La poesia della settimana è “L’ultimo dei Mohicani / El último Mohicano” della meravigliosa Francisca Aguirre. Figlia del pittore Lorenzo Aguirre, vittima della dittatura franchista, la Aguirre è una delle voci essenziali della generazione di poetesse spagnole nate e cresciute sotto il segno della guerra e della dittatura. La sua opera è attraversata dell’evento della Guerra Civile spagnola, dai temi dell’infanzia, da un frequente ricorso alla mitologia classica e da un’insistente e ostinata preservazione della memoria come strumento di salvezza di fronte all’ingiustizia dell’oblio ideologico ed esistenziale. La traduzione, di Raffaella Marzano e Guadalupe Grande, fa parte del libro “Paesaggi di carta” (Multimedia Edizioni). La registrazione è stata realizzata a Salerno nel 2004 con il chitarrista Fabio Notari. Francisca Aguirre sarà nei prossimi giorni ospite di Casa della poesia per l’evento “La poesia resistente!” (Baronissi 1-2-3 maggio 2015) e per un incontri con gli studenti delle scuole salernitane (30 aprile, Liceo Statale Alfano I). Prosegue l’impegno di Casa della poesia e di Potlatch per la diffusione e la condivisione della grande poesia internazionale.
Francisca Aguirre
L’ultimo dei Mohicani
A mia madre
Non ebbi nulla e, tuttavia, in qualche modo,
capisco che ebbi tutto.
Non avevamo nulla, nulla
salvo la paura, il dolore,
lo stupore che produce la morte.
Quando uccisero mio padre
restammo in quella zona di vuoto
che va dalla vita alla morte,
in quell’ultima bolla che lanciano gli annegati,
come se tutta l’aria del mondo si fosse esaurita di colpo.
Restammo lì,
come pesci in una vasca senza acqua,
come gli attoniti visitatori di un pianeta vuoto.
Non avevamo nulla,
anche se è altrettanto certo che nulla volevamo.
Ricordo bene che a mia sorella Susy e a me
diedero la notizia nella stanza da bagno
di quel collegio per figlie di prigionieri politici.
C’era uno specchio enorme
e io vidi la parola morte crescere in quello specchio
fino ad uscirne
e trasferirsi negli occhi di mia sorella
come un vapore letale e pestilente.
Nulla è riuscito a farmi dimenticare quegli occhi,
tranne qualche ora di amore
in cui Felix ed io eravamo due orfani,
e il volto prodigioso di mia figlia.
E nulla di più avemmo
per molto tempo.
Ma mamma ebbe meno di tutti.
Mamma restò come uno specchio senza mercurio.
Perse tutto
tranne un filo sottile che la legava a noi,
e attraverso quel ponte inconcepibile
– come tre formichine –
andavamo e tornavamo dalla sua statua di vetro
rendendole il mercurio.
Tornò a noi dal paese del gelo
e tornò tanto assolutamente
che grazie a lei, noi, che nulla avevamo
avemmo tutto.
Mamma fu la nostra Enciclopedia,
fu il nostro Guerriero Mascherato,
il Paese delle Fate,
l’abbondanza nella miseria,
il nostro miglior amico,
lo scudo contro i mori,
l’amante delle belle arti,
colei che fece sì che papà non morisse,
che lo resuscitava in ogni suo quadro.
Fu mamma a dirci che mio padre ammirava i greci,
che adorava i libri,
che non poteva vivere senza la musica
e che fu amico di Unamuno.
Certo che non avemmo nulla,
che molte volte ci mancava tutto.
Ma anche se qualche giorno non mangiammo,
avevamo una radio per ascoltare Beethoven,
e il giorno della Befana del millenovecentoquarantaquattro
mamma e gli zii andarono al mercato delle pulci:
ci comprarono tre libri:
La collina incantata, Nomadi del Nord
e L’ultimo dei Mohicani.
Dio sa quante volte avrò letto quei libri.
Mamma ci portò L’ultimo dei Mohicani
e tenendo per mano quell’indio solitario
entrammo nel mondo del meraviglioso
e avemmo tutto per sempre.
E nessuno ce lo potrà togliere.
Traduzione di Raffaella Marzano e Guadalupe Grande
Francisca Aguirre
El último Mohicano
A mi madre
No tuve nada y, sin embargo, de algún modo,
comprendo que lo tuve todo.
Ne teníamos nada, nada
salvo el miedo, el dolor,
el estupor que produce la muerte.
Cuando mataron a mi padre
nos quedamos en esa zona da vacío
que va de la vida a la muerte,
dentro de esa burbuja última que lanzan los ahogados,
come si todo el aire del mundo se hubiese agotando de repente.
Ahí nos quedamos,
come peces em una pecera sin agua,
come los atónitos visitantes de un planeta vacío.
Nada teníamos,
aunque también es cierto que ya nada queríamos.
Recuerdo bien que a mi hermana Susy y a mí
nos dieron la notizia en el quarto de aseo
de aquel colegio para hijas de presos políticos.
Había un espejo enorme
y yo vi la palabra muerte crecer dentro de aquel espejo
hasta salirse de él
y alojarse en los ojos de mi hermana
come un vapor letal y pestilente.
Nada ha logrado hacerme olvidar aquellos ojos,
salvo algunas horas de amor
en que Félix y yo éramos des huérfanos,
y el rostro milagroso de mi hija.
Y nada más tumivos
durante mucho tempo.
Pero mamá tuvo menos que nadie.
Mamá quedó come un espejo sin azogue.
Lo perdió todo
salvo un hilo delgado que la unía a nosotras,
y por aquel inconcebible puente
– come tres hormiguitas –
íbamos y veníamos a su estatua de vidrio
restituyéndole en azogue.
Volvió a nosotras desde el país del hielo
y volvió tan absolutamente
que gracias a ella, nosotras, que nada teníamos
lo tuvimos todo.
Mamá fue nuestro Espasa,
fue nuestro Guerrero del Antifaz,
el País de las Hadas,
la abundancia dentro la miseria,
nuestro mejor amigo,
nuestro escudo contra los moros,
la enamorada de las bellas artes,
la que hizo posible que papá no muriera,
la que lo fue resucitando en cada uno de sus cuadros.
Mamá fue quien nos dijo que mi padre admiraba a los griegos,
que adoraba los libros,
que no podía vivir sin la música
y que fue amigo de Unamuno.
Cierro que no tuvimos nada,
que muchas veces nos faltaba todo.
Pero aunque algunos días no comimos,
tuvimos una radio para oír a Beethoven,
y un día de Reyes de mil novecientos cuarenta y cuatro
mamá y los tíos fueron al Rastro:
nos compraron tres libros:
La cuesta encantada, Nómadas del Norte
y El último Mohicano
Dios sabe cuántas veces habré leído esos libros.
Mamá nos trjo El último Mohicano
y de la mano de ese indio solitario
entramos en el mundo de lo maravilloso
y lo tuvimos todo para sempre.
Y ya nadie podrá quitárnoslo.
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