Foto di Salvatore Marrazzo
Che cos’hanno in comune una nuvola di fumo, un gatto, una vista sul Partenone, un popolo alla fame, una poesia ricca d’ironia? La risposta è semplice: Sotirios Pastakas!
Forse però è troppo semplice: il nostro amico greco non merita di essere ridotto ad un cliché, ad uno stereotipo, per quanto simpatico possa risultare.
Dunque ripartiamo da quello che ritengo il dato fondamentale: il testo, le poesie raccolte nell’antologia Corpo a corpo, Multimedia, Salerno 2016; confidando nel fatto che la biografia, l’attività letteraria, ed eventuali altri dati significativi, scaturiranno, se necessario, dal testo stesso (ma il lettore più esigente può consultare le pagine web a lui dedicate nel sito di Casa della poesia http://www.casadellapoesia.org/poeti/pastakas-sotirios/biografia).
Ovviamente questo contributo non ha la pretesa di dire parole definitive (se mai ce ne fossero) sull’argomento, in particolare per due ragioni: la prima è che siamo di fronte ad un’antologia, quindi ad una selezione di poesie estratte da diversi libri pubblicati nel corso di un lungo periodo, trent’anni per l’esattezza (1986-2016 con l’aggiunta dell’inedito Alzheimer incipiens); la seconda, forse ancora più importante, è che non conosco il greco e dunque la mia analisi deve per forza di cose riferirsi alla traduzione italiana. Tuttavia, poiché la traduzione stessa è stata realizzata con il supporto dell’autore (buon conoscitore dell’italiano per i lunghi anni di studio universitario trascorsi a Napoli e Roma), si può accreditarle una fedeltà all’originale tale da consentire un lavoro di approfondimento, il cui scopo principale è di suscitare attenzione verso questo poeta (considerato che finora sono apparse in Italia solo alcune interviste – cui farò riferimento più avanti – e qualche poesia), con la consapevolezza dei limiti sopra evidenziati: sono dunque pronto ad accettare critiche, dichiarandomi sin da ora felice dell’eventuale superamento di questa fase embrionale.
Quello che sorprende in Pastakas non è solo la novità dei contenuti o della forma poetica, ma ancor di più il tono sempre sospeso tra (auto)ironia e sarcasmo, capace di tenere insieme la crisi di un individuo e quella di una nazione, gli amori e le amicizie che talvolta vanno in frantumi, la vita quotidiana e la bellezza: un amalgama che cattura il lettore in una sorta di connivenza con un uomo che, con la complicità della poesia, dagli errori apprende a “ripeterli e migliorarli” (Ritratto del poeta intorno ai quaranta, p. 29). Ma queste mie, come altre affermazioni dello stesso poeta contenute nelle interviste, vanno, come ho detto, verificate nel corpo della poesia, altrimenti rischiano di restare aleatorie; dunque procediamo.
Da un primo spoglio emergono alcune parole la cui frequenza è eloquente: vita (23 volte, a cui vanno aggiunte 1 vivente, 1 vivo, 1 evviva e forse perfino 1 vividi), notte (20 volte a cui aggiungere 3 stanotte e 1 buonanotte), corpo (15 volte più 2 al plurale, oltre, ed è particolarmente significativo al titolo scelto per l’intera raccolta Corpo a corpo, appunto). Tuttavia, quello che vorrei evidenziare come elemento chiave, appare subito dopo: la parola amici ricorre 13 volte, ma è declinata anche in vari altri modi (1 amica, 1 amiche, 1 amicizia, 2 amicizie, 2 amico). Se a questo aggiungiamo quanto compete ad amore che etimologicamente ha la stessa radice (1 ama, 4 amanti,1 amante, 1 amata, 2 amate, 4 amato, 1 amare, 1 ami, 1 amo, 12 amore, 4 amori, più 2 innamorato e 1 innamorati) ecco che la supposizione prende decisamente consistenza. E se il tema dell’amore potrebbe apparire scontato ed universalmente presente (anche se va detto che l’amore di cui si parla qui non è propriamente quello romantico!), quello dell’amicizia lo è decisamente meno – tra le eccezioni si segnala Vittorio Sereni, di cui avremo modo di riparlare più avanti – e sottolinea l’importanza di questa comunità plurale (di amici/che e amati/e) che in qualche modo fa fronte comune contro le avversità della vita quotidiana (uno dei libri di Pastakas si intitola Preghiera per gli amici; ma poi troviamo: “Quando abiteremo di nuovo in un meraviglioso/ attico, assieme a tutti i nostri amici.” in Le piante migratrici (p. 57); “amicizie e amori/ infiniti” in Gioia all’alba (p. 75) ; “Amori, amicizie, sogni di grandezza” in Il lago di Vuliagmeni (p. 79) ; “ho solo seguito le scintille/ di fuoco che emettevano gli occhi/ di amiche e amici” in Rosso (p. 121), o ne viene travolta e compromessa (Regalo di addio p. 19; Quale risposta? p. 23).
Nell’intervista a cura di Massimiliano Damaggio apparsa su “Versante ripido” il 1 aprile 2013 (http://www.versanteripido.it/intervista-a-sotiris-pastakas-una-poetica-dello-sguardo/), Sotirios afferma, tra l’altro, “In più, con la crisi economica abbiamo riscoperto la comprensione reciproca e l’altruismo. Non dimentichiamoci che la solitudine dell’uomo contemporaneo è politica, prodotto e ricetta del capitalismo.”. Alla luce di queste parole, quello che abbiamo finora detto in relazione all’amicizia assume anche un significato politico, nel senso ampio indicato da Lea Melandri nella postfazione al libro, consistente “nella capacità di uscire dalla separazione tra privato e pubblico, tra il corpo e la polis, tra biologia e storia, sta nel tentativo di sottrarre all’ “afasia” pensieri, sentimenti, passioni “impresentabili” della vita e della quotidianità.” (L. Melandri Sotirios Pastakas. Il nomadismo della poesia, p. 150 ).
Altra parola ricorrente è rosso (13 volte, cui si aggiungono 10 rosse, 8 rossa, 1 arrossisce, 1 porpora e 1 purpurea). Orbene – e qui il riscontro quantitativo sconta il suo limite, in quanto l’uguale non è sempre identico – questa parola è legata talvolta ad un sentimento di imbarazzo (“rosso per la vergogna” in Via dell’Accademia, p. 41, ad es.), altre volte è solo una nota di colore (“un ombrello bianco e rosso” p. 71, “labbra rosse” p. 123, ecc.), in altri casi è sicuramente legata al sangue (5 volte troviamo questa parola cui si aggiunge 1 sanguina) o al vino (parola che ritorna 8 volte) e al Campari (cui il nostro dedica addirittura un’Ode); ma, dando il titolo ad una poesia insolitamente lunga – Rosso (pp. 119-125), appunto – finisce per assumere una centralità che vorrei approfondire proprio attraverso la lettura di questa poesia:
Io che non ho cantato/ il profondo rosso della rosa,/ che non ho cantato/ nemmeno l’emozione/ di un profondo sorriso/ il profilo di tre quarti,/ il lato oscuro,/ della mia mente/ le macchie rosse/ sul lenzuolo del mare/ quando un breve vento scopre/ una ad una le rughe/ del mio cervello/ una ad una le mie tante/ sconfitte – maschera/ che arrossisce/ un istante prima di incendiarsi./ La luce visibile./ I cinque sensi./ I centocinque/ abitanti di Heraklia./ Gli undici metri della barca./ Le innumerevoli birre./ I campari contati/ nei loro riflessi./ Una valigia, un cappello/ e un divorzio./ Ancora un campari, per favore./ Un divorzio/ e tantissimi ombrellini./ Portatemi altri campari ancora./ Voglio veder crescere/ la mia parte di martirio/ tanto quanto cresce il vostro/ confortevole piacere./ Datemi una grossa arancia rossa./ Non cantare più, hai cantato/ quanto hai posseduto. Canta solo/ i bambini che ancora giocano/ alle dieci di sera, si sente/ soltanto la loro voce/ nel cortile della chiesa,/ nella Settimana Santa e ancora oltre/ i latrati dei cani randagi./ Non hanno ancora finito/ di giocare, io sì/ ho finito, solo perché loro non giocano con me./ Uno ad uno chiamo i bambini/ per nome/ Ilias, Alexis, Kosti, Eghli/ e nemmeno uno che risponda/ al richiamo. Nomi che non rispondono ad uno/ che non è diventato padre./ Non ho cantato la paternità/ fuoco d’artificio che non scoppia/ il contenuto dei miei coglioni/ di notte, fallito/ e senza munizioni notte senza bengala,/ fuoco d’artificio che non è scoppiato,/ e che non ha infiammato l’oscurità,/ semplice fanalino di posizione rosso./ Non ho cantato la guida./ Non ho guidato nessuno in nessun luogo:/ psichiatra fallito alcolista,/ ho solo seguito le scintille / di fuoco che emettevano gli occhi/ di amiche e amici – obbligo/ supremo, anche se non l’ho cantata/ la vita, di rispettarla/ di seguirla,/ di sorpassarla,/ di lasciarla correre dietro a me,/ di lasciarla correre davanti a me./ Non ha fanalini di posizione la vita/ cadono nel più profondo abisso/ quelli che ne seguono i passi./ Non ho cantato i fanalini di posizione,/ ho cambiato le mie luci/ dagli abbaglianti agli anabbaglianti/ ma anche così non vedo i miei amici/ non vedo nessuno:/ anoressia, alcol, e insonnia./ Vedo unicamente incubi/ davanti a me: chiaroveggente/ e non vorrei questo dono,/ ne ho avuto paura e ho provato a soffocarlo,/ indovino di ogni mia/ perdita personale futura/ senza poter tornare indietro./ Non ho potuto cantare/ la paura né l’evoluzione/ della crisi, non ho mai scritto/ che era rosso quel breve vento/ che scolpiva le rughe/ sul lenzuolo del mare./ Non ho mai detto che era rossa/ la mia bocca insaziabile/ quando si posava sulla sua bocca./ Non ho mai detto che erano rosse/ le mani che abbracciavano/ il suo corpo – non le ho mai cantate./ Non ho mai cantato/ le sue mani rosse, le sue labbra/ rosse, il mestruo/ della sua vagina,/ gli stop che s’accendevano/ qua e là sul suo corpo,/ non ho cantato/ il suo herpes porpora./ Non ho mai cantato i divieti./ Solo quelli che ho goduto./ Ho cantato l’emozione/ del profondo sorriso./ Ho cantato la gioia inaspettata/ che profondamente nasconde dentro di sé/ un colore rosso e selvaggio,/ il sangue che ho sputato/ più lontano che potevo/ per vedere da dove soffiava/ il vento e definire/ la direzione/ della mia prossima destinazione./ Non ho scritto della gioia./ Alla fine non mi è stato dato/ il profondo rosso della rosa/ perché volevo essere io la rosa/ e non ve l’ho confessato,/ ho solo colorato di rosso le uova/ per ingannarvi. Emettevo/ grida rosse. Ingoiavo/ fiamme rosse. Mi mettevo/ il vestito rosso da clown/ per divertirvi, per infiammare/ la mia vita scialba, RH/ incerto come il mio gruppo:/ zero con un segno negativo./ Strisce bianche, strisce rosse./ Alla fine, neanche il mio sangue/ mi potrete offrire/ in caso di bisogno, sappiate/ che sarò sbrigativo nel darvi la buonanotte./ I bambini non hanno finito/ ancora di giocare,/ notte rossa d’aprile/ che finisca qui, per me/ la poesia.
Immediatamente balza agli occhi, spesso come un’anafora, l’iterazione della negazione (Non ho cantato, Non cantare, non giocano, non rispondono, non scoppia, non è scoppiato, non ha infiammato, non ho guidato, non l’ho cantata, Non ha fanalini, non vedo, non vorrei, Non ho potuto cantare, non ho mai scritto, Non ho mai detto, Non ho mai cantato, Non ho scritto, non ve l’ho confessato, non hanno finito), ma sappiamo che Pastakas è poeta allo stesso tempo di apparente semplicità e di grande cultura (“La cosa più difficile è parlare semplicemente. C’è un serio grado di difficoltà perché si può scivolare nel semplicistico, nel chiacchiericcio e nell’insipido. Scrivo molto difficile perché mi pongo diversi gradi di difficoltà: allitterazioni, numero di versi e di poesie… tutta una cabala personale, inventata da me stesso solo per rendermi difficile lo scrivere. Devo confessare che per me la scrittura è compulsione al grado massimo.” – dice Sotirios nella citata intervista su” Versante ripido”), quindi è lecito supporre che utilizzi consapevolmente lo strumento della negazione in letteratura (e ovviamente in psicoanalisi): così facendo ottiene il risultato di dire che non ha cantato e non ha scritto alcune cose, ma allo stesso tempo esse sono dette e, in tal modo, il lungo elenco delle cose non cantate (il profondo rosso della rosa, il singhiozzo, il profilo, ecc.) entra a buon diritto tra le cose cantate o scritte da Pastakas.
L’incipit della poesia mi sembra fortemente letterario: penserei a Borges (“La rosa immarcescibile che non canto” nella raccolta “La rosa profonda”) più che a Gozzano, Huidobro o Gertrude Stein (e i tanti altri che hanno cantato la rosa – Roman de la rose, ad es.), oltre che per l’evidente coincidenza, anche per l’inclusione dello scrittore argentino nel breve elenco delle letture dichiarate nell’intervista rilasciata a Francesco Napoli (in “Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea” n. 1, pag. 11, Rimini 2013) – e che Borges sia un riferimento è confermato perfino dal nome dato al proprio gatto, “Borges” appunto, trasformato poi in Jorge per motivi editoriali.
Mi sembra inoltre che si realizzi una forma di sinestesia tra la forte componente visiva (la luce visibile, ecc.), quella sonora (cantare e scoppiare in varie voci verbali, voce, latrati, chiamo, ecc.), il gusto (birra, campari, arancia, ecc.), il tatto (bocca…sulla sua bocca, mani che abbracciavano, ecc.), dunque “I cinque sensi” (p. 119; manca in verità un esplicito richiamo all’odorato, ma un buon lettore non faticherebbe a sentire i profumi del mare, del vento, dell’arancia e gli aspri odori che preludono ai maleodoranti bidoni della fame e della miseria che incontreremo in Pasto dei poveri).
Al centro di questo componimento che si sviluppa in versi liberi e non suddivisi in strofe, troviamo un’attribuzione a se stesso di un dono profetico (Sotirios = Cassandra): “(…) chiaroveggente/ e non vorrei questo dono,/ ne ho avuto paura e ho provato a soffocarlo”.
Un altro elemento ricorrente, e come tale spia semantica rilevante, è la parola profondo: ben sei degli undici lemmi che condividono questa radice sono presenti in questa poesia (5 profondo, 1 profondamente): per uno che è stato psichiatra – come viene ricordato all’interno del testo – non si tratta certo di una parola qualsiasi, ma rimanda quantomeno ad una dimensione dell’inconscio che forse meriterebbe uno studio a parte. Mi limito a citare lo stesso poeta: “La poesia è lingua, e come lingua crea nuove sinapsi fra le cellule nervose, i neuroni del cervello umano; dopo una poesia sconcertante il cervello umano inizia a lavorare diversamente; cambia il modo con cui vediamo il mondo e tutto ciò che ci accade. In questo modo, la poesia cambia il mondo.” (Intervista a Massimiliano Damaggio in “Margutte” del 25 giugno 2014, http://www.margutte.com/?p=6245).
Anche qui ritroviamo una delle cifre più rilevanti della poesia di Pastakas, ovvero la capacità di mescolare l’alto con il basso, il lirico con il prosaico, facendo irrompere elementi della vita quotidiana: lenzuolo, rughe, birre, valigia, cappello, divorzio, cani randagi, ecc.; fino ad un estremo realismo: coglioni, mestruo, vagina, ecc. E con l’aggiunta di alcuni nomi propri: Iràklia, Ilìas, Aléxis, Kostì, Éghli, che ci ricollocano in un preciso contesto geo-politico, la Grecia, la cui storia e l’attuale crisi innervano l’intero libro.
Nell’ambito di questa compresenza di lirico e prosaico, non escluderei quantomeno un’eco di una poesia di Vittorio Sereni (autore inserito nel novero di quelli italiani tradotti in greco da Pastakas) “Quei bambini che giocano” (in Gli strumenti umani, Torino 1975-2, p. 35 ), nella quale, oltre ai bambini evocati dal titolo, alla prevalenza del tema dell’amore (“[…]motivo dell’amore tradito che ci ferisce a morte […]”, P.V. Mengaldo, Per Vittorio Sereni, Torino 2013), al verso “il corso della vita deviato su false piste” (che ben sintetizza alcuni temi di Rosso), ha un ruolo fondamentale la figura di Umberto Saba – anch’esso oggetto di studio e traduzione del nostro autore, come avremo occasione di ribadire più avanti – a cui viene attribuita questa pregnante citazione, che suppongo Sotirios sottoscriverebbe: “D’amore non esistono peccati,/ s’infuriava un poeta ai tardi anni,/ esistono soltanto peccati contro l’amore”.
Direi che si tratta, nel caso del testo fin qui analizzato, di una straordinaria poesia-mondo in cui in maniera ellittica si inseguono e si alternano vicende e sentimenti, dolore e gioia, bellezza e degrado, vita e morte; tutto sapientemente tenuto insieme dal motivo costante del rosso e da una serie di variazioni sul tema (ad es.: “le macchie rosse/ sul lenzuolo del mare/ quando un breve vento scopre/ una ad una le rughe” che incontriamo a p. 119, diventa “[…] non ho mai scritto/ che era rosso quel breve vento/ che scolpiva le rughe/ sul lenzuolo del mare.” p. 123).
Lo slittamento che si verifica dal fanalino rosso alla guida alla vita (passando per sorpassarla, fanalini di posizione, abbaglianti, anabbaglianti, ecc.) è a mio avviso esemplare figura retorica, metafora semplice ed elegante, quindi efficacissima. Scorre in modo discontinuo e frantumato, quasi caotico, tutto il film della vita: i bambini compagni di gioco che oggi non rispondono più, ma che sono anche i figli non avuti, il divorzio, anoressia, alcol e insonnia, ecc. Il tempo verbale è conseguentemente quasi sempre al passato, con un’unica concessione al futuro e alcuni sprazzi di presente (Voglio veder crescere, Datemi una grossa arancia rossa, Canta solo, Non vedo/Vedo, che finisca) in bilico tra l’assertivo e l’imperativo. C’è evidentemente un’alternanza euforico/disforico che percorre, dinamizzandola, l’intera poesia. Mi torna in mente, a tal proposito, il riferimento fatto da Pastakas, nel corso di un incontro con studenti al Liceo Severi di Castellammare di Stabia, al libro di Julia Kristeva Sole nero, il cui sottotitolo è “Depressione e melanconia”, in relazione ad un impulso attivo nel depresso come motore della poesia.
Torniamo al testo: il poeta, dopo aver preconizzato la propria morte, termina con un’altra immagine dialettica: da un canto “i bambini” che “non hanno finito di giocare” dall’altro l’esortazione “che finisca qui, per me/ la poesia.”. Definirei davvero raffinato, quasi manieristico, questo finale, con il verbo finire che torna ben due volte negli ultimi cinque versi, uno straordinario ossimoro (“notte rossa”) e ultima, quasi estremo residuo di una vita, la poesia!
Da evidenziare anche due libri in parte qui antologizzati ed apparentemente in contraddizione tra loro: Jorge (2008) e Pasto dei poveri (2012). Il primo ha per protagonista il gatto dell’autore e dunque sembra introdurci in uno scenario del tutto privato, il secondo è chiaramente legato alle conseguenze della crisi greca, quindi lo scenario sarebbe connotato in senso socio-politico. Ma se indubbiamente in questo arco temporale trascorso tra i due libri (2008-2012) la vita del popolo greco e quella di Sotirios sono fortemente cambiate, arrivando al limite della sopravvivenza, lo iato tra queste due raccolte di poesia si rivela molto meno forte, se dal titolo passiamo alla lettura di qualche poesia.
Prendiamo questa da Jorge (p. 87):
Ora che annovero
parenti e amici
fra i defunti,
il mio gatto
non fa altro che raschiare la terra.
Ora che ogni fiore
si dischiude nel lutto
e i miei vasi da fiori portano
il nome
di coloro che sono morti,
il mio gatto
gironzolando da uno all’altro,
con le zampe anteriori
scava, con quelle posteriori scalcia,
mi ha riempito il balcone di terra,
di piccole ossa, di teschi,
prove d’amore di uomini
che lui non ha amato
poiché non li ha mai conosciuti,
ma oggi ha faticato
e ha portato fra i
denti, dalla veranda,
e ha deposto
ai piedi della mia scrivania
Thanàssis – domani, chissà
chi altri riesumerà.
In due strofe asimmetriche, significativamente aperte entrambe dall’avverbio Ora, ci viene proposta una personalissima reinterpretazione del ritorno dei morti che è uno dei temi portanti della poesia universale (nonché dei miti e delle religioni di ogni tempo). Dunque il gatto è un animale reale, con tipici comportamenti felini, ma è allo stesso tempo un pretesto per parlare d’altro, di amicizia e di morte, di amore e di relazioni interpersonali, con leggerezza ma senza mai scivolare nel banale, nelle sdolcinate esaltazioni del proprio animale domestico (che adesso traboccano perfino dai profili facebook). Il gatto, forse per la sua capacità di vedere nelle tenebre e per l’attribuzione proverbiale di 7 o 9 vite, è da sempre ritenuto un tramite tra il mondo reale e gli inferi: anche qui esso diventa il mediatore tra i vivi (il poeta) ed i morti (Thanàssis e gli altri parenti e amici) questi ultimi apparentemente più sotto forma di resti mortali che di anime.
Tale interpretazione trova conforto nella poesia successiva (“Quella notte/ quando i morti/ decisero all’improvviso di fare i morti/ …/il mio gatto decise/ per una volta anche lui/ di fare solo il gatto”). Mi domando se qualcosa non abbia contato, in questo Jorge, la frequentazione di Umberto Saba, che ad una gatta, ma poi soprattutto al canarino, ha dedicato delle indimenticabili poesie. E azzardo che il tema dei morti è assiduamente presente nella poesia di Sereni, altro autore, come abbiamo visto, ben noto a Pastakas (che ribadisce la sua stima per questo autore anche nell’intervista rilasciata a Casa della poesia il 27 giugno 2016).
Vorrei aggiungere una considerazione del tutto personale: domestico ma non troppo, anche il nostro Sotirios è un gatto, e per entrambi ci sono le fusa, ma anche lo sbuffare, il pelo arruffato, l’unghiata rapida e precisa, il doloroso bisogno d’amore.
Da Pasto dei poveri, estraggo invece (p. 113):
Zuppetta di lenticchie rosse
c’è per pasto quotidiano.
Patate di Nevrokòpi 0,50.
Mandarini dolci 0,80.
Olive senza sale aromatizzate
3,50 euro al chilo. Con 2 euro
compriamo circa un chilo e mezzo di porri
da fare con il riso oppure a zuppa.
Carne di pollo freschissima
a 2,70 / 2,80 il chilo.
Con 6/7 euro ne compriamo due
e ci assicuriamo la carne
per due settimane. Niente
di più ci si può assicurare
ai giorni nostri:
né stipendio, né pensione.
Al massimo una latta d’olio.
Sento già qualcuno esclamare “ma questa è la lista della spesa, altro che poesia!”; l’obiezione, apparentemente condivisibile, viene confutata da due elementi: il primo è il contesto, infatti questa lista inserita tra tante altre poesie finisce per diventare una specie di ready-made duchampiano, il quotidiano diventa straniante rispetto al lirico (la Melandri, nel testo citato, non a caso definisce il nostro “antilirico”); il secondo è che la poesia non parla solo alla ragione (come fa la nostra lista della spesa) ma anche alla parte emotiva di ognuno di noi, al “cuore”, e basta una lieve sfumatura, quel “Niente/ di più ci si può assicurare/ai giorni nostri” per trasmetterci e farci condividere il senso di precarietà, lo sconforto esistenziale in cui è precipitato il popolo greco.
L’aspetto che immediatamente ci colpisce è, ancora una volta, l’estremo realismo, la poesia fatta con ingredienti assolutamente quotidiani: la crisi, la politica, scaturiscono dalle difficoltà di ogni giorno, non da elementi ideologici o da analisi di economia politica. Una distanza infinita dalla poesia accademica che Sotirios aborrisce (vedi l’intervista in “Versante ripido”), una prova dell’evoluzione nella continuità che lega la poesia precedente a questa ultima: solo un tocco leggero nell’una e nell’altra ci trasporta in una dimensione altra (metafisica la prima, socio-politica la seconda). D’altronde sempre nella predetta intervista Pastakas afferma: “La poesia-manifesto non è il genere di poesia che più amo. Perché anche la politica è diventata molto più complessa di prima, e i suoi tentacoli arrivano ovunque, così credo che abbiamo il dovere di risponderle con mezzi molto più subdoli: non con una poesia che chiede uno scontro frontale, ma ingannandola con i movimenti avvolgenti delle molte poesie e dei molti compagni d’amore”. In questo modo il cerchio sembra chiudersi in maniera davvero virtuosa: la poesia, l’amicizia e l’amore sono, per Sotirios, le forme più attuali di lotta politica, e non si tratta di una semplice dichiarazione, ma di una pratica riscontrabile, come abbiamo visto, nella totalità dei suoi versi.
Sottoponiamo un’altra importante affermazione del poeta greco alla verifica dei testi. Egli afferma, sempre nell’intervista del 2013 a Damaggio: “(…) nelle mie poesie c’è la registrazione di ciò che vedono i miei occhi. Una poetica dello sguardo.”
Se non sono sufficienti ad appurare la veridicità di questa affermazione i contenuti delle poesie fin qui analizzate (i bambini che giocano, il colore rosso, la descrizione dell’agire del gatto, ecc.), proviamo ad aggiungere altri elementi: i colori così frequentemente nominati (bianco, con le sue variazioni, nero, verde, giallo, rosa, azzurro, celeste, blu e castano – mancano, e anche questo potrebbe costituire un elemento da analizzare, viola, arancione e grigio). A questo si può associare la forte presenza del verbo vedere con le sue flessioni, di guardare, di sguardo, di occhi (quasi sempre al plurale), di luce. Mi fermo qui per non annoiare il lettore, ma segnalo che molti altri elementi (a partire da alba/albeggia) appartengono al campo della visione e che frequenti sono i complessi descrittivi che, benché non usino i vocaboli finora elencati (come accade ad esempio nella sopra riportata poesia del gatto), appartengono di diritto alla dichiarata poetica dello sguardo.
Molti altri argomenti andrebbero trattati per rendere giustizia alla poesia del nostro autore, a partire dal rilievo della figura paterna (Lascito paterno, p.33, ad es.), ad una filosofia della vita “greca” (Grecia in motorino, p. 63, è la più esplicita in tal senso), all’incontro con Jack Hirschman (di cui si parla nella citata intervista in “Almanacco dei poeti” e in quella rilasciata a Casa della poesia), ecc., ma sarebbe eccessivo dilungarsi troppo in questa sede. Mi limiterò quindi ad un ultimo argomento che ritengo parimenti importante.
Nella poesia Sarajevo, che conclude questa antologia ricordando l’esperienza degli “Incontri Internazionali di Poesia” tenuti nella capitale bosniaca in ricordo del grande poeta Izet Sarajlic, troviamo i versi seguenti:
perché la traduzione
è la borsa dei canguri
e quel che scriviamo
deve reggersi su due piedi
in tutte le lingue del mondo,
Ora questa bella ed inedita immagine ci dà l’occasione di parlare di un altro aspetto di Sotirios, quello del traduttore di poeti italiani. Nell’intervista a Francesco Napoli già citata, Pastakas afferma: “Le mie traduzioni dall’italiano, poi, da Sereni, Saba, Penna e altri, venivano apprezzate.” Credo che i nomi elencati non siano frutto di una scelta casuale, ma riflettano il gusto dell’autore per una poesia più legata alla quotidianità, più apparentemente semplice. Se aggiungiamo che le sue poesie sono state tradotte in turco, rumeno, ungherese, serbocroato, tedesco, francese, inglese (Inghilterra e USA), spagnolo e italiano, ci rendiamo conto di quanto il lavoro di traduzione contribuisca a fare incontrare le persone appartenenti a popoli e culture diverse. E commenterei con le parole di Sarajlic: “Anche i versi sono contenti quando la gente si incontra”.
Vorrei concludere con l’affermazione dello stesso Sotirios Pastakas (da L’identità greca pubblicato su Facebook – www.intellectum.org/es/2015/06/23/049-l-identita-greca/) che condivido pienamente – ben sapendo che si potrebbe aprire un intero capitolo sul pubblico della poesia, ma, conscio anche di recenti polemiche, me ne guardo bene:
“Leggiamo sempre per un ascoltatore sconosciuto. Uno che non è venuto alla lettura delle nostre poesie per obbligo o per reverenza, ma per il puro piacere e la passione della poesia. Se a fine serata uno sconosciuto viene timidamente a stringerti le mani, la serata non è andata a vuoto.”
Giancarlo Cavallo
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