Ho avuto il piacere – insieme a Raffaella Marzano e Sergio Iagulli – di accompagnare Genny Lim nei suoi brevi tour in Campania (Napoli, Baronissi, Salerno, Paestum) a novembre del 2017 e agli inizi di aprile del 2019, ed apprezzare le sue performances, che in alcune occasioni l’hanno vista validamente affiancata dai jazzisti Aldo Vigorito al contrabbasso o Gaspare Di Lieto al pianoforte. Sono rimasto davvero colpito dalla sua immediatezza e simpatia, oltre che dalla notevole abilità performativa e comunicativa.
Vorrei provare ad approfondire la conoscenza della sua poesia, avvalendomi di due interviste reperibili in rete e del suo libro italiano La morte del tempo (testo a fronte, traduzioni di Raffaella Marzano, Multimedia, Salerno 2017), consigliando, a chi ancora non l’avesse, di leggere alcune sue poesie (Lamento, Bambini di guerra, Winter Place, Passato ombroso, Aung San Suu Kyi, Mantra americano) al link https://www.casadellapoesia.org/poeti/lim-genny/poesie ed ascoltarne anche altre quattro (Esilio, Monarca blu, Sugli angeli, La luna sul Gange) in questo stesso blog; inoltre, per conoscere meglio alcuni aspetti della sua biografia e del suo rapporto con la comunità sino-americana, consiglio la visione del bel documentario Legacy & Lineage: Genny Lim (Eredità e discendenza: Genny Lim), prodotto dall’Asian Pacific Islander Cultural Centre di San Francisco nel 2020 (https://www.youtube.com/watch?v=s9v1blDv8ps ).
Genny Lim non ama essere etichettata, incasellata in schemi preconfezionati: “Non penso in termini di tipi. Io sono quello che sono. Cinese, americana, donna… non in questo particolare ordine, intendiamoci.” (Jaime Wright, The following is a comfusion, interview with Genny Lim, https://www.casadellapoesia.org/poeti/lim-genny/altro – In seguito per brevità Following. Le traduzioni dall’inglese, salvo diversa indicazione, sono mie). Tuttavia, non rinuncia alla cultura tradizionale cinese: “Poiché noi asiatici-americani siamo stati sradicati dalla nostra fonte per diverse generazioni qui, continuiamo sempre a guardare indietro alla lontana patria per il sostentamento spirituale.” (Following, cit).
Aggiungerei, prima di addentrarmi nell’analisi testuale, un ulteriore elemento determinante per la comprensione del suo milieu culturale, utilizzando ancora una volta affermazioni da lei fatte nel corso dell’intervista sopra citata: “Le mie poesie sono strutturate come composizioni jazz. Il jazz e il blues che ho sentito crescendo fanno parte del mio paesaggio interiore. È il corso naturale per le mie escursioni poetiche. Sono abbastanza a mio agio lavorando con musicisti jazz, perché condividiamo un linguaggio comune.” (Following, cit). Questo legame con il jazz è testimoniato dalla presenza di alcuni nomi nei titoli e nelle dediche delle poesie antologizzate (Albert Ayler, Billy Higgins, Monk, Fred Ho), ed è appena il caso di ricordare che Genny Lim ha presentato le sue poesie in collaborazione con grandi leggende del jazz quali Max Roach, Herbie Lewis ed Eddie Marshall. (per una panoramica sulla jazz poetry, in italiano, suggerisco la lettura di La Jazz Poetry di David Treggiari, http://www.jazzitalia.net/lezioni/storia/st2_capitolo5.asp#.YIw7MrUzbIU ).
Tuttavia, credo di poter affermare – confortato in questo da alcune affermazioni rilasciate in Following – che, all’interno dell’opera della Lim, esistano due tendenze principali, due forze propulsive: la linea performativa (legata, come abbiamo visto, a doppio filo con il jazz) e quella speculativa (legata al buddismo e più in generale alle religioni orientali), linee alle volte separate, altre volte compresenti. Lo verificheremo, come sempre, nel corpo vivo delle poesie.
Paul Zumthor – al cui fondamentale testo sulla poesia orale farò più volte riferimento – dice: “Con i suoi ritorni, la voce sistematizza un’ossessione; con la sincope, fa esplodere i segni di una simbolizzazione virtualmente isterica: viene così trasmessa una conoscenza liberata dalla temporalità, che si identifica con la vita stessa, come la vita pulsazione antichissima.” (Zumthor P., La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Bologna 1984, p. 204). Queste parole possono aiutarci sia a comprendere il significato del titolo scelto per l’antologia apparsa in Italia (La morte del tempo), che introdurci alla lettura di una prima poesia:
Requiem
Memory is a grieving mother
searching for her lost child
No one knows that inside her
is a rose that never dies
a truth that burns through
the sleepwalk of time
Beyond the fallen trees
and swollen branches of figs
is a girl who lives in the clouds
Her dark eyes roam the night and
the moon and stars echo her sad stories
Even the wind is afraid to sigh
lest she stops remembering
What binds the noose from the
Klansman to the hanged man is fear
But what issues from a wound is the same
blood often of the same father or mother
though one is destined to crack the whip
while the other to groan and shuffle
Memory is a horse in search of its rider
If not for that cat’s cradle of illusions
that contraband history written by thieves
who would argue the beginnings of things?
The names of things? Before they were renamed?
The unholy spark of revolt on a Birmingham Sunday?
The jet black emptiness inside a ship hold?
The ring of gunshots in a safehouse?
At the border? At a check-point? On a city street?
Memory is a grieving mother
searching for her lost child
No one knows that inside her
is a rose that never dies
a truth that burns through thorns of time
Beyond the fallen trees and swollen breeze
is a girl who lives in our imagination
with dark eyes that own the night
The moon and stars hang on her every word
Even the wind is afraid to die
lest she stops remembering
Quattro strofe asimmetriche di versi liberi (13-6-9-11), tre delle quali iniziano con “Memory is” (La memoria è); ma, già con una semplice una lettura superficiale, rileviamo che la prima e l’ultima strofa danno luogo ad una sorta di variazione sul tema (il Requiem del titolo, con più che probabile riferimento musicale): i primi quattro versi, infatti, sono assolutamente identici, il quinto lo è parzialmente poiché “l’andare sonnambulo del tempo” viene sostituito da “spine di tempo”, così come il sesto (i “rami rigonfi di fichi” diventano “la brezza gonfia”) e questo tipo di variazione continua per i versi successivi con eccezione dell’ultimo (“per timore che lei smetta di ricordare”) che torna ad essere totalmente identico. Direi che si tratta di un raro esempio di trasposizione sulla pagina scritta di quello che è un tipico procedimento performativo, una sorta di improvvisazione jazzistica. D’altronde, ci ricorda ancora Zumthor, la performance non è mai identica, (“è eccezionale che un’opera non sia oggetto di diverse esecuzioni: ma per forza di cose essa non è mai la stessa”, op. cit. p. 307), quindi, come sanno coloro che hanno avuto la fortuna di vedere all’opera poeti performer come Amiri Baraka, Devorah Major, Janine Pommy Vega e non ultima Genny Lim, il testo scritto va inteso come un canovaccio (“Come poeta performer, non voglio mai usare la parola scritta come documento letterale, ma come punto di partenza […]” – dichiara Lim nella citata intervista Following), su cui è lecito improvvisare ripetendo, omettendo, creando parole, versi, suoni onomatopeici e tutto quanto la voce e il corpo in azione, spesso in cooperazione con la musica, possano produrre per creare una sintonia fascinatoria con il pubblico presente e, forse, anche un dialogo ancestrale con i morti. Tuttavia, è bene sottolineare che il testo scritto non è affatto approssimativo, ma è frutto di una raffinata ricerca volta a trovare ritmi e sonorità che possano veicolare al meglio le profonde riflessioni ed emozioni dell’autrice.
La successiva poesia (A Song for Samila – pp. 76-79), dedicata a una bambina palestinese uccisa in un bombardamento, è tematicamente molto simile a Requiem – anche se, dal punto di vista formale, l’iterazione, qui soprattutto anaforica, è interna alle strofe e non migra dall’una all’altra come nella precedente – e nel verso finale ci fornisce una chiave di lettura autobiografica della peculiare sensibilità dell’autrice rispetto a questo tema; eccone gli ultimi cinque versi:
Let me be the mother of your memory
Let me be the dreamer of your dreams
Let me pluck you like a ripe olive from
the burning orchards of your homeland
Just as my child had been plucked from mine
È interessante rilevare la sequenza di anafore e variazioni che consente di passare dai primi due versi gemelli (in cui soltanto “mother” diventa “dreamer” e “memory” è mutato in “dreams”, creando significative analogie tra le due coppie di termini) al terzo che inizia come i precedenti con “Let me” per virare, attraverso l’introduzione di “pluk” e, successivamente, di “olive”, verso il distico finale anticipando “orchards” del penultimo verso e “plucked” dell’ultimo, creando altresì un flusso temporale presente-passato e viceversa.
Particolarmente suggestivo e ricco di implicazioni il rapporto metaforico tra “mother” e “memory” (madre e memoria), che ritroviamo in entrambe le due ultime poesie, al punto da suggerirmi un doppio ruolo per Genny, – intesa come colei che parla in prima persona – che diventa sia esplicitamente madre che implicitamente figlia, risalendo in tal modo l’albero della lingua e della tradizione rappresentate dalla propria madre (che compare, ad esempio, in Yellow woman, pp. 8-11 e in Mothertongue, pp. 64-67). Va anche evidenziato come la Lim riesca ad amalgamare contenuti attinenti alla sfera intima con altri fortemente politici, che finiscono per nutrirsi a vicenda, dando a questi testi un vigore spesso assente in poesie esclusivamente “confessionali” e, altresì, una sensibilità frequentemente bandita dalla poesia cosiddetta “civile”. La conferma ci arriva da questa sua dichiarazione: “Alcune delle mie poesie più personali sono anche le mie più politiche, perché le intersezioni tra personale e politico sono sfumate. Ho sempre creduto che non ci fossero davvero confini tra i due, perché è tutto connesso. […] Quindi direi che gli elementi personali, politici e spirituali nel mio lavoro stanno diventando più stratificati e sottili.” (Genny Lim – Poetry, Music and Action, intervista di Devorah Major, http://www.devorahmajor.com/?p=211 – in seguito per brevità Poetry).
Conclude questa sorta di trittico delle madri la successiva The Sound of a Heartbeat (Il suono di un battito del cuore, pp. 80-81), in cui troviamo, nella seconda strofa, una madre che vaga “per cercare tra le macerie suo figlio”, e, nella quinta e ultima, la domanda “What is the sound of a mother’s cry” (Qual è il suono di un grido di una madre). Anche in questa poesia, l’iterazione crea il ritmo, attraverso un interrogativo anaforico (“What is the sound”) che rimbalza da una strofa all’altra (con l’unica eccezione della seconda) incalzando l’ascoltatore/lettore con una serie di domande retoriche, che nell’incipit della prima e dell’ultima, danno luogo a questa struggente variazione “What is the sound of a heartbeat? – What is the sound of a heart breaking? (Qual è il suono di un battito del cuore? – Qual è il suono di un cuore che si spezza?). Leggiamo gli ultimi quattro versi:
A child wanders the empty streets
from Gaza to Ferguson
scratching her eyes, searching through
the rubble for her childhood lost
Ancora una bambina, ancora un intreccio inestricabile tra personale e politico, ancora una identificazione tra madre e bambina operata attraverso l’uso dello stesso verbo “wanders” (vaga) attribuito prima alla madre (nella seconda strofa) e poi alla bambina (nella quinta), nonché di una stessa espressione, “scratching her eyes, searching” (si graffia gli occhi per cercare). Le macerie e l’infanzia perduta hanno sì un valore universale, ma acquistano una loro concretezza nominando Gaza e Ferguson, luoghi in cui palestinesi e ragazzi di colore hanno effettivamente perduto la vita a causa della violenza del potere.
Riferendosi ad Ahimsa, – termine sanscrito generalmente tradotto con nonviolenza – titolo di una poesia non compresa in La morte del tempo, Genny Lim dice: “La mia poesia, Ahimsa ricrea il potere auto-inebriante delle nostre proiezioni negative: “Cammino con una pistola, una pistola alla testa, una pistola al cuore, con una pistola, con una pistola, con una pistola, una pistola, una pistola, una pistola, una pistola. . . ” Recitiamo costantemente mantra, che ce ne rendiamo conto o meno, e i mantra generano energia.” (Following, cit.). Ritengo che questo riferimento ai mantra sia piuttosto interessante, al di là dello specifico di questo testo, per svelarci una tecnica compositiva utilizzata spesso dalla Lim, che prevede una ripetizione variata con slittamenti del significante, in cui è fortemente rilevante la componente fonica, direi concreta, delle parole utilizzate.
A questo punto diventa inevitabile avventurarsi “in where angels fear to tread” (dove gli angeli esitano a mettere piede – da un verso di Alexander Pope in An essay on Criticism del 1711), cioè in quella parte della poesia di Genny Lim impregnata dalla filosofia buddista, dottrina che in genere si rivela abbastanza ostica per la mentalità di noi occidentali, divisi tra un rifiuto preconcetto e una stolida accettazione, fatte salve rare eccezioni (e non posso non pensare a Chandra Livia Candiani e alle sue emozionanti poesie).
Un primo quesito riguarda la convivenza tra buddismo e jazz. “Il buddismo zen e tantrico si sforza costantemente di farla finita con le nostre concezioni e ipotesi e di lavorare direttamente con la nostra vera natura. Il jazz prende la forma, che è la melodia, la dispone una volta e poi la capovolge. È un atto di fede per sapere che una volta lasciata la sicurezza della struttura melodica, sarai in grado di mantenere il ritmo e fare ancora un salto nel buio dell’ignoto. Il trucco è che tutto ciò sta accadendo dentro di te. Il buddismo e il jazz dipendono entrambi dall’improvvisazione creativa, che potrebbe essere chiamata consapevolezza, o essere nel momento.” – dice Lim nella citata intervista Following. Vediamo come questo connubio si realizza in una poesia che Genny legge di frequente nei suoi reading:
Monk’s Advice
with Tantric Commentary
A note can be small as a pin or
As big as the world.
Training the mind in the Great Way
requires a good ear.
Just because you’re not a drummer
Doesn’t mean you don’t have to keep time.
There is never any time to spare!
It must be always Night,
Otherwise they wouldn’t need lights.
See the brightness, when there is no light.
When you’re swinging, swing some more.
Let everything go.
The fruit is beyond all hope and doubt.
Play the Melody.
There are no words to express it.
Like a dewdrop on a blade of grass
Sin dal titolo troviamo accostati Monk (Thelonious, noto pianista jazz) e Tantra (l’insieme dei testi canonici che contengono la sistemazione teologica e filosofica dell’induismo e del buddismo – https://www.treccani.it/vocabolario/tantra). La poesia si articola in brevi sentenze espresse in uno o due versi nei quali jazz e buddismo si intrecciano o si alternano, arricchendosi vicendevolmente di significati metaforici e spirituali. Il ritmo è quello lento e alterno di una profonda respirazione, che fa trasparire una piena consapevolezza di sé e del mondo; l’ineffabile è paradossalmente espresso con parole, con una semplice ed efficace similitudine finale che ha la leggerezza e la pregnanza di un haiku.
Leggiamo adesso un’altra poesia intitolata Bardo. Va premesso che, in alcune scuole del buddismo, Bardo è lo stato della mente dopo la morte, stadio intermedio, quando la coscienza viene separata dal corpo; il Bardo rappresenta lo stato tra la vita passata e quella futura.
What happens when the poet loses her tongue?
When metaphors scatter like feathers in wind?
When the will to speak vanishes and
Meaning is contrived as lipstick on a corpse?
Concepts are countless as flies,
Desire as numberless of needles of pine,
Tall as redwoods bursting through a canopy of sky
We slip like grains of sand through sacks of memory
Names of things are like
Runners set afoot, hunters turned quarry
With fresh blood on my hands and
The smell of flesh I wander
Inside this marked grave I know as life
The poem is a mirror
A messenger trapped
Inside a cage of appearance
And the listener attempts
To claim in the barter
The shadow of her own body
Inside the dream of her own being
A margine della citata intervista, Devorah Major ci dice che “Bardo è una meravigliosa poesia sul poeta che sta raggiungendo la poesia che le sfugge.”(Poetry, cit.).In effetti, questa poesia articolata in tre strofe asimmetriche rispettivamente di 8,5 e 7 versi liberi, parla dello stato d’animo di uno scrittore disorientato (evidenziato dai tre interrogativi iniziali), ma è anche qualcosa di più filosofico, che riguarda non solo la poesia, ma anche la vita in generale (e la morte – non a caso incontriamo i termini “cadavere” e “tomba”). Si tratta, come suggerisce il titolo, di uno stato di transizione, di passaggio tra una condizione e l’altra, ben descritto dall’ultimo verso della prima strofa. Torna, nel penultimo verso della seconda strofa, il verbo “wander” che abbiamo in precedenza incontrato in The Sound of a Heartbeat, lì attribuito prima alla madre e poi alla bambina, qui declinato in prima persona a introdurre un concetto grave e in qualche maniera paradossale, ossimorico, con il quale la vita è assimilata al vagare in una tomba. L’ultima strofa, dal velato sapore shakespeariano, ci propone una inconsueta definizione della poesia (vista come un “messaggero intrappolato in una gabbia di apparenza”), ma soprattutto di quello che, conflittualmente, colei che ascolta le chiede in cambio della liberazione: “l’ombra del suo stesso corpo nel sogno del suo stesso essere”. Azzarderei che sono i morti a non avere ombra (spesso definiti tout court ombre) e che quindi possa trattarsi di una richiesta di vita corporea in uno stadio ulteriore dell’esistenza, ma evito ulteriori congetture e mi soffermo a godere di quest’immagine conclusiva icastica e davvero originale.
Non è stato solo il buddismo a nutrire la spiritualità di Genny Lim, bensì la più ampia lettura di classici della letteratura religiosa orientale (Upanishad, Sutra del Loto, del Diamante, del Cuore, il Vimalakīrti Nirdeśa Sūtra, i canti di Milarepa, ecc.). Inoltre, ha rilevato una convergenza del buddismo con la visione dei nativi americani: “Nella cosmologia buddista ci sono innumerevoli mondi che coesistono contemporaneamente nei tre tempi: passato, presente e futuro. Queste sono realtà che si intersecano, esistenti all’interno della nostra esperienza relativa di spazio fisico e tempo. Ciò corrisponde alla descrizione dei nativi americani di tre mondi interconnessi, inferiore, medio e superiore. Quando questi regni sono equilibrati e in armonia siamo felici e stiamo bene. In caso contrario, possiamo provocare il caos.” (Genny Lim in Following, cit.). Così non è un caso che si ritrovino nelle sue poesie riferimenti agli Yaqui e a personaggi della mitologia e del folclore del Sud America, o di derivazione africana.
Apprendiamo, ad esempio, dall’apposita nota che Shango “è un orixa (dio o semidio) della mitologia Yoruba, divinità potente, associata al fuoco e al tuono, con un ruolo importante anche nei culti afro-americani derivati dalla religione yoruba, come candomblé, santeria e vudù”. Shango è il titolo di una lunga poesia che conclude La morte del tempo. In essa, per una decina di strofe asimmetriche di lunghezza da due a quindici versi (senza considerare l’ultimo, solitario e onomatopeico), si alternano versi brevi e lunghi, quasi a costituire una sintesi delle varie articolazioni formali incontrate in precedenza. Il ritmo è dato, anche qui, dalle iterazioni, spesso sotto forma di interrogative:
What is the sound of one hand clapping?
What is a clock without hands?
What is Space without walls? Or Time without place?
Il noto Koan de “il suono di una mano sola che applaude” ci conferma le influenze buddiste che permeano questo testo sin dal tautologico incipit “Everything is everything” (Tutto è tutto), proseguendo lungo l’intero testo con gli interrogativi su spazio e tempo che abbiamo appena visto, o con proposizioni cosmiche del tipo: “The universe doesn’t evolve, it exists.” (L’universo non si evolve, esiste. – incipit della seconda strofa), “Listen to the Universe. Listen to her think” (Ascolta l’Universo. Ascolta il suo pensiero); o sapienziali come: “Everything that happens has happened before” (Tutto ciò che succede è successo prima), “Where all things come and go, go and come/ Where all ages come and go, come and go in ancient eulogy.” (Dove tutte le cose vengono e vanno, vanno e vengono/ Dove tutte le ere vengono e vanno, vengono e vanno nell’antico elogio).
KRA! è il titolo della raccolta pubblicata nel 2017 da cui Shango (come del resto le precedenti Requiem, A Song for Samila e The Sound of a Heartbeat)è tratta, raccolta che inizia con la poesia Raven (Corvo) e termina con il verso onomatopeico “Kra-kra-kra-ra-ra-ra” che, come già detto, chiude Shango; ma credo che il riferimento, più che alla notissima The Raven di Edgar Allan Poe, sia invece ad una sorta di metamorfosi del corvo in donna, narrata nella prima poesia e a Mahakala (il Grande Nero) protettore del buddismo; inoltre rilevo come attraverso questi tre versi:
There are no flights here. No lights here.
Just blackness. Black humor, black rage, black rain
Black Beauty. Black soul, Black lives, Black matter
si produca uno slittamento che chiama in causa sia la musica afro-americana (Black soul) che le recenti vicende che hanno visto le proteste delle comunità afroamericane contro le violenze e gli omicidi della polizia con lo slogan Black Lives Matter.
Shango termina con un’ultima strofa che precede il verso finale, contenente una citazione di Sun Ra (grande musicista jazz, nome d’arte di Herman Poole Blount, pianista, compositore, poeta statunitense, conosciuto per la sua “filosofia cosmica” e per le sue teorie sull’universo e sulla sua stessa vita.):
Space is the place. Wake up on the other side of time
Space is the place. Wake up on the other side of fear
Transmogrify time through Teleportation. In music
“Music is different here. The vibration is different here.
No guns, no anger, no anxiety and fear. A different you lives
here.”
In questo modo il cerchio si chiude, la visione filosofica, la musica e la poesia si fondono e attendono una voce e un corpo che diano loro una vita in atto, che eseguano lo “spartito” del testo, unendo il respiro del poeta a quello dell’intero cosmo in una ritrovata armonia. Vorrei concludere con alcune parole di Zumthor che mi sembrano davvero illuminanti: “Verticalità luminosa che zampilla dalle tenebre interiori, e tuttavia ancora marcata da queste tracce profonde, la parola proferita dalla Voce crea ciò che dice. È quella stessa cosa che noi chiamiamo poesia.” (Zumthor P., cit., p.74)
Giancarlo Cavallo
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