Mi lega a Michel Cassir una speciale amicizia, nata dalle mie traduzioni di suoi testi per alcuni incontri internazionali di poesia (a partire da quelli di Pistoia e Napoli del 2005) e cementata dalla reciproca stima, cresciuta nelle varie occasioni in cui ci siamo incontrati, spesso proprio nella Casa della poesia di Baronissi.
Una complicità intellettuale che ha avuto, tra l’altro, esito nella traduzione a quattro mani di un mio libro di poesie edito in Francia da L’Harmattan (Cavallo G., Spiralothèque/Spiraloteca, Paris 2015) e per il quale lui ha generosamente scritto la prefazione.
Benché non sia stato ancora edito in Italia – ma un suo libro è in cantiere nella fucina infaticabile di Multimedia edizioni – è possibile leggere ed ascoltare alcune sue poesie al link https://www.casadellapoesia.org/poeti/cassir-michel/poesie ed anche leggere una sua bella poesia per Gaza in questo stesso blog (https://www.potlatch.it/poesia/poeti-e-poesie/poesie-per-gaza-poems-for-gaza-poem-pour-gaza/).
Premetto che la scrittura di Michel è densa ed ellittica, e che la sua produzione poetica è estremamente vasta – circa 24 volumi dal 1976 ad oggi – ed articolata, ragion per cui, anche in questo caso, non potrò che offrire uno spaccato molto parziale, sperando che possa agire da leva per la curiosità del lettore.
Joyce Carol Oates afferma che: “Un sano rispetto per le grandi conquiste del passato non dovrebbe portare il critico a sospettare di ciò che pare rivoluzionato e sconvolgente, contrario alla sua definizione di «arte» – al contrario, simile arte iconoclasta dovrebbe essere accolta, in quanto espande la nostra comprensione del conosciuto in modo che la classica arte «corretta» non può fare.” (J.C. Oates, Nuovo cielo, nuova terra, Il Saggiatore, Milano 2021, pag. 44). Nonostante non mi ritenga un critico “passatista” (e nemmeno un critico tout court), terrò comunque ben presente questo suggerimento che pare attagliarsi molto bene al nostro autore, cercando di lasciare alle sue parole più che alla mia interpretazione il maggior spazio possibile in questo intervento.
Hervé Bauer, nella prefazione a Hors Temazcal, ci ricorda che: “(…) Pierre Reverdy vedeva nella fusione di due realtà distanti la condizione dell’efficacia e della bellezza dell’immagine, concezione sulla quale si concentrerà Breton.” (Bauer H., Dans l’affection et le bruit neufs, in Cassir M., Hors Temazcal, Paris 2012, p. 9 – Le traduzioni dal francese, salvo diversa indicazione, sono mie). Bauer continua sostenendo che, in Cassir, proprio in questo modo nascono le immagini che “catturano la nostra capacità innata di meravigliarci” (Idem). Eccone un primo esempio:
Princesse noire par les mains qui créent le cercle
magique et rouge comme la robe des eaux apaisées.
Bleue à l’orée de la nuit et mauve dans la danse des mots
écrus. Princesse blanche comme la prunelle qui cueille la
première frayeur. Armée d’un trèfle à quatre feuilles.
Princesse de couleur changeante d’une passion à sa trêve.
Comme un crépuscule du melon à la figue brune. Au
sommeil de caravane libérée de toute boussole. Princesse
des solstices confondus avec le mouvement des jambes.
Et des quatre saisons sur les hanches. Princesse
coulant un hamac comme un navire corsaire. Et
silencieuse après l’éclat ! Princesse à la couleur de pieds
nus qui font défiler les falaises…
[Principessa nera dalle mani che creano il cerchio/ magico e rosso come la veste delle acque placate./ Blu sul limitare della notte e malva nella danza delle parole/ grezze. Principessa bianca come la pupilla che coglie il/ primo spavento. Armata di un quadrifoglio./ Principessa dal colore cangiante di una passione in tregua./ Come un crepuscolo dal melone al fico violaceo. Nel/ sonno di carovana liberata da ogni bussola. Principessa/ dei solstizi confusi con il movimento delle gambe./ E delle quattro stagioni sui fianchi. Principessa/ che affonda un’amaca come una nave pirata. E/ silenziosa dopo lo scoppio! Principessa dal colore di piedi/ nudi che fanno sfilare le scogliere … – Hors Temazcal, cit. p. 28]
L’immagine della principessa/maga viene trasmessa dal succedersi dinamico dei colori (noire – rouge – Bleue – mauve – blanche – couleur changeante), da quel trascolorare che caratterizza la prima parte della poesia, inscindibilmente fuso con elementi naturali (eaux – trèfle à quatre feuilles – melon – figue brune) che a loro volta contribuiscono ad arricchire la tavolozza; ma il movimento sembra qui indissolubilmente congiunto alla pausa (le mani creano vs le acque placate; il limitare della notte vs la danza; coglie il primo spavento vs passione in tregua; ecc. fino a silenziosa dopo lo scoppio). E ancora: crepuscolo, solstizi, quattro stagioni, ad indicare momenti di passaggio quasi dettati dal corpo della donna (gambe, fianchi) fino ai piedi nudi che fanno sfilare le scogliere. Deliziosa, quasi filmica, l’immagine di lei che affonda un’amaca come una nave pirata, attraverso un arguto passaggio dall’intransitivo (affondare in) al transitivo (affondare una). Ma questo è solo una parte di quanto è contenuto in una poesia estremamente sovradeterminata, in cui ogni frase, ogni parola ci schiude un vortice che solo l’abilità del poeta sottrae alla tensione centrifuga. Troviamo, ovviamente, erotismo ed esotismo (e qui il semplice slittamento di una consonante mi aiuta in maniera esemplare a far capire in quali territori ci stiamo avventurando!), e, continuando il gioco, esoterismo; il mare (acque, nave, scogliere) e il deserto (carovane), la danza delle parole. Il tutto scandito e legato dalla parola Princesse che ritorna ben sei volte, sempre soggetto e ad inizio di frase e, quindi, con lettera maiuscola. Vorrei anche sottolineare la presenza della bussola con valore negativo (termine che ritroveremo più avanti con questa stessa accezione negativa; mentre poco oltre troviamo “la bussola del caos.”, ultimo di verso di una poesia della sezione Frondaison, p. 31): forse perché il vero viaggio non può avere una rotta prestabilita, ma deve lasciare al caso (le hasard di mallarmeana memoria) la possibilità di incontrare l’altro da sé, lo sconosciuto, l’indicibile.
Il viaggio è uno dei temi fondamentali della poesia di Cassir, basta sfogliare alcuni dei suoi libri per incontrare una notevole quantità di toponimi ed altri inequivocabili segnali che ce lo confermano. Ma questo viaggio non è solo uno spostamento fisico da un paese o da un continente all’altro, è anche, forse soprattutto, una ricerca intellettuale e spirituale (messa in moto dal cortocircuito tra luogo e logos); proviamo a verificarlo attraverso alcune riflessioni dello stesso Cassir, che ritengo emblematiche della vita e del lavoro artistico del poeta franco-libanese, poste al termine del citato Hors Temazcal. Leggiamo quindi “Un po’ di storia”:
“Mi sono reso conto a poco a poco che il mio destino di viaggiatore, attraverso la Francia ed i paesi dove ho vissuto a lungo (Egitto, Libano e Messico) e i miei soggiorni di ricercatore scientifico o poeta ai quattro angoli del mondo, veniva da lontano. Da bambino, ho dovuto attraversare centinaia di volte il canale di Suez che separa l’Africa dall’Asia. Da scolaro vivendo a Porto Said in Africa, prendevo tutti i giorni un traghetto per andare alla mia scuola a Port-Fouad in Asia. Non me ne rendevo conto al tempo ed ero piuttosto concentrato sul piacere di caramelle deliziose, chiamate “cacca cinese” (l’ignominia di questo termine non mi sfuggiva!), che ci si poteva procurare durante il viaggio.” (Hors Temazcal, cit. pp. 92-93).
Ma dicevamo che non si tratta esclusivamente di un viaggio fisico; non vorrei qui scomodare il processo alchemico, che pure avrebbe più di un’affinità con il percorso professionale (Cassir è un chimico) e poetico di Michel (l’Alchimia nasce in Egitto, contempla una trasformazione fisica dei metalli che è anche – per noi moderni soprattutto – una conoscenza metafisica e cosmologica che genera una nuova consapevolezza psicologica); ma non voglio correre il rischio di banalizzare un argomento che ha appassionato insigni studiosi, non ultimo Carl Gustav Jung. Quindi, per approfondire la conoscenza della poetica del nostro scrittore, torniamo alle sue parole, che rafforzano quanto accennato sulla natura anticonvenzionale e liberatoria, libertaria, del suo percorso:
“…ho bevuto come l’acqua di alta montagna la nuova cultura araba e palestinese, la poesia latino-americana, a volte la bellezza assoluta di brevi poesie cinesi e giapponesi (apice di piacere che coltivo ancora). Dopo “l’immaginazione al potere”, la vera svolta è stata la miscela esplosiva di presa di posizione radicale contro le ingiustizie sociali e liberazione della manna del subconscio, proposta dal surrealismo. Io non sono sfuggito alla coppia Marx-Freud, a volte antinomica, ma è l’avventura poetica che mi ha forgiato ancora più profondamente. Non è stato solo il gruppo intorno a André Breton, ma qualsiasi pratica per liberare l’immaginario, l’atto ribelle, la visione dell’uomo nel suo divenire, piuttosto che nelle sue convenzioni e nella sua paura. Una miscela di arte naif, di canto ribelle e di rottura di stile e di principio con la letteratura fossilizzata, consolidata nei suoi pregiudizi”. (Idem, pag. 90). Questa rivendicazione conferma e giustifica la citazione della Oates che ho voluto inserire quasi all’inizio; Cassir, infatti, opera una decisa trasgressione rispetto ai canoni che ancora prevalgono nel mondo accademico: Ghislain Ripault, nella sua prefazione a dieux des dieux des dieux, definisce la scrittura di Cassir “avventurosa e lucida” e la sua poetica “sediziosa e fraterna” (Ripault G., Sur le quai, in Cassir M., dieux des dieux des dieux, Paris 2008, p. 7).
Per aggiungere un ulteriore tassello al mosaico complesso che questo itinerario ci offre, soffermiamoci sulla riflessione su “Lingua e oralità”:
“Non ho deliberatamente scelto di scrivere in francese. Questa lingua ha bagnato la mia infanzia, è vero, con la musica e gli echi dell’arabo. La lingua araba mi ha sempre affascinato e ricordo di aver appreso con ebbrezza centinaia di versi a scuola. Potevo coglierne il galoppo, la forza e la finezza, ma non sempre il significato preciso. Non sono mai riuscito a scrivere poesie in arabo, ma spero di riuscire un giorno a rileggere i poeti che mi hanno affascinato e che ho capito così poco. Ho anche scritto in inglese e spagnolo, ma il francese rimane ancora il fluido segreto attraverso il quale circola la mia poesia. La mia vera scoperta è stata l’oralità che va al di là anche della lingua, incantesimo, free jazz e parola mistica che ridanno alla poesia la sua cittadinanza. A un dato punto tutte le lingue si fondono in una sobria mescolanza. Devo a Claudia Christiansen questo elisir della voce e della musica che accarezza il testo, lo chiama, lo sfiora con delicatezza e mistero”. (Ibidem, pag.91).
Credo che sia rimasto nella mente e nelle orecchie di quelli che hanno potuto assistere al reading di Michel Cassir, tenuto il 22 aprile 2016 alla Casa della Poesia di Baronissi, l’eco di una fantasmagoria di suoni e sogni, contrappuntata dall’interazione con la musica ed il canto di Claudia Christiansen, compagna nell’arte e nella vita (a cui è dedicata, non a caso, l’intensa poesia che apre dieux des dieux des dieux (cit., p. 9). I testi, usciti finalmente dalla pagina, abbracciavano gli spettatori, coinvolgendoli in un viaggio meraviglioso. Vorrei proporre ai lettori di Potlatch un estratto delle tre sequenze poetiche lette nel corso di quella serata, avvertendoli che, come asseriva Umberto Eco, “(…), un testo è una macchina pigra che si attende dal lettore molta collaborazione” (U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano 2016, pag. 34).
Le poesie che qui proponiamo ci portano in tre diversi continenti ed in tre luoghi alquanto differenti tra loro, pur nella comune appartenenza al Mediterraneo: Egitto, Libano, Napoli. Il procedimento di scrittura sembra analogo nei tre poemetti: nella vita, come nei sogni, succedono cose strane e imprevedibili, incontri ed epifanie, e Michel Cassir parte da questi elementi “casuali”, talvolta minimi, per sviluppare la sua poesia onirica ed ellittica, colta ed affascinante, piena di erotismo e sensualità, dalle sonorità che si intrecciano e riecheggiano da un testo all’altro, fino a creare un ritmo avvincente ed unico al quale il lettore non può che abbandonarsi come in un lungo sogno ad occhi aperti o una danza ancestrale che conduce fino alle soglie della trance.
A conferma di quanto appena detto, leggiamo nella prefazione di Christian Cavaillé a Ces langues que nous ne parlons pas, suivi de Invisible pèlerin, [In seguito per brevità Ces langues], libro in cui queste poesie sono confluite: “Non si sa, in queste poesie, se i sogni poetano o se la poesia fa del sogno il suo ambiente propagatore, sogno che agisce, sogno sveglio e sulla breccia tra profondità notturne sfuggenti e presenze sensibili da riconquistare; (..) ” [C. Cavaillé, Percussions de l’inépuisé in Cassir M., Ces langues, Paris 2016, p. 5 ].
L’Egitto, come abbiamo visto, è stato il luogo dell’infanzia di Michel e in una poesia (inserita nella sezione che va sotto il titolo Frondaison) ci vengono narrate, attraverso una serie di flashes, le sensazioni e le emozioni provate nel corso di un viaggio realizzato più di trent’anni dopo l’abbandono di quel paese. Leggiamone un estratto:
Egypte, mon Egypte que je revois après 33 ans
d’absence, avec un avant-goût de Christ qui ne
retrouve plus sa croix ni l’arcane de son épopée.
Egypte, je n’ai rêvé ni de tes faucons ni de tes
crocodiles, à part sans doute celui que le garçon
de chambre nous a fabriqué avec le couvre-lit.
Un long crocodile de paix avec dans la gueule
le guide du Routard.
Ironie et tendresse !
Je confonds mon retour à celui de Giuseppe
Ungaretti sur le paquebot Esperia vers son
Alexandrie natale dans les années 1930.
[Egitto, il mio Egitto che rivedo dopo 33 anni/ d’assenza, con un presentimento da Cristo che non/ trova più la sua croce né l’arcano della sua epopea./ Egitto, non ho sognato né i tuoi falconi né i tuoi/ coccodrilli, a parte quello che il giovane cameriere/ ci ha fabbricato con il copriletto./ Un lungo coccodrillo di pace con in bocca/ la guida Routard.// Ironia e tenerezza!// Confondo il mio ritorno con quello di Giuseppe/ Ungaretti sul vapore Esperia verso la sua / Alessandria natale negli anni ‘30. – Hors Temazcal, cit., pag.27]
Il diario di viaggio slitta immediatamente nel tempo e nello spazio, intessuti di simboli che rendono la cifra profonda di questa esperienza emotiva. Ma il movimento è a doppio senso (reale-simbolico/ simbolico-reale), così il coccodrillo simbolo (non)sognato riporta a quello realizzato con il copriletto dal personale dell’albergo a beneficio dei turisti. E, dopo una rapida e penetrante notazione dei suoi sentimenti contrastanti (Ironia e tenerezza), siamo ancora testimoni di uno slittamento temporale, con la sovrapposizione di un altro ritorno di un poeta, Ungaretti, alla natale Alessandria d’Egitto, avvenuto negli anni ’30 (quindi ben più di mezzo secolo prima), che rimarca una comune appartenenza alla famiglia dei poeti migratori/migranti.
Il Libano invece è il luogo di provenienza della famiglia Cassir, nel quale Michel torna periodicamente: nel poemetto intitolato A contretemps (Michel Cassir, Ces langues, cit., pp. 69-117), ci propone, nella consueta maniera non convenzionale, le impressioni contrastanti del viaggio più recente (2016), in cui si alternano momenti di rigetto del degrado consumistico del paese ad inni alla bellezza dei luoghi (Enfé, Batroun, Tyr) e delle donne (la belle œnologue di Ksara), che pure avvertono in lontananza gli echi minacciosi del fanatismo religioso (les cohortes fantômes sont à deux pas de proclamer l’abstinence absolue. – le coorti fantasma sono a due passi dal proclamare l’astinenza assoluta. – idem, p.80). Leggiamone un breve estratto:
Le ciel nous est témoin nous portons la terre
par la plante des pieds affranchis de boussole.
Ce témoin est silencieux au point de nous faire
croire aux racines qui fixent la posture et
autres fables du genre.
Le ciel nous est témoin l’amour absolu a tout
renversé.
[Il cielo ci è testimone noi portiamo la terra/ con la pianta dei piedi liberi da bussola./ Questo testimone è silenzioso al punto di farci/ credere alle radici che fissano la posizione ed/altre favole del genere.// Il cielo ci è testimone l’amore assoluto ha/ capovolto tutto. – Ibidem, p. 74]
Ecco ritornare la bussola, sempre con valore negativo, da cui i piedi si sono affrancati. In questa cosmogonia il cielo ricopre il ruolo di testimone silenzioso al punto da indurre in inganno, confondendo piedi e radici (mi tornano in mente, a tal proposito, le lucide parole di Erri De Luca pronunciate in un incontro per Casa della poesia a Salerno qualche anno fa, con le quali affermava che sono gli alberi ad avere radici e non gli uomini, i quali, quindi, hanno il diritto naturale di spostarsi dovunque essi vogliano, con tutte le implicazioni “politiche” che questo comporta), favole che appartengono ad una mitologia dalla quale gli uomini liberi si sono da tempo distaccati. Il distico successivo, che inizia con l’iterazione dell’emistichio posto come incipit della strofa precedente, ribadisce la forza dinamica che pervade la scrittura di Cassir, con un enjambement che in fin di verso enfatizza la qualità assoluta dell’amore con quel tout che diventa una totalità cosmica, separando e congiungendo nel contempo il verso successivo, che sembra scolpire, scandire, la sua unica parola, rendendola capitale, imprescindibile: renversé, un passato prossimo a riprova di un fatto che è davvero successo (il cielo ci è testimone di questo accadimento), il capovolgimento, che è anche rovesciamento, sovversione. Sentirlo pronunciare e ripetere a due voci da Michel e Claudia, posso assicurarlo, dà un brivido indescrivibile, quello che rinnova la nostra fiducia nell’amore e ci fa credere nella poesia come porta spalancata sull’infinito!
Il poemetto si conclude con una sezione intitolata Beyrouth (idem, pp. 81-82) – città a cui Cassir aveva già dedicato un libro corredato da belle e drammatiche foto di Houda Kassatly, Beyrouth clair de ruine, Beirut 2012 – che sin dall’incipit (Cette fois arriver à te maudire. – Stavolta giungere a maledirti.), rivela lo stato d’animo del poeta contrariato, disgustato dal degrado fisico e morale della capitale. È sufficiente la prima strofa (Stavolta giungere a maledirti. Ferraglia Babele/ lusso esaltato da fogne a cielo aperto. Città senza/ legge biascica la fede in mille varianti.) per non lasciare alcun dubbio sulla categoricità del giudizio e della condanna. E, tuttavia, dopo alcune strofe ecco che Violée anéantie elle renaît cerf-volant. (Violata annientata rinasce aquilone.). Ancora un filo sottile che unisce la terra al cielo. Continua l’alternarsi di un realismo senza sconti con una tensione visionaria salvifica, che termina nella seguente strofa conclusiva:
Beyrouth aimante hausse matelas aux
terrasses. Aspirer nuit danser brise l’aurore.
[Beirut amorosa alza materassi sulle / terrazze. Aspirare notte danzare infrange l’aurora. – Idem, p. 82]
Qui direi che si adombra un’atmosfera sospesa tra le insidie della guerra civile e l’erotismo non scevro della sensualità tipica delle “Mille e una notte”, con un passaggio dalla notte all’aurora, parola che conclude il poema e sembra al tempo stesso aprire uno spiraglio alla rinascita (che purtroppo i tragici avvenimenti recenti hanno ancora una volta smentito).
Conclude il trittico il poemetto Les yeux bandeés, (idem, pp. 57-63) ambientato a Napoli, città del vulcano e dell’uovo leggendario (l’œuf magique du Castel dell’ovo – p.58), custode delle spoglie di Virgilio (Ni Parque Virgilio ni tombeau à l’horizon – p. 58) e di Leopardi (le tombeau de Giacomo Leopardi – p.58), magica e misteriosa regina delle contraddizioni, unica e al tempo stesso mediterraneamente identica alle città che in quel mare si specchiano dalla sponda meridionale. Leggiamone la sezione il cui incipit dà il titolo al poemetto (facendo esplicito riferimento ad una leggenda, che tutt’oggi costituisce una sfida ad attraversare la piazza con gli occhi bendati):
Le jeu des yeux bandés sur la piazza Plebiscito
fécondée par des titans.
Fascination des corps pour les champs
magnétiques déjouant l’axe Palazzo Reale et
l’église Francesco di Paola en passant par les
deux statues.
Pieds mus par la danse invisible du sang dans
le tempo. Courbe imprévisible amplifiant les
sillons de la place érotique. En proie à des
pulsions innommables précédant la naissance
reniflant la mort et sa résurrection.
Les circonvolutions des uns et des autres
enfantent une architecture du sol comme un
rêve en déconstruction.
Les yeux bandés se croisent sans se frôler à la
recherche d’un destin provisoire qui ne
connaitrait pas son objet. De peur d’un faux
pas l’amour absolu trace. La sensualité nourrit
le pavé qui rompt pour une mer de sable.
Le dessein des yeux bandés est celui de la
poésie. Il anticipe la disparition et l’avènement
du prodige encore chaud de ses feuillages.
[Il gioco degli occhi bendati su piazza Plebiscito/ fecondata da titani.// Attrazione dei corpi per i campi/ magnetici che eludono l’asse Palazzo Reale e/ chiesa S. Francesco di Paola che passa tra le/ due statue.// Piedi mossi dalla danza invisibile del sangue nel/ ritmo. Curva imprevedibile che amplifica i/ solchi della piazza erotica. In preda a/ pulsioni innominabili che precedono la nascita/ che fiuta la morte e la sua risurrezione.// Le circonvoluzioni degli uni e degli altri/ partoriscono un’architettura del suolo come un/ sogno in decostruzione.// Gli occhi bendati si incrociano senza sfiorarsi alla/ ricerca di un destino provvisorio che non/ conoscerebbe il suo oggetto. Con la paura di un passo/ falso l’amore assoluto traccia. La sensualità nutre/ il lastricato che si apre ad un mare di sabbia.// Il disegno degli occhi bendati è quello della/ poesia. Anticipa la scomparsa e l’avvento/ del prodigio ancora caldo del suo fogliame. – Ibidem, p. 60]
Quante volte avrò attraversato questa piazza nella mia vita, eppure mi pare di vederla per la prima volta! Svelata da una danza ad occhi bendati, col richiamo del sangue e dell’erotismo, in quel susseguirsi circolare di nascita, morte, rinascita. Ancora una volta la sensualità mediterranea conquista un ruolo da protagonista. Ancora rileviamo segnali che rimandano a tracce già incontrate (i campi magnetici ad André Breton; la danza a Beirut, a Princesse noire, ma anche al pregnante sottotitolo di Manifeste oblique: ne danser que l’inconnu, non danzare che l’ignoto; il sogno in decostruzione, probabilmente, a Derrida, ma di sicuro alla dimensione onirica; l’amore assoluto al distico del poema dedicato al Libano). E l’ultima strofa istituisce un parallelismo tra occhi bendati e poesia, che potrebbe equivalere al viaggiare senza bussola, alla necessità dell’hasard come condizione necessaria per l’avvento del prodigio.
Vorrei proporre ancora alcuni versi, a mio avviso particolarmente significativi:
Migrateurs les oiseaux migrants les hommes.
Quel rêve de substitution pour un vingt et
unième siècle à la traîne.
[Migratori gli uccelli migranti gli uomini./ Quale sogno di sostituzione per un ventunesimo/ secolo in ritardo. – Ibidem, p. 61]
E, in questo caso, ogni commento mi sembra davvero superfluo! Ad ogni modo rinvio alle parole di Erri De Luca più su ricordate.
Passiamo ora al poema eponimo Hors Temazcal (pp. 75-87), arrivando in quel Messico che, come abbiamo visto, è un altro dei luoghi cruciali per la vita e per l’arte di Cassir. Nel poemetto si racconta dell’invito a partecipare, per la seconda volta, – e qui Bauer instilla un fecondo dubbio, segnalando l’enigmaticità del titolo Fuori dal Temazcal e sostenendo che “L’esperienza integrale di sé non si verifica che una sola ed unica volta.” (Bauer H., cit. p. 12) – al Temazcal, che è una sorta di sauna cerimoniale dei nativi messicani, dettagliatamente descritta nei versi iniziali. Ma, come sempre per il nostro autore, alla descrizione si accompagnano la riflessione e l’illuminazione, innescate dal caso e dall’analogia. Sicché, ancora Bauer può suggerirci che: “Questo «bagno di sudore sacro» che è il Temazcal, non potrebbe designare, dopo tutto, l’immersione rituale nella scrittura? Alla lettura delle poesie dedicate all’«infinito bruciore» del Temazcal, si opera, se non una confusione, almeno, una miscela chimicamente magica tra gli effetti del bagno ancestrale e quelli dell’antica pratica dello scrivere di cui parla Mallarmé.” (Bauer H., cit., pp. 11-12). Tutto può essere occasione di digressione (e Digression si intitola una delle cinque sezioni in cui è suddiviso il poema), ma quello che apparentemente allontana dal tema qui affrontato, quasi magicamente ci porta al cuore, al centro della poesia, con un avvincente movimento al tempo stesso centrifugo e centripeto. Le occasioni mancate si trasformano in nuove inaspettate occasioni di incontro.
Vorrei soffermarmi sulla seconda sezione del poemetto, intitolata Flûte: Michel è arrivato in ritardo all’appuntamento con gli amici che avrebbero dovuto condurlo al Temazcal e trova un biglietto in cui gli si dice di aspettare lì; entra nella casa e arriva sulla terrazza dove l’aspetta una teiera col tè verde e sente una registrazione di un flauto giapponese che va a ciclo continuo e, nello scenario delle montagne che lo circondano, avviene una trasformazione, la delusione per l’occasione perduta diviene conquista di calma e meditazione, ancora una volta dovuta al caso. Finisce così la prima sezione Temazcal e comincia la seconda, Flauto. Quelli che seguono ne sono i versi conclusivi:
Je ne suis plus une boussole tant que la flûte
m’égare et m’éblouit. L’homme n’est présence
que dans le couronnement du silence habité de
rumeurs et de fêtes. Dans ces brumes de haute
vacuité, la flûte accomplit le présage d’une
errance à l’autre. L’épaule et les cuisses de
l’aimée traversant les ténèbres pour humecter le
lit de paille sèche. L’érection du mont ignoré.
Le ciel qui masque le ciel et celui qui en dégage
les conduits. Une philosophie de tabouret au
bord de l’intempérie réinventant la sérénité du
paysan qui prolonge la terre. Et encore la flûte
qui nous ferait presque croire que le temps est
une courbe mystique.
[Non sono più una bussola finché il flauto/ mi sconvolge e mi abbaglia. L’uomo non è presenza/ che nel coronamento del silenzio abitato da/ voci e feste. In queste nebbie di alta/ vacuità, il flauto compie il presagio da un/ vagare all’altro. La spalla e le cosce del/ l’amata che attraversa le tenebre per inumidire il/ letto di paglia secca. L’erezione del monte ignoto./ Il cielo che maschera il cielo e chi ne libera/ i condotti. Una filosofia dallo sgabello sull’/ orlo delle intemperie reinventando la serenità del/ contadino che prolunga la terra. E ancora il flauto/che ci farebbe quasi credere che il tempo è/ una curva mistica. – Hors Temazcal, cit., p. 81]
Il flauto ha creato uno sconvolgimento tale che l’autore non è plus une boussole. Torna di nuovo l’immagine della bussola, ancora una volta negata, ma stavolta se ne dichiara addirittura l’identità con il poeta; banalizzando potremmo dire che egli ha perso la bussola, è scombussolato: ma quel che per un marinaio sarebbe un dramma, per il poeta è il compimento di una de-route, un passaggio da una errance à l’autre, determinato dal flauto, dal suo suono incantatore. Agli elementi naturali (brumes, mont, ciel, terre, ecc.) si affiancano quelli erotici (L’épaule et les cuisses de l’aimée) e anche stavolta, come era accaduto per la princesse noire, si alternano elementi dinamici e statici in continuo contrasto (silence habité de rumeurs et de fête ; l’intempérie vs la sérénité, ecc.), fino alla conclusione nella quale un’affermazione filosofica metafisica (le temps est une courbe mystique) viene mitigata e messa in dubbio dal presque e dall’uso del condizionale: nous ferait presque croire (ci farebbe quasi credere), come a dire che a noi moderni questa possibilità, forse desiderata, del tempo come curva mistica, è preclusa. Ci sono ancora altre immagini stupende ed enigmatiche (l’erezione del monte ignoto; il contadino che prolunga la terra, ecc.), a ribadire la complessa stratificazione di questi versi che rinnova ad ogni lettura la meraviglia della scoperta.
Propongo, per approfondire ulteriormente la conoscenza dell’opera di Cassir, un altro passaggio molto significativo dalla citata prefazione di Cavaillé, in cui se ne descrive il procedere: “Attraverso anafore incrociate, enumerazioni ravvivate e spezzate nella variazione dei lampi e dei riflessi, degli echi o omofonie sottili, con cortocircuiti più vivi degli ossimori, al punto da disorientare e riorientare all’istante e continuamente i dintorni, per ellissi vertiginose, giustapposizione di apposizioni, di indefinizioni o di approssimazioni suggestive in un fraseggio sciolto, la cui tenuta si svolge quasi sempre senza il verbo «essere» con nomi propri di persone e di luoghi la cui singolarità è così forte e così presente da impregnare ciascuna delle altre parole, con composizioni a ritmi di tamburi e di strane lire, di volta in volta accentuati e messi in sordina, rotti o modellati e in contrappunto gli uni agli altri, percussioni insistenti o opache, respiri di marcia, di nuoto e di volo che sposano e rendono a se stessi ondulazioni serpentine, balzi e lacerazioni, quei rilievi e sporgenze nella carne del mondo ai quali si affidano i gesti vivi e le parole della poesia.” [C. Cavaillé, cit., p. 8]
Per concludere questo breve ed esiguo viaggio nella poesia di Michel Cassir, vorrei leggere TGV blues – solo di sfuggita posso segnalare che Cinq frappes de blues è il titolo di una delle sezioni del suo libro più recente, Lame, Paris 2020 – che mi sembra una sintesi esemplare della sua poetica.
TGV blues
Du train porté à l’excès d’ivresse émerge un visage ensommeillé d’adolescent distribuant la pulsion dans les pointes d’une chevelure vierge. Le train se cabre comme un troupeau sauvage à l’apparition d’un cauchemar sur les parois du ciel. La peau heurte la vitesse et l’allonge comme un tapis mauve de prière inédite. Seul le souffle est maître d’œuvre de la dérive et de la salvation. Ni train ni maître ne dompte toutefois la folie de peau piquée par la courbure du temps. Celle-ci se renfrogne aussi soudainement qu’elle n’invite. Nous portons la boue dans les vallées siliconées et perpétuons la fête des corps nus dans les forêts bibliques. Nous nous jetons des pommes au visage pour que l’autre signifie l’empathie et le divin à portée de poigne. Le rêve de Buñuel dans un bus mexicain sillonnant les précipices est ici aussi réel qu’un taureau ailé portant les passagers à l’extase. Ils n’y paraissent rien mais le moindre rictus ou coup de lame tend les bras à l’infini notion libre servant à rapiécer les loques de l’inspiration.
[TGV blues. Dal treno portato all’eccesso di ebbrezza emerge un viso assonnato di adolescente che distribuisce la pulsione tra le punte di una capigliatura vergine. Il treno si impenna come un branco selvaggio all’apparizione di un incubo sulle pareti del cielo. La pelle urta la velocità e la stende come un tappeto malva di preghiera inedita. Solo il respiro è artefice della deriva e della salvezza. Né treno né padrone domano tuttavia la follia della pelle punta dalla curvatura del tempo. Questa si incupisce molto più improvvisamente di quanto non inviti. Portiamo il fango nelle valli siliconate e perpetuiamo la festa dei corpi nudi nelle foreste bibliche. Ci gettiamo delle mele sul viso affinché l’altro significhi l’empatia ed il divino a portata di mano. Il sogno di Buñuel in un autobus messicano che solca i precipizi è qui reale tanto quanto un toro alato che porta i passeggeri all’estasi. Non sembrano niente ma ogni minimo ghigno o colpo di lama tende le braccia all’infinito nozione libera che serve a rattoppare i brandelli dell’ispirazione. – Ces langues, cit., p. 50]
Il viaggio, la musica, la dimensione onirica, l’erotismo (corps nus), l’esotismo, la curvatura del tempo, il Surrealismo e il Messico (Le rêve de Buñuel dans un bus mexicain – riferimento al film Subida al cielo del 1952? – ma vorrei rimarcare che dans un film de Buñuel/ qu’il tourne au ciel sono i due versi che concludono Lame, cit. p. 73), il corpo (viso, capigliatura, pelle), gli elementi naturali (cielo, fango, valli, foreste, mele, ecc.), i riferimenti mistici (il tappeto di preghiera, le foreste bibliche, il divino, il respiro artefice della salvezza, ecc.) si accavallano tumultuosamente in questa breve prosa poetica, che termina con una considerazione metapoetica: minimi gesti (rictus ou coup de lame) tendono le braccia all’infinito che rattoppa i brandelli dell’ispirazione; il lavoro del poeta consiste, dunque, nel rapiécer les loques de l’inspiration con un filo infinito. Così come il viaggio, senza bussola e senza rotta, può diventare infinito perché la vera meta è il cammino, conoscersi per conoscere, incontrarsi per incontrare.
Mi accorgo di quante altre cose avrei voluto e dovuto dire, di quante poesie – alcune già tradotte, altre arrivate troppo di recente – avrebbero meritato di essere inserite in queste righe, se la tirannia dello spazio e del tempo me l’avessero concesso. Ma la complicità e la condivisione, di cui parlavo all’inizio, mi lasciano sperare di poter avere ben presto l’occasione per ampliare questo affascinante viaggio.
Non mi resta che ribadire quanto mi (ci) abbia arricchito l’incontro con quest’uomo e la sua poesia, un esempio dei meravigliosi frutti che nascono dal “meticciato”, dalla fusione di culture e sensibilità diverse, dalla curiosità e dal rispetto per l’altro; davvero l’autre signifie l’empathie et le divin à portée de poigne (l’altro significa l’empatia ed il divino a portata di mano). Una lezione di poesia e di umanità da non dimenticare mai.
Giancarlo Cavallo
Lascia un commento