Secondo la Teoria del Mondo Piccolo tra due qualsiasi oggetti, punti o persone vi sono non più di sei gradi di separazione. Così ipotizzava nel 1929 lo scrittore ungherese Frigyes Karinthy nel racconto uscito anonimo Catene. Sette poesie, sei gradi e un solo racconto tessuto a quattordici mani: questa la nostra rubrica in Potlatch.
La seconda puntata si compone di due parti: due narrazioni partono dallo stesso punto per sfociare, dopo un lungo percorso, in lande distanti ma a tratti confinanti.
1.
Icarus Shot Down
Le persone che sfondano le porte del tuo mondo
Le persone che perdono tempo con numeri e segni
La metà annuncia una tempesta
il resto elemosina il prosciutto davanti agli occhi
Alla tua porta e ai tuoi piedi
si raccolgono per lasciarti colla e stelle
assieme per renderti mezzo completo
e pagarti per sborrare in vecchi vasetti di marmellata
Graham Lambkin (2015), in Came to Call Mine, Penultimate Press (trad. RG).
Ho vacillato per alcuni giorni nella scelta di questa poesia. Non facevo altro che andare avanti e indietro tra Came to Call Mine (il libro da cui sono tratti questi versi) e una manciata di trascrizioni di poesia espressionista delle cui traduzioni mi fido. Non ce n’è di molto buone in giro di traduzioni dal tedesco di poesia espressionista. Ho indugiato di più su Caffè di notte di Gottfried Benn, e parevo essermi convinto. Ma poi ho ritrovato a qualche passo da me un sentimento di doppiezza e di rancore, che ciclicamente si conferma come fondativo nella mia vita. Più di quanto non voglia ammettere. È proprio questa vertigine, questa separazione tra l’individuo spezzato e il suo contesto, questo forte centro gravitazionale in cui è tanto difficile determinare se si è giudicati da tutti o si sta giudicando tutto o entrambe le cose, se si è indifferenti o meno, che mi ha guidato nella scelta. Sia chiaro, questa è solo la mia personale interpretazione di questi versi decisamente oscuri.
La poesia di Lambkin è al contempo cupa e celebrativa. È il ritratto stesso della sua personalità indescrivibile. La sua attività inizia a Cheriton, Kent, Inghilterra, all’inizio degli anni ’90 con una band di amatori, The Shadow Ring. Senza rendersene conto, i tre ragazzi disillusi stavano mettendo in piedi una miscela di folk, cracked electronics e spoken word fatto di arguzie verbali surrealiste che sarebbe diventata seminale di lì a poco. Nel lavoro di Graham, soprattutto nella sua produzione sonora, la voce e il testo hanno un ruolo centrale quanto scomodo. Si siedono ai margini dello spazio. Si tratta di parole di difficile comprensione, come fuori campo, cascate per sbaglio in un vecchio filmino di famiglia. Voci che si mischiano come scarabocchi di infante, con gli scricchiolii di una casa messa male, con i rumori radi e noiosi di una strada di periferia. Si mischiano con la narrazione di eventi poveri, cose qualsiasi, prese da youtube. Si agglomerano per diventare masse molli di suono. Un suono chiuso ad anello, che ritorna. Le prima volte che ascoltavo un suo disco o lo leggevo mi pareva che il reale si sciogliesse appena un po’. Io ho sempre ritenuto che le sue parole, un po’ mitologiche e un po’ no, si comportassero come amplificatori rispetto ad una mia condizione personale, che mi sembra di portare nel taschino da sempre per quanto mi inorridisca.
La sensazione di essere cascato anche io per sbaglio in un filmino di famiglia che è la mia vita. RG
2.
Non ho seme da spargere per il mondo
non posso inondare i pisciatoi né
i materassi. Il mio avaro seme di donna
è troppo poco per offendere. Cosa posso
lasciare nelle strade nelle case
nei centri infecondati? Le parole
quelle moltissime
ma già non mi assomigliano più
hanno dimenticato la furia
e la maledizione, sono diventate signorine
un po’ malfamate forse
ma sempre signorine.
Patrizia Cavalli (1974), in Le mie poesie non cambieranno il mondo, Einaudi.
Io Graham Lambkin non lo conosco. Eppure, ho associato le sue parole a quelle di Patrizia Cavalli immediatamente, come se stessi seguendo una conversazione. La facilità è nata dal fatto che i due sembrano utilizzare quasi la stessa lingua – una lingua quotidiana, a tratti volgare, che però segue composizioni precise, attente, controllate (Lambkin è anche compositore, Cavalli segue la metrica classica).
Lambkin e Cavalli sembrano concordare sul valore assegnato ai “segni”, alle “parole”: inutili per lui, “signorine” senza furia per lei.
Ma tra i due, Lambkin è chiaramente stanco di questa ricerca spasmodica e finta di idoli, di questo mondo volutamente cieco o catastrofico, in generale poco incline all’interiorità, sempre celebrativo e autocelebrativo, che osanna qualsiasi atto artistico, anche quello più narcisista.
Cavalli, invece, risponde da un altro momento storico, scevro da questi nuovi modi di condividere e comunicare arte – anche se nessun momento storico, a ben vedere, può davvero esimersi da masturbazioni pagate oro.
La differenza di genere implica due diverse concezioni dell’arte e della sua “creazione”. La poesia di Cavalli è infatti contenuta, privata. È anche un’autrice poco prolifica, pubblica raccolte di poesie una volta ogni dieci anni circa. Potrebbe mai, con il suo seme avaro di donna, inondare i materassi e i pisciatoi, riempire vecchi vasetti di marmellata? CdA
3.
Vieni, entra e coglimi, saggiami provami…
comprimimi discioglimi tormentami…
infiammami programmami rinnovami.
Accelera… rallenta… disorientami.
Cuocimi bollimi addentami… covami.
Poi fondimi e confondimi… spaventami…
nuocimi, perdimi e trovami, giovami.
Scovami… ardimi bruciami arroventami.
Stringimi e allentami, calami e aumentami.
Domani, sgominami poi sgomentami…
dissociami divorami… comprovami.
Legami annegami e infine annientami.
Addormentami e ancora entra… riprovami.
Incoronami. Eternami. Inargentami.
Patrizia Valduga (1989), in Medicamenta e altri Medicamenta, Einaudi.
Quando ho ricevuto una lirica di Patrizia Cavalli sulla passione, una passione che alla fine non riesce a dispiegarsi pienamente e si raffredda in ironiche immagini sull’impossibilità della parola di farsi seme che feconda, mi è venuto naturale evocare un’altra Patrizia, che della passione amorosa ha fatto il suo stendardo. Sto parlando chiaramente di Patrizia Valduga, che considero l’autore che meglio di ogni altro è riuscito nella poesia italiana contemporanea a cantare il mistero dell’amore e del sesso in ogni sua possibile variazione. Con un registro capace di spaziare da Iacopone da Todi al marchese de Sade, da Racine a Shakespeare, da Donne a Rilke, da Dante al Don Giovanni di Lorenzo Da Ponte – quest’ultimo evocato nello splendido ultimo poemetto in omaggio all’amato Giovanni Raboni, Belluno – Patrizia Valduga incarna, a mio modo di vedere, la voce che si è spinta con maggiore coraggio, e con un’acribia esperienziale e terminologica quasi sadiana o, più semplicemente illuminista, a delineare l’eros in tutte le sue poliedriche, ovidiane metamorfosi. Un amore che è promessa di luce e notte oscura, come in San Giovanni dalla Croce, è desiderio costantemente perseguito e incarnato fino alla stessa dissoluzione del corpo che lo vive. Una ricerca che, tra varie perle, ha portato Patrizia Valduga a donarci una quartina sull’orgasmo, che vorrei citare in conclusione di questo breve omaggio, che mi pare non abbia equivalenti nella nostra poesia. Con un magistrale gioco di allitterazioni e assonanze, questa quartina rende carne e sangue il sogno di ogni mistico che abbia compreso che non esiste altro Dio all’infuori dell’amore inteso nella sua manifestazione più terrena, come ci aveva già insegnato l’autore del Cantico dei Cantici:
Da nervi vene valvole ventricoli
da tendini da nervi e cartilagini
papille nervi costole clavicole…
In spasmi da ogni poro mi esce l’anima.
GS
4.
Ficco dita nelle narici dure
del toro decapitato
cerco intimità e pensiero
in quel vigore mancato
quando potrei avere colme
le mani di mammelle.
Ivano Ferrari (2004), in Macello, Einaudi.
Della Valduga mi piace la limpidezza. Dopo averla (ri)letta, ho indugiato sulla Cavalli, pochi minuti – credo, opzionando per Ferrari. Ho pensato a “Macello”, l’ho letto e riletto, cercando “intimità e pensiero”. In “Macello”, l’eros – inseguito e inestinguibile della Valduga – diventa insidioso, si infila nelle pieghe, si mischia a morte umori e scarti. Il vortice creato dai verbi che si susseguono della Valduga, si trasformano nel gorgo di interiora e interiorità di Ferrari. Nella Valduga per me l’altro è sempre presente, nitido, visualizzato; in Ferrari l’altro non esiste. L’eros si traduce nel riflesso, nel muoversi tra la materia di scarto, nei liquami, nell’atrocità, nella solitudine, nel lavoro alienante, nella violenza – quasi come una fuga, o forse un ritrovarsi: putrido. Il desiderio rincorso della Valduga, qui risulta noto e immediatamente appagabile. E si mischia a mucose sangue feci carne marciume grasso carta interiora vermi sperma genitali midollo zampe pelle peli occhi e fori di proiettili. Il macello diventa un inferno dei sensi da osservare e razionalizzare. La poesia si sporca di tutto ciò che è periferico per necessità, e quindi vitale. “Macello” ci mostra un mondo pieno di carne viva, che viene spinta, poi uccisa, trascinata, scuoiata, scartata e macellata. Ci mostra quel che resta. In entrambi non c’è censura, non c’è incertezza, ma qui l’incoronamento si trasforma in una cruda esplorazione dell’abisso.
(Ivano Ferrari nasce a Mantova nel 1948. A 24 anni inizia a lavorare al macello comunale: è il 1972. Tra il 1972 e il 1978 scrive le poesie contenute in “Macello”, edito da Einaudi nel 2004). CA
5.
Piccolo Astero
Venne issato sul tavolo un autista di birreria morto annegato.
Qualcuno gli aveva messo a forza tra i denti
un astero gridellino chiaro-ambrato.
Quando partendo dal petto
di sotto la pelle
con un lungo coltello
rasecai lingua e palato,
devo averlo urtato, perché scivolò
sul cervello lì accanto.
Glielo sistemai nel cavo del torace
tra i trucioli di legno
quando si ricucì.
Bevi a sazietà nel tuo vaso!
Riposa dolcemente
piccolo astero!
Gottfried Benn, Piccolo Astero (1912), in Morgue, Einaudi 1971.
Come nella poesia di Ferrari, la terribile materialità del corpo senza vita occupa il centro anche di Piccolo astero, il primo dei sei componimenti che videro la luce in un’unica ora notturna e che confluirono nel ciclo Morgue, con cui Gottfried Benn (1886-1956) esordì nel 1912.
Scienziato ancor prima che poeta, per diventare medico dovette sfidare la contrarietà del padre, un pastore protestante dal carattere cupo e pessimista: invece di proseguire gli studi di teologia Benn figlio decise di dedicarsi alla medicina, e in particolare tra il 1911 e il 1914 alla medicina patologica. Le quasi 300 autopsie eseguite in quegli anni significarono la perdita del fondamento, la rovina del mondo interiore, la disfatta della metafisica: il «flagello della conoscenza» si abbatté su di lui, e le cose iniziarono a vacillare, come riferì l’anno successivo nella breve prosa Heinrich Mann. Ein Untergang [Heinrich Mann. Un tramonto]. È inevitabile che il corpo venga così ricondotto alla dimensione elementare e biologica: al di là dei suoi confini non è rimasto che il nulla.
La prima prova poetica di Benn scaturisce dunque dal nichilismo – dalla lettura (pessimistica) di Nietzsche ma soprattutto dalla pratica scientifica che lo mise in diretto contatto con le cose del mondo, spogliate di ogni ideologia. Nelle poesie espressioniste di Morgue l’estetica del brutto, lontana dalle tematiche decadenti del Simbolismo, diventa il nuovo punto di partenza della creazione artistica. La rappresentazione del corpo al di fuori della dimensione umana, ovvero la disantropomorfizzazione dell’uomo ridotto a contenitore, viene superata personificando il fiore che dà il titolo al componimento: si tratta di una risemantizzazione necessaria per affermare la libertà assoluta dell’arte, la cui forza creatrice dà vita a nuove, inedite metafore capaci di scardinare l’ordine piramidale di una cultura opprimente ed epigona. MR
6.
Morgue
Sono là pronti, quasi si trattasse
d’inventare a cose fatte un’azione
capace di connetterli e accordarli
gli uni agli altri e a questa fredda sala;
perché alla scena manca un tratto che concluda.
Quale nome avrebbe dovuto
trovare in quelle tasche? Per cancellarne i segni
del disgusto lavarono le bocche:
non sparì; ma il disgusto ora è pulito.
Le barbe irte e ancora un po’ più dure,
ma più decenti agli occhi dei guardiani,
solo per non nauseare i curiosi.
Gli occhi dietro le palpebre
si sono rovesciati e ora guardano dentro.
Rainer Maria Rilke, Margue (1907), in Rainer Maria Rilke, I Meridiani, vol. II, ed. Mondadori, 2013.
Non immagino i gradi di separazione come l’aufhebung, piuttosto come il fiume di Eraclito. Più Deleuze che Hegel, più elettronica che kraut rock, più lieviti indigeni che lieviti selezionati, come mi ha insegnato il vino.
L’obitorio è caro a Benn quanto a Rilke, entrambi vi si recano e ne fanno esperienza, per poi sperimentarlo in poesia. Il primo vi dedica un libricino (1912), il secondo un componimento (1906). Questa vicinanza tematica è già un grado di separazione, è già ripetizione e differenza.
Ho riflettuto sul grado di separazione, il motore di questa rubrica: “Non ci possiamo separare, siamo già tutti separati”, diceva Blanchot. Per cui casomai dobbiamo trovare qualcosa che leghi, piuttosto che qualcosa che separi: i gradi di separazione, possono esserci solo a partire da una comunanza, perché la separazione è già data.
Rilke e Benn sono separati, ma sono anche in un legame. Entrambi guardano dei corpi morti, anche se lo fanno diversamente. Rilke sa che la sua poesia può trasformare l’orrore in bellezza, così come la lavorazione delle bocche trasforma il disgusto in pulito. Anche Benn parla della bocca, e probabilmente il “rasecare lingua e palato” è un riferimento a Rilke, solo che accade un imprevisto, il poeta chirurgo sbaglia, e un pezzo scivola su un cervello che stava lì accanto.
L’atmosfera meditativa di Rilke lascia il posto al grottesco, possiamo finalmente farci una risata, a patto che sia amara.
Anche il fotografo Andres Serrano è andato negli obitori, realizzando la serie The morgue. Serrano è in un ennesimo grado di separazione e congiungimento, anche se sicuramente è più vicino a Rilke che a Benn. Con Serrano non si ride, le sue foto ci sospendono in un limbo tra le alterazioni che il corpo morto subisce e la sua capacità di trasformarlo in pittura, tra la riflessione sulla morte, e il suo fascino.
In quanto fotografo, Serrano ce l’avevo già nel curriculum. L’idea di Rilke invece mi è venuta qualche settimana fa, quando ho comprato la sua opera omnia in un bar a dieci euro, ancora imballata, nella bellissima edizione dei Meridiani. Benn l’ho trovato su questa rubrica, l’ho ereditato.
Mi basta questo, non mi occorre altro, Benn a gratis e Rilke a dieci euro, mentre un Suv costa almeno ventimila euro. ME
(Copyright © Andres Serrano. All rights reserved)
7.
Sono ormai perduto al mondo
Sono ormai perduto al mondo
Col quale ho anche perduto gran tempo;
Tanto a lungo non ha saputo più niente di me,
Che può pensare ormai che io sia morto!
Ma non mi importa niente
Che mi creda morto.
E non posso neanche contraddirlo,
perché sono veramente morto al mondo.
Sono morto al chiasso del mondo,
E riposo in un luogo silenzioso!
Vivo solo nel mio cielo
Nel mio amore, nel mio canto
Friedrich Rückert, Sono ormai perduto al mondo (1830s), testo tratto dal programma di sala del Concerto dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 22 Febbraio 1985. (Traduzione di Luigi Bellingardi)
Senza esitazione, si delinea il ponte tra Morgue e Ich Bin Der Welt Abhanden Gekommen, come l’azione inesorabile di una calamita, non solo per l’origine tedesca della parola usata, ma come una inevitabile crasi. La fredda sala è il cielo e l’amore e il canto; gli occhi rovesciati guardano, qui e finalmente, il silenzio; il chiasso del mondo è stato lavato. La morte e lo sguardo, il gelo e il calore, il qui ed ora e ciò che non si sa, che può solo orientare.
Questo lied è stato composto da Friedrich Rückert (1788-1866) attorno agli anni Trenta dell’Ottocento e fa parte del ciclo di cinque lieder (Rückert lieder, appunto) musicati da Gustav Mahler nei primissimi anni del Novecento. Mahler si appropria di questi versi, li trasferisce nel genere che porta in musica la poesia, esplorandone le molteplici potenzialità espressive: non affidando le parole alle azioni, e neanche al suono intimo della voce accompagnata dal pianoforte, ma ai colori di una grande orchestra.
Così mortale e immanente, così mortale e privo di peso. E sospeso, il corno inglese di Mahler rende Lied questi versi di Rückert, e il tratto che conclude e che apre, un segno di poetica e invincibile impotenza, eroica rassegnazione. Un grido, tenero ma collettivo.
Il colore di Morgue qual è? Quale tonalità attribuire a Ich Bin Der Welt Abhanden Gekommen? Dove sono segnati i confini tra il Romanticismo e la brevità del Novecento? Liberiamoci a queste e a mille altre domande, con gli occhi che anche per noi guardano dentro e lontano, nello stesso istante.
Le poesie di F. Rückert sono pubblicate anche in “Amore e solitudine in Gustav Mahler – Rückert Lieder” (Florestano Edizioni – Bari, 2007) di Adele Boghetich, con traduzione italiana a cura dell’autrice. CM
Hanno partecipato: Renato Grieco, Claudia D’Angelo, Giorgio Sica, Chiara Arturo, Marta Rosso, Maurizio Esposito, Chiara Mallozzi.
La fotografia in copertina, scelta da Maurizio Esposito, è di Andres Serrano.
Se desideri partecipare alla rubrica contattaci scrivendo all’indirizzo email: renatog.federicad@gmail.com
TESTI IN LINGUA ORIGINALE
Icarus Shot Down
People busting down the doors of your world
People messing about with numbers and signs
Half are talking up a storm
the rest are begging for bacon rind
At your door and at your feet
they gather to leave you glue and stars
together to make you half complete
and pay you to cum in old jam jars
Kleine Aster
Ein ersoffener Bierfahrer wurde auf den Tisch gestemmt.
lrgendeiner hatte ihm eine dunkelhellila Aster
zwischen die Zähne geklemmt.
Als ich von der Brust aus
unter der Haut
mit einem langen Messer
Zunge und Gaumen herausschnitt,
muß ich sie angestoßen haben, denn sie glitt
in das nebenliegende Gehirn.
Ich packte sie ihm in die Brusthöhle
zwischen die Holzwolle,
als man zunähte.
Trinke dich satt in deiner Vase!
Ruhe sanft,
kleine Aster!
Morgue
Da liegen sie bereit, als ob es gälte,
nachträglich eine Handlung zu erfinden,
die mit einander und mit dieser Kälte
sie zu versühnen weiß und zu verbinden;
denn das ist alles noch wie ohne Schluß.
Wasfür ein Name hätte in den Taschen
sich finden sollen? An dem Überdruß
um ihren Mund hat man herumgewaschen:
er ging nicht ab; er wurde nur ganz rein.
Die Bärte stehen, noch ein wenig härter,
doch ordentlicher im Geschmack der Wärter,
nur um die Gaffenden nicht anzuwidern.
Die Augen haben hinter ihren Lidern
sich umgewandt und schauen jetzt hinein.
Ich bin der welt abhanden gekommen
Ich bin der Welt abhanden gekommen
Mit der ich sonst viele Zeit verdorben,
Sie hat so lange nichts von mir vernommen,
Sie mag wohl glauben ich sei gestorben!
Es ist mir auch gar nichts daran gelegen,
Ob sie mich für gestorben hält.
Ich kann auch gar nichts sagen dagegen,
Den wirklich bin ich gestorben der Welt.
Ich bin gestorben dem Weltgetümmel
Und ruh’in einem stillen Gebiet!
Ich leb allein in meinem Himmel
In meinem Lieben in meinem Lied
Lascia un commento