La poesia della settimana è dedicata ad un grande poeta spagnolo, José Hierro, nato a Madrid nel 1922, scomparso nel 2002. Riproponiamo, dopo qualche anno, la bellissima ed emozionante “Lope. La notte. Marta / Lope. La noche. Marta“, dedicata al grande scrittore, poeta, drammaturgo spagnolo Felix Lope de Vega (1562-1635) e alla sua vicenda umana. Negli ultimi anni della sua vita, dopo essere diventato sacerdote, si innamorò, di un amore sacrilego, per la bellissima Marta de Nevares, che appare nei suoi versi con il nome di “Amarilis” o “Marcia Leonarda” e i cui occhi verdi incantavano Lope (ne cantò in varie poesie). La donna diventò cieca per una malattia, impazzì, e il grande scrittore dovette dedicare i suoi ultimi giorni a prendersi cura di lei. La traduzione di questa straordinaria poesia, di Raffaella Marzano, fa parte di un’ampia antologia di José Hierro pubblicata nelle nostre edizioni con il titolo Quel che so di me. Come al solito in questa pagina trovate anche il testo originale e soprattutto la bellissima lettura dell’autore. Prosegue l’impegno di Casa della poesia e di Potlatch per una cultura libera e condivisa.
JOSÉ HIERRO
Lope. La notte. Marta.
Ho aperto la finestra. Entra senza fare rumore
(lascia fuori le sue costellazioni).
«Buona notte, Notte.»
Sfoglia le pagine d’ombra
in cui tutto è già scritto.
Viene a chiedermi conto.
«Sono uscito all’alba – dico –.
Leccava il sole le pareti lebbrose.
Odorava di vino, di miele, di cisto.»
( Abbagliata da tanto chiarore
ha socchiuso gli occhi).
La portano le mie parole attraverso strade, braci, non lo so:
ascolta l’argento dei rintocchi.
Davanti alla porta della chiesa
taccio, mi fermo – entrerebbe con me
se non tacessi, se non mi fermassi –;
so bene cosa vuole la Notte;
quello di ogni notte;
altrimenti, perché sarebbe venuta?
Ormai la mia memoria non è più la stessa. Alla messa dell’alba
non ho detto Agnus Dei qui tollis peccata mundi,
ma ho detto Marta Dei (lei è anche l’agnello di Dio
che toglie i miei peccati dal mondo).
La Notte non potrebbe comprenderlo,
e che dirle, e come, per farglielo capire.
Non mi chiede nulla la Notte,
non mi chiede nulla. Lei sa tutto
prima che io lo dica, prima che io lo sappia.
Ha sentito quei versi
che si sputano di bocca in bocca, versi
di un bastardo dell’Andalusia
– che un altro bastardo montanaro
chiamava «cappellano del re di bastoni» –
in cui si prende gioco di me e di Marta,
amore mio, riassunto di tutti i miei amori:
Detto mi hanno in una lettera
che la tua burlesca figura è
sulle tovaglie scimmia
e tra le lenzuola, Marta.
Che ne saprà quell’imbroglione, quel musone
di cos’è l’amore.
La Notte porta tra le pieghe della toga
una polvere di musica, come quella dell’ala della farfalla.
Una musica filata sulla vihuela
dal maestro di danza, nostro vicino.
Marta la starà ascoltando in cucina;
ballerà, mentre spazza il pavimento che non vede,
macchiato di cenere, aroma, grano tenero,
di gelsomino, di stelle, di carte strappate.
Danza e spazza Marta.
Chiedo alla Notte di andarsene. A domani, Notte.
Lascia che riposi. All’alba, innaffierò il giardino,
uscirò poi per dire messa
– Deus meus, Deus meus, quare tristis est anima mea –
poi tornerò a casa, finirò un’epistola in terzine,
scriverò qualche pagina
della commedia commissionata dagli impresari.
Che le cose non stanno andando bene nel teatro,
e non si può dormire sugli allori.
A domani, Notte.
Devo dare la cena a Marta,
pulirla, pettinarla (non vive più nel nostro mondo),
fare attenzione che non metta in disordine le mie carte,
che non pugnali le pareti con le mie penne
– le mie belle penne appuntite –,
devo confessarla. «Padre, vivo nel peccato»
(non sa che il peccato è di entrambi),
e dirà poi: «Lope, voglio morire»
(e cosa succederebbe se io morissi prima di lei).
Ego te absolvo.
E poi, tranquillizzata, le racconterò, per farla addormentare,
avventure di onde, di galeoni, di archibugi, di rotte marine,
di luoghi vissuti e sognati: di ciò che fu
e che non fu e che avrebbe potuto essere la mia vita.
Apri i tuoi occhi verdi, Marta, che voglio sentire il mare.
Traduzione: Raffaella Marzano
JOSÉ HIERRO
Lope. La noche. Marta.
He abierto la ventana. Entra sin hacer ruido
(afuera deja sus constelaciones).
«Buenas noches, Noche.»
Pasa las páginas de sombra
en las que todo está ya escrito.
Viene a pedirme cuentas.
«Salí al rayar el alba —digo—.
Lamía el sol las paredes leprosas.
Olía a vino, a miel, a jara.»
(Deslumbrada por tanta claridad
ha entornado los ojos).
La llevan mis palabras por calles, ascuas, no lo sé:
oye la plata de las campanadas.
Ante la puerta de la iglesia
me callo, me detengo —entraría conmigo
si yo no me callase, si no me detuviera—;
yo sé bien lo que quiere la Noche;
lo de todas las noches;
si no, por qué habría venido.
Ya mi memoria no es lo que era. En la misa del alba
no dije Agnus Dei qui tollis peccata mundi,
sino que dije Marta Dei (ella es también cordero de Dios
que quita mis pecados del mundo).
La Noche no podría comprenderlo,
y qué decirle, y cómo, para que lo entendiese.
No me pregunta nada la Noche,
no me pregunta nada. Ella lo sabe todo
antes que yo lo diga, antes que yo lo sepa.
Ella ha oído esos versos
que se escupen de boca en boca, versos
de un malaleche del Andalucía
—al que otro malaleche de solar montañés
llamara «capellán del rey de bastos»—
en los que se hace mofa de mí y de Marta,
amor mío, resumen de todos mis amores:
Dicho me han por una carta
que es tu cómica persona
sobre los manteles, mona
y entre las sábanas, Marta.
Qué sabrá ese tahúr, ese amargado
lo que es amor.
La Noche trae entre los pliegues de su toga
un polvillo de música, como el del ala de la mariposa.
Una música hilada en la vihuela
del maestro del danzar, nuestro vecino.
En la cocina la estará escuchando Marta;
danzará, mientras barre el suelo que no ve,
manchado de ceniza, de aroma, de trigo candeal,
de jazmines, de estrellas, de papeles rompidos.
Danza y barre Marta.
Pido a la Noche que se vaya. Hasta mañana, Noche.
Déjame que descanse. Cuando amanezca regaré el jardín,
saldré después a decir misa
—Deus meus, Deus meus, quare tristis est anima mea—
luego volveré a casa, terminaré una epístola en tercetos,
escribiré unas hojas
de la comedia que encargaron unos representantes.
Que las cosas no marchan bien en el teatro,
y uno no puede dormirse en los laureles.
Hasta mañana, Noche.
Tengo que dar la cena a Marta,
asearla, peinarla (ella no vive ya en el mundo nuestro),
cuidar que no alborote mis papeles,
que no apuñale las paredes con mis plumas
—mis bien cortadas plumas—,
tengo que confesarla. «Padre, vivo en pecado»
(no sabe que el pecado es de los dos),
y dirá luego: «Lope, quiero morirme»
(y qué sucedería si yo muriese antes que ella).
Ego te absolvo.
Y luego, sosegada, le contaré, para dormirla,
aventuras de olas, de galeones, de arcabuces, de rumbos marinos,
de lugares vividos y soñados: de lo que fue
y que no fue y que pudo ser mi vida.
Abre tus ojos verdes, Marta, que quiero oír el mar.
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