La poesia della settimana offre nella terza settimana di aprile a tutti gli amici e agli appassionati un testo importante e una lettura straordinaria: “Poesia dei doni” (Poema de los dones) di Jorge Luis Borges, uno dei più grandi, amati e discussi scrittori del Novecento. La traduzione è di Domenico Porzio (I Meridiani Mondadori) e potete come al solito leggere anche il testo originale, ma soprattutto ascoltare la voce del grande scrittore argentino a trent’anni dalla sua scomparsa. Prosegue l’impegno di Casa della poesia e di Potlatch per una cultura libera e condivisa.
Jorge Luis Borges
Poesia dei doni
Nessuno umili a lagrima o a rimbrotto
la confessione della maestria
di Dio che con magnifica ironia
mi dette insieme i volumi e la notte.
Di una città di libri fe’ padroni
due occhi spenti, cui leggere è dato
negli scaffali dei sogni soltanto
gl’insensati paragrafi che accorda
al desiderio l’alba. Invano il giorno
spalanca loro i suoi libri infiniti,
ardui come gli antichi manoscritti
periti in Alessandria. Narra un mito
greco di un re che tra fontane e orti
muore di fame e di sete; a quel modo
io erro senza meta per la mia
alta e profonda biblioteca cieca.
Atlanti, secoli, enciclopedie,
Oriente ed Occidente, dinastie,
simboli, cosmi e cosmogonie
porgono i muri, tutto inutilmente.
Lento nella mia notte, la penombra
vana tento con la canna indecisa,
io, che mi figuravo il Paradiso
sotto la specie d’una biblioteca.
Qualcosa, cui di certo non si addice
il nome caso, governa la sorte;
qualcuno ricevette già, in confuse
sere, i molti volumi e la mia ombra.
Errando per i lenti corridoi
a tratti sento con divino orrore
che sono l’altro, il morto, che avrà mosso
i medesimi passi in giorni uguali.
Chi dei due ora scrive questi versi
d’un io plurale e d’una sola ombra?
Che importa la parola che mi nomina
se è indiviso e uno l’anatema?
Groussac o Borges, guardo questo amato
mondo che si deforma e si cancella
in una pallida cenere vaga
che rassomiglia al sogno e all’oblio.
Traduzione di Domenico Porzio
Jorge Luis Borges
Poema de los dones
Nadie rebaje a lágrima o reproche
esta declaración de la maestría
de Dios, que con magnífica ironía
me dio a la vez los libros y la noche.
De esta ciudad de libros hizo dueños
a unos ojos sin luz, que sólo pueden
leer en las bibliotecas de los sueños
los insensatos párrafos que ceden
las albas a su afán. En vano el día
les prodiga sus libros infinitos,
arduos como los arduos manuscritos
que perecieron en Alejandría.
De hambre y de sed (narra una historia griega)
muere un rey entre fuentes y jardines;
yo fatigo sin rumbo los confines
de esta alta y honda biblioteca ciega.
Enciclopedias, atlas, el Oriente
y el Occidente, siglos, dinastías,
símbolos, cosmos y cosmogonías
brindan los muros, pero inútilmente.
Lento en mi sombra, la penumbra hueca
exploro con el báculo indeciso,
yo, que me figuraba el Paraíso
bajo la especie de una biblioteca.
Algo, que ciertamente no se nombra
con la palabra azar, rige estas cosas;
otro ya recibió en otras borrosas
tardes los muchos libros y la sombra.
Al errar por las lentas galerías
suelo sentir con vago horror sagrado
que soy el otro, el muerto, que habrá dado
los mismos pasos en los mismos días.
¿Cuál de los dos escribe este poema
de un yo plural y de una sola sombra?
¿Qué importa la palabra que me nombra
si es indiviso y uno el anatema?
Groussac o Borges, miro este querido
mundo que se deforma y que se apaga
en una pálida ceniza vaga
que se parece al sueño y al olvido.
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