Qualcuno vuole interrompere la trasmissione dei saperi e uccidere i morti: noi possiamo salvarli dalle mire dei reazionari e dei cosiddetti riformisti
Cessate d’uccidere i morti…
(Giuseppe Ungaretti, “Non gridate più”)
Vi sono due modi di disfarsi del passato, così incatenando il presente: esaltarlo acriticamente tanto da renderlo l’unico luogo in cui sia accaduto qualcosa di vero e originale, come in ogni poetica classicistica e in qualsiasi apologia della tradizione; oppure continuamente annientarlo sotto i colpi duri di un presente assoluto, che si vorrebbe leggero e che è invece zavorra di coltan alla presunta immaterialità dei bit. Della prima modalità partecipano i reazionari d’ogni fede; della seconda i cosiddetti riformisti/nuovisti, fino alla versione ultima col nome di rottamatori, sprezzanti e triviali. Se a volte nei primi c’è dignità e dolore del tempo perduto (nostalgia), tranne quando l’esaltazione del passato non si traduce in pratiche politiche maschiliste e violente (quel passato che non passa e che serve alle destre radicali o rosso-brune d’ogni latitudine a minare l’esistenza dei popoli coinvolgendoli in spirali di sangue), nei secondi c’è solo difesa di piccoli o enormi interessi di ditta/azienda/partito o catastrofe del mentale. Triste evidenza di quest’ultima modalità sono le parole pronunciate durante una trasmissione televisiva1 da Giuseppe Vacca, un tempo intellettuale di punta del Partito Comunista Italiano e ora entusiasticamente approdato alla corte di Renzi. Già la domanda iniziale della giornalista Lilli Gruber dava il senso che avrebbe preso la discussione: “Qual è la vera sinistra, quella che fa le riforme o quella che le combatte?”. Riforma: una delle infinite parole che risucchiano il pensiero e le energie verso lo scoramento e l’impotenza, perché parole indiscutibili. Chi, se non dei nichilisti, potrebbe opporsi a delle riforme? Uno dei primi riformisti, nell’accezione modernissima del termine, fu Eltsin, primo leader postsovietico, che sostenne il suo progetto facendo bombardare il Parlamento (con decine o forse centinaia di morti) il 4 ottobre del 1993; e riducendo la speranza di vita dei russi a nemmeno 58 anni2 a forza di attacchi formidabili allo stato sociale –già a pezzi negli anni Ottanta-, di privatizzazioni e di svendita del Paese a oligarchi senza scrupoli e a membri del suo stesso clan, tra le risate di Clinton (davanti al ballo di un Eltsin in evidente stato di ebbrezza) e dei circoli occidentali, risate che umiliavano tutto un popolo. Questo buco nero degli anni Novanta può far capire l’attuale popolarità di Putin: utile l’agile libro di Sergio Romano3, che non giustifica niente –i crimini della Russia putiniana sono sotto gli occhi di tutti- ma che permette di capire.
GRAMSCI NON RISPONDE
Dopo le meravigliose prestazioni di Eltsin, le riforme hanno imboccato la strada trionfale anche in Occidente: qualsiasi attacco al mondo del lavoro e ai diritti è stato da allora considerato positivo (positivo perché attuabile nello smarrimento, ancora in corso, dei popoli) e ritenuto innovativo, progressivo/progressista. In Italia tutto questo è diventato folle volo dagli anni di Craxi –la pseudomodernità degli anni Ottanta, finita nella corruzione più bieca- a quelli di Berlusconi, Prodi e Renzi. Dinanzi a questi progressisti chi levava la sua voce era subito zittito ed etichettato come conservatore/nostalgico, quando non come complice di efferatezze. A questo coro di insulti hanno da subito partecipato coorti di ex comunisti che, saltati sul carro del vincitore (a Bologna come a Mosca con dinamiche identiche), hanno cominciato a rileggere il passato con sprezzo della logica e disprezzo per chiunque si fosse permesso ragionamenti differenti. Con ellissi temporale e a guai ormai in gran parte irrimediabili, è sigillo di questa vicenda l’esibizione rude del professor Vacca durante la trasmissione sopra citata. Già in un’intervista all’ “Unità” (quotidiano fondato da Gramsci…) del 25 maggio 2016, pubblicata con il titolo “Vacca: Gramsci non so, ma l’Ulivo e il PD sono sempre stati per le riforme”4, egli così si espresse: “L’ultima volta, in un’intervista radiofonica, mi hanno chiesto cosa avrebbe votato Gramsci sulle unioni civili”. E cosa ha risposto?, chiede il giornalista. “È molto che non lo sento. Ma ho il suo numero di telefono e sono autorizzato a darlo, così potete chiederlo direttamente a lui”. Nella trasmissione del 14 marzo 2017 quello che è ancora il presidente dell’Istituto “Gramsci” è andato persino oltre rispondendo, a una domanda sull’utilità di Gramsci nel presente, in modo ancora più banale e offensivo per una tradizione di pensiero e per tutto un mondo: “Gramsci sta lì al Cimitero degli Inglesi, io ho il cellulare, possiamo chiamarlo e vedere cosa dice…”. La variazione consiste nell’aggiornamento (dal telefono al cellulare) ma soprattutto nella citazione di un luogo, il Cimitero degli Inglesi (o Cimitero acattolico), uno degli angoli più straordinari di quella straordinaria città che è Roma, nonostante l’avvilimento in cui è stata trascinata: quel Cimitero è un luogo di pace e di trasmissione del pensiero e delle storie, è un luogo in cui le carni si sono fatte lapidi, all’ombra d’alberi secolari e tra silenziosi arbusti. Raccoglimento e forza del passato. Far trillare in questa pace un cellulare: che trivialità, che sconcezza! È di Pasolini l’espressione “forza del passato” da Poesia in forma di rosa (1964): “Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese,/ dalle pale d’altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli. / Giro per la Tuscolana come un pazzo, / per l’Appia come un cane senza padrone. / O guardo i crepuscoli, le mattine / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, / dall’orlo estremo di qualche età / sepolta. Mostruoso è chi è nato / dalle viscere di una donna morta. / E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più”. Il testo viene splendidamente letto, ironicamente e quasi parodisticamente, da Orson Welles in La ricotta, uno dei capolavori cinematografici di Pasolini. Ogni appartenente alla razza marrana è un “feto adulto”…
LE CENERI DI JOYCE SALVADORI ED EMILIO LUSSU…
Il reazionario Pasolini, -ma “più moderno di ogni moderno”-, il cattolico e il comunista Pasolini parla senza paura della tradizione ma la mette al servizio, se non della lotta, almeno della possibilità di affrontare lo squallido e pericoloso presente da parte di un popolo che nei primi anni Sessanta cominciava a vivere, senza esserne protagonista, un’ennesima e decisiva mutazione antropologica. Solo grazie a questa forza antica il poeta è capace di affacciarsi sul dopostoria, che non è una banale fine della storia, ma un’altra fase di questa, a cicli sempre più veloci e che egli non riuscirà a vedere per intero, ucciso in modo brutale nel 1975, soglia e confine tra le illusioni del secondo dopoguerra e il risveglio brusco in cui ancora siamo. Casualmente capitato nel Cimitero degli inglesi, Pasolini visitò la tomba di Gramsci, che a lui parlò e ancora oggi parla (parlano, tra di loro e a noi). Ancora splendido il poemetto “Le ceneri di Gramsci” nella raccolta omonima (1957). Quali altri numeri di cellulare ha il professor Vacca? Non lontano da Gramsci, nello stesso cimitero sono sepolti Joyce Salvadori ed Emilio Lussu, Amelia Rosselli, Bruno Pontecorvo, Alfonso M. Di Nola, Luce D’Eramo, Dario Bellezza, e tante e tanti altri (più di quattromila, tra la parte antica –il primo lì sepolto è George Langton, nel 1738- e quella più recente, in parte morti/e nostri/e). Anche i loro cellulari forse squilleranno, e anche loro probabilmente non risponderanno, a chi non vuol sentire. Ecco lo scopo, netto e tagliente, di Vacca, e dei troppi come lui: far tacere chi ha parlato in modo altro e diverso, impedire che la loro voce arrivi fino a noi, la voce di Gramsci, quella di Joyce Lussu e delle sue lotte contro la guerra e contro il patriarcato, la voce di Amelia Rosselli e del suo incrinato, plurilinguistico e musicalissimo poetare. In “Variazioni” quest’ultima seppe condensare in pochi versi la sua vita, la vita della sua famiglia e di tutto un secolo, di quel grande Novecento (come lo ha chiamato Mario Tronti) di cui trovare oggi tracce vive non farebbe che bene: “…Nata a Parigi travagliata nell’epopea della nostra generazione / fallace. Giaciuta in America fra i ricchi campi dei possidenti / e dello Stato statale. Vissuta in Italia, paese barbaro. / Scappata dall’Inghilterra paese di sofisticati. Speranzosa / nell’Ovest ove niente per ora cresce…”5. Come credere nell’Occidente, noi speranzosi allora come ora, un luogo in cui riesce a creare fratture di temporalità il pur spaventoso attentato alle “torri gemelle” (c’è un prima e un dopo l’11 settembre 2011, sostengono in molti) e non l’embargo e le due guerre del Golfo, guerre basate sulla menzogna impunita6, con centinaia di migliaia di morti e un’intera area messa a ferro e a fuoco; un luogo in cui fanno giustamente scandalo (scandalo che muore il giorno dopo) le armi chimiche probabilmente usate da Assad in Siria ma non quelle all’uranio impoverito disseminate in tutte le aree di conflitto in cui si sono esibiti eserciti delle varie coalizioni a guida USA, e recentemente usate da questi ultimi sempre in Siria; un luogo in cui, forti della propria capacità di attrazione, tutto il resto del pianeta è considerato come miniera inesauribile di materie prime e di manodopera a basso costo, persino nell’epoca dei robot.
MONDI EX
Si può essere ex, e perfino venire da un mondo ex, come molte e molti della ex Jugoslavia, e non trasudare veleno per il pianeta da cui si giunge, che è poi veleno versato nella costruzione del futuro. Penso ai tanti scomparsi nei primi mesi del 2017, Todorov, Bauman, Kounellis e soprattutto, per il nostro discorso, Predrag Matvejević, proveniente dalla Jugoslavia e recatosi in Europa occidentale, prima in Francia e poi a lungo in Italia. Tornato a Zagabria dopo la fine delle guerre jugoslave, lì ha trovato le furie rabbiose del nazionalismo pronte ad attaccarlo, a minacciarlo, e persino a portarlo davanti ai tribunali per un suo articolo, quello famoso su “I nostri talebani” o meglio sui “talebani cattolici”7. Vittima, Matvejević, del primo modo di disfarsi del passato, segnalato in inizio articolo, quello reazionario, quello che fonda il crimine nuovo su eventi lontanissimi nel tempo e che ha preteso di farsi base invulnerabile per la costruzione delle nazioni uscite dal crollo del mondo jugoslavo. Ma cosa è stato costruito? Monconi di Stati senza reale indipendenza, con città distrutte (tranne in Slovenia, dove la guerra, per fortuna, è durata lo spazio di poche settimane) e un apparato produttivo ridotto a niente: un enorme buco nero, in cui dettano legge le mafie politico-religiose, i ducetti di ogni comunità appoggiati da pope, preti e imam. Crescono chiese e moschee, ma non scuole e ospedali, cresce il fanatismo, ma non la libera ricerca. Le democrature (conio linguistico di Matvejević) fanno bella mostra di sé nei Balcani occidentali fino all’assurdo di Paesi paratotalitari che ancora aspirano all’indipendenza (la Repubblica Srpska di Bosnia ed Erzegovina) o altri che stentano a trovare la via a un futuro meno spaventoso (il Kosovo/Kosova, il Montenegro che tenta la carta dell’adesione alla NATO, e le intere Bosnia ed Erzegovina, Serbia e Croazia). Qui il passato è stato spazzato via iperbolicamente, per ingrandimento ed espansione: su tutto domina il ricordo di antiche gesta a coprire le prepotenze attuali. Per combattere questo uso reazionario del passato, la via più efficace non è quella che recide ciò che è stato e crea false discontinuità, anche queste brutali. Questa è la via imboccata dal liberalismo/liberismo che ha bisogno di far piazza pulita di ciò che è stato per interrompere il flusso delle informazioni e delle indignazioni/rivoluzioni. È la via che hanno scelto i riformisti d’occidente, riformisti senza riforme, appoggiati da intellettuali sbrigativi come Giuseppe Vacca. Un’altra via c’è, ed è quella tracciata –e più e più volte citata, certo, usata ma non usurata- da Walter Benjamin nelle sue “Tesi di filosofia della storia”: “…In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”. I reazionari e i falsi riformatori continuano a far vincere questo nemico: a noi dimostrare che può essere sconfitto, cominciando con il salvare i morti.
Gianluca Paciucci
* Le foto sono di Gianluca Paciucci
1 http://www.la7.it/otto-e-mezzo/rivedila7/quanto-vale-bandiera-rossa-14-03-2017-207303
2 “…la speranza media di vita maschile passò da 63.8 anni nel 1990 a 57.6 anni nel 1994… in ” http://www.nuvole.it/wp/12-dare-i-numeri-la-speranza-di-vita-nella-russia-post-sovietica-marina-dagati/ Diverso il caso delle donne: “…L’aspettativa di vita femminile, invece, tende a essere più stabile, passando da 74.4 anni nel 1990 a 71.2 nel 1994 (…). Ha raggiunto il picco di 72.96 anni nel 1997 e successivamente fluttuato verso livelli più bassi, raggiungendo 72.4 anni nel 2000 e 72.1 anni nel 2001…”. L’alcool è tra le ragioni di questa differenza, tra miserie sovietiche e ingiustizie postcomuniste.
3 Sergio Romano, Putin e la ricostruzione della grande Russia, Milano, Longanesi, 2016, pp. 156. Di ben altro spessore, ed esempio rigoroso di storia sociale, sono gli studi di Rita di Leo, tra cui lo straordinario L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Roma, Ediesse, 2012, pp.178, fondamentale per comprendere il passaggio dall’Unione Sovietica alla Russia.
5 cito dalle pagg. 14 e 15 del bel volume Laura Barile legge Amelia Rosselli, Roma, Nottetempo, 2014, pp. 181. Ad Amelia Rosselli nel 2012 è stato dedicato un Meridiano Mondadori a cura di Stefano Giovannuzzi, L’opera poetica, pp. 1609.
6 “…Trump in Medio Oriente sa che non si può fidare neppure dell’establishment repubblicano che costruì con le armi di distruzione di massa di Saddam la più colossale operazione di disinformazione dell’epoca contemporanea. A questo proposito c’è un dettaglio interessante: le foto satellitari delle armi di distruzione di massa –la famosa ‘pistola fumante’ mostrata dal segretario di Stato Colin Powell all’ONU- furono fornite dall’allora capo della National Geospatial Intelligence Agency, James Clapper, lo stesso che come direttore della Nsa ha portato le prove dell’interferenza degli hacker russi nelle presidenziali americane…” (in Alberto Negri, “L’America nella trappola del Medio oriente”, Il Sole 24 ore, 22 gennaio 2017). Su menzogne dello stesso tipo si è basato anche l’intervento in Libia, come afferma una relazione della Commissione esteri del Parlamento britannico resa nota nel settembre 2016.
7 lo si può leggere in Confini e frontiere. Fantasmi che non abbiamo saputo seppellire, Trieste, Asterios, 2008, pp. 142.
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