L’incontro con Jorge Enrique Adoum è stato cruciale per Casa della poesia per aprire una finestra ampia sulla poesia in America Latina. Poeta, scrittore, critico letterario, drammaturgo, traduttore, è stato uno dei maggiori intellettuali latinoamericani. Nato nel 1926 ad Ambato in Ecuador, è stato segretario personale di Neruda, compagno di viaggio del Che, amico di Cuba e di Fidel Castro, ha fatto parte di quel cenacolo di scrittori latinoamericani rifugiati a Parigi e funzionario dell’UNESCO. Grande manipolatore del linguaggio, inventore di neologismi è l’autore di uno dei romanzi sperimentali più importanti in America Latina, Entre Marx y una mujer desnuda (1976). Il testo, davvero straordinario, che vi presentiamo come “poesia della settimana” Dichiarazione d’amore nella stanza accanto / Declaración de amor en la pieza de al lado, è contenuto nel volume L’amore disinterrato ed altre poesie, un libro che ha fatto la storia di Multimedia Edizioni e di Casa della poesia. Ora viene ristampato e riproposto in una nuova veste grafica, ampliato e revisionato da Raffaella Marzano. Scomparso nel 2009, Adoum è stato uno degli amici più cari e fedeli di Casa della poesia. Nella pagina come al solito testo originale, traduzione (di Raffaella Marzano), lettura intensa dell’autore (dal cd “Jorge Enrique Adoum – Del Amor las Palabras”). Prosegue l’impegno di Potlatch e di Casa della poesia per una cultura libera e condivisa.
Jorge Enrique Adoum
Dichiarazione d’amore nella stanza accanto
Ti racconto una cosa: a volte non ebbi madre ma una signora che mi aveva dato alla luce. Mio padre era nato ferroviere. Quando stava a casa andava a letto presto e leggeva, per tutte le notti che durò la sua cattività, tariffe di passaggio, costi di carico, distanze di andata e ritorno, da Huigra a Naranjito, da Bucay a Columbe, da Alausí a Durán. La signora, sul bordo del letto del suo disincontro, si ostinava a non lasciar morire le nostre camicie. Non parlavano se non di numeri, a grida. Ci sgridavano per farci crescere. Poiché c’erano figli, moltiplicazione per cinque del rancore e del digiuno. Le sorelle indossavano un lutto opportuno per la morte successiva dei loro abiti e noi maschi non andavamo a scuola per mangiare. Ricordo che lui stava sempre per andarsene, esploratore o fuggitivo, e non se ne andava, in un altro paese, a guadagnare la sopravvivenza della sua tribù. Lei si abbracciava alle sue gambe memorabili affinché non la lasciasse sola a metà. E vedendoci lì, colpa presente, noi cinque ripetevamo: “Perdono, papà, perdono”. Poi sono cresciuto e ho capito che quella era la povertà.
Di notte, a volte, prima di chiudere la sua porta, lei portava senza nasconderlo una brocca d’acqua e un asciugamano. Poi sono cresciuto e ho saputo che quello era amarsi. Noi non saremo così, perché non parlavano e facevano l’amore e, come già detto e già si sa, non era per quello che era stato fatto, e noi figli vedevamo passare gli accessori di quello che doveva essere stato ingiustamente triste accoppiamento. Noi non dobbiamo essere poveri.
Lui era solitario. Quando sentiva il richiamo del treno, suo unico adulterio, ci odiava e batteva contro la cella nei cui muri marcava il numero dei giorni in cui le bocche parassite e padrone lo derubavano del suo paesaggio. Per questo, dopo secoli di silenzio, gli cadevano dalla bocca nomi di stazioni, di navi, di città. Mi sa, perché davano vertigine e non erano di donne.
Lei era sedentaria forzata. Com’è andarsene? Gli chiese una volta che parlarono. È lontano, disse lui. E non le raccontò nulla del deserto, Dio mio, nulla della sua aria morsa tra brughiera e pioggia, non le parlò del bassopiano, né della sua blusa abbottonata di lucciole. Lei mi fa tenerezza: la poverina mai seppe che ci sono arenili oltre il fiume, mai nulla del mare, orfana sua.
Così una solitudine dormiva accanto ad un’altra disperazione e ciascuna restò senza compagnia.
Prima dell’alba era la sua ora, stava l’alba nella paura delle trattenute, non nel cielo. Io andavo tremando alla porta celestiale della panetteria e immaginavo come si sarebbero odiati a quell’ora, guardandosi i silenzi e i corpi, per essersi toccati la sera prima nell’oscurità, quasi con paura. Noi non saremo così.
Guarda, meglio non esser nulla. Perché ci fu una fotografia: una donna e un uomo, che si amavano per sempre, come suole succedere nei ritratti. Ed erano stati loro, amore, erano i loro cadaveri.
Traduzione: Raffaella Marzano
da: Jorge Enrique Adoum, L’amore disinterrato e altre poesie, Multimedia Edizioni, 2023.
Jorge Enrique Adoum
Declaración de amor en la pieza de al lado
Te voy a contar una cosa: a veces no tuve madre sino una señora que me había dado a luz. Mi padre era ferroviario de nacimiento: cuando estaba en casa se acostaba temprano y leía, todas las noches que duró su cautiverio, tarifas de pasajes, fletes de carga, distancias de ida y vuelta, de Huigra a Naranjito, de Bucay a Columbe, de Alausí a Durán. La señora, al filo de la cama de su desencuentro, se empeñaba en no dejar morir nuestras camisas. No hablaban sino de números, a gritos. Nos gritaban para hacernos crecer. Porque había hijos, multiplicación por cinco del rencor y del ayuno. Las hermanas se ponían un duelo oportuno por la defunción sucesiva de sus vestidos y los varones faltábamos a la escuela para comer. Recuerdo que él estaba siempre yéndose, explorador o fugitivo, y no se iba, a otro país, a buscar la supervivencia de su tribu. Ella se abrazaba a sus piernas memorables para que no la dejara mitad sola. Y viéndonos allí, culpa presente, los cinco repetíamos: “Perdón papá, perdón”. Después crecí y comprendí que eso era la pobreza.
Por la noche, a veces, antes de cerrar su puerta, ella llevaba sin sigilo un jarro de agua y una toalla. Después crecí y supe que eso era amarse. Nosotros no seremos así, porque no hablaban y hacían el amor y, como ya dije y ya se sabe, no por eso quedaba hecho, y los hijos veíamos los accesorios de lo que debió haber sido injustamente triste acoplamiento. Nosotros no hemos de ser pobres.
El era solitario. Cuando oía la llamada del tren, su único adulterio, nos odiaba y se golpeaba contra la celda en cuyos muros marcaba el número de días que las bocas pedigüeñas y amas le robaban su paisaje. Por eso, después de siglos de silencio, se le caían de la boca nombres de estaciones, de barcos, de ciudades. Digo yo, porque daban vértigo y no eran de mujer.
Ella era sedentaria obligada. ¿Cómo es irse? le preguntó una vez que hablaron. Queda lejos, dijo él. Y no le contó nada del páramo, Dios mío, nada de su aire mordido entre pajonal y lluvia, no le habló del bajío ni de su blusa abotonada de luciérnagas. Yo le tengo ternura: la pobre nunca supo que hay arenales más allá del río, jamás nada del mar, huérfana suya.
Así la una soledad dormía junto a la otra desesperanza y cada una se quedó sin compañía.
Él madrugaba a su horario, estaba el alba en el miedo a los descuentos, no en el cielo. Yo iba temblando a la puerta celestial de la panadería e imaginaba cómo se odiarían a esa hora, mirándose los silencios y los cuerpos, por haberse tocado la víspera en la oscuridad, como con miedo. Nosotros no seremos así. Mira, mejor no seamos nada. Porque hubo una fotografía: una mujer y un hombre, amándose para siempre, como suele suceder en los retratos. Y habían sido ellos, amor, eran sus cadáveres.
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