más los ojos, y algunas cuadras más adelante : Hola Negrito, cómo te va” y el Fakir torturándose los ojos con los dedos. Tal vez por eso, cuando nos encontraba, era el más cordial. Un día le regalamos entre todos un par de anteojos, y le hicimos daño : comenzó a descubrir la realidad, primero con asombro, luego con una desazón de astrólogo convertido en agrisemnsor. “El mundo ha sabido ser lindo” dijo. “Ahora me expligo la otra poesía. ¿Vos sabías, por ejemplo, que las moscas tenían patas ? Y la Individua de Falcón de Aláquez no es tonta sino que tiene el alma blanca.”. Fue al campo y dijo que era un lugar atroz donde los pollos caminaban crudos; fue al cine y dijo que era el rito de la caverna de los primitivos del futuro; fue a una expósicion de escultura y dijo que era absurdo verla, que estaba hecha para ser acariciada porque era un arte carnal. “Anda hermanito, a ver lo que pasa en el parque” me dijo una mañana, ensombrecido. Yo no encontré nada diferente o inusual. “Cómo que nada, dijo casi furioso, cómo que nada. ¿No viste que han derribado un árbol? El pobre tenía todavía vivas las hojas temblando a sol.” Fue a una fiesta en casa del Cretino, bebió hasta que amaneció y al despedirse dijo: “Gracias, ¿no?, pero no me invitarán otra vez, el whisky me hace daño.” A mí, en cambio, me dijo “El Gautama tenía razón, hermanito: todo hogar es un rincón de basura.” El alcohol, más eficaz y nocivo que la poesía, lo iba liberando de sí mismo, de nosotros y de los otros. Olía ya a guarapo, pedía dinero y nadie podía negárselo: ¿no era su embriaguez una lucha desesperada contra la realidad que le resultaba pequeña? Hölderlin del trópico, ¿no sabía acaso, como el otro, el de la bruma, que la vida no es sino la búsqueda de una forma? Lo encontré lastimado quizás a causa de una caída o un golpe de quién sabe qué noche, la sangre seca sobre la ex-camisa de Gálzez, tambaleando, presionándose de nuevo el cristallino. “¿Yo los lentes, Fakir, los empeñaste para beber, no es certo?” “Si, hermanito, cierto es.” “Pero tú dijiste quell el mundo era lindo.” “Sí, dijo, pero el ser humano es feo.” Después se fue al extranjero, donde también hay seres humanos, y seguramente volvió a usar enteojos, porque allá se cortó la yugular con una hoja de gillette en una pieza del hotel, vencido por el infinito, por el espacio, tal como lo había previsto.
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