Testo straordinario di uno dei maggiori poeti, scrittori, intellettuali dell’America Latina. Subito dopo la pubblicazione di Eldorado e Las ocupaciones nocturnas opere che diedero a Jorge Enrique Adum una collocazione importante nel mondo letterario latinoamericano, pensò, nel 1962, un testo che storicamente e letterariamente avrebbe dovuto costituire un nuovo volume de Los Cuadernos de la Tierra.
Iniziò a scrivere di una donna straordinaria Manuela (Manuela Sáenz de Thorne, soprannominata la “Libertadora del Libertador” nata a Quito nel 1797 e morta a Paita in Perù nel 1856, prima femminista dell’America Latina e rivoluzionaria) e della sua storia d’amore con il comandante Simón Bolívar. Manuela fu l’amante, la compagna di battaglie del Libertador. E Adoum sovrappone il suo amore per Manuelita a quello di Bolivar mettendo in versi una specie di “riposo del guerriero” dopo tante storie di lotta e sacrificio. Scrive Adoum: “il Libertador (Simon Bolivar), più fortunato di me che l’ho amata malgrado tutto, con il capo sul petto di Manuelita, inventava parole per un amore che lui (o io?) aveva appena inventato.”
Adoum lasciò per anni in un cassetto i testi nei quali aveva riposto speranza e fatica e nel 1963 lasciò il paese e per anni i dittatori, l’odio e i viaggi gli fecero dimenticare quella dichiarazione d’amore. Trascorse due anni in Cina e là forse anche per nostalgia del suo paese riprese ad essere fedele a Manuela e alla poesia continuando a lavorare su quei versi, correggendo, tornando a scrivere e a correggere, fino a che, infine, restarono di essi solo alcuni pezzi di carta nella spazzatura e il ricordo di qualche immagine resuscitata in ciò che scrisse dopo.
24 anni dopo, con il suo ritorno a Quito, Adoum ritrovò intatte, le pagine lasciate incompiute nel cassetto prima di partire. Si trattava di testi di un’altra epoca, di un’altra scrittura, al punto che risultò impossibile cercare di renderli attuali. In quel tentativo vano però Adoum scrisse un prodigioso Prologo che doveva essere l’apertura di quel poema d’amore e che rappresenta un piccolo gioiello, con la bellissima voce di Jorge Enrique, che vogliamo offrire a tutti i frequentatori di Potaltch.
Prologo
Nella tua prima morte il tuo sepolcro aveva un indirizzo,
un numero in una strada, una casa con un negozio con
un’insegna dove vendevi pizzi e pasticcini che avrei baciato
per incontrare le tue mani
(niente tabacco, corde, mucchi di pesci secchi
tra i quali ti cercò la mia adolescenza?),
a cui arrivavano vedove, marinai e ricordi di un’altra città dove pioveva
e di notte accoglievi un eroe tra le tue gambe:
tutta l’epopea dell’amore, aveva luogo l’altra tua battaglia,
e oggi tu alla porta la ricordi, alunna
rimandata in storia che ripassa da trenta anni la sua lezione.
Ma è già idolo e monumento colui che fu perseguitato,
ed è come se mai fosse andato nudo per la stanza,
come se mai si fosse specchiato nei tuoi fianchi,
e vogliono ripulire la tua vita, strofinare da dietro il tuo specchio,
e tu stessa, tirandoti fuori da quelle pagine che imparai a memoria,
ti cancelli amplificando il dubbio con la tua assenza.
Di tanta vittoria, ormai solo questa tazza di tè e malinconia?
di tanto ardore, sillabe di tenerezza e desiderio che pronunci sottovoce
come se ancora egli potesse udirti con il petto?
Ma uccidesti il tuo cavallo prima della battaglia
con la sua morte, alla quale non volesti accompagnarlo.
Fu per non tornare, terminate le gesta nuziali,
al tuo costume da amazzone appeso nell’armadio,
stanca per l’eroismo e il suo fiore di metallo tra i seni?
(“Non ci sono mappe, disse lui. Gli dissi: Sogneremo. E fui sua amante,
non la sposa, solo il suo battello, questo
fu il mio orgoglio.”)
Chi se non tu potrebbe testimoniarlo ora,
chi potrebbe crederlo di fronte ai tuoi fianchi ingrossati di signora, e chi
profetizzerebbe il passato se non tu, ombra di statua,
statua tu stessa su una sedia a rotelle,
che mai immaginò di essere scoperta dall’agiografia.
Ti morì il marito (“e che importa”),
squartato in un vicolo (“e che importa”),
assassinato con la sua amante (“e che importa,
se ne sarà andato in cielo dove tutto è all’inglese”).
Ma ti morì l’altro, colui a cui tu impedivi la morte,
testardo con prenostalgia della tomba che tu non gli permettevi
e che non potrà resuscitare di nuovo,
colui che ti portò in groppa all’America.
Esiliata da lui, non più vertiginosa generale né sposa
trascurata tra i papaveri: l’amaca ti porta e ti allontana
da te a te, finestre della stessa donna attraverso le quali guardi
ieri, battaglie, saloni, servitù. Qualche pettegolo
ti portò la notizia della sua morte. E poiché non c’era camicia
da mettergli, gli mettesti una cappa di oblio
dalla testa ai piedi?
Ex regina di un mazzo di carte che passò intatta tra i soldati,
ora sconfitta, peggio, senz’uso (solo l’odore oceano
ti arriva ogni sera nell’onda, e di tanto in tanto
la visita importante di qualcuno curioso o con memoria):
ex libertadora la cui gonna lacerarono i rovi della polvere,
donna Manuelita che traduce nella stessa lingua
i segni di una cartolina alla vicina: “Cara Josefina,
sono morto in questo porto di difterite e celibato.”
Non sfuggirai, non puoi, neanche al passato e al delirio,
non c’è scampo per te, neppure nella tomba, non c’è tomba.
Tessi, vedova di dio, quasi ragno, la tua tela di guerriera appagata,
afferra per sempre quest’amore che passò tra le tue lenzuola.
La peste non sa leggere, non conosce la storia, non sa che è la tua porta,
la morte arriva, entra come una sciocca, va in giro
senza chiedere a nessuno e sola si sbaglia
e getta nel fuoco i rami della tua chioma
e i tuoi pettini che un giorno si spezzarono sotto di lui contro i garofani
e le lettere mille volte lette testimoni che fu vera tanta lotta di trincea e di letto,
quitense irrispettosa, ospite tranquilla di uno scandalo
che gli altri custodivano a chiave e naftalina nei bauli della biografia
da dove esci a mostrare i seni orgogliosa
come polena in alto mare.
La seconda volta non ci furono merletti, né oziosità né lettere, non ci fosti,
lesa dal ricordo, ormeggiata alla porta: il vento ti disperse,
polvere o memoria, lungo tutte le strade che conosco,
senza scheletro né cenere da raccogliere e amare, nessuna lampada interrata
se non spettro di un amore altrui, di cui fan fede queste pagine.
Traduzione di Raffaella Marzano
Prologo
En tu primera muerte tu sepulcro tuvo una dirección,
un número en una calle, una casa con una tienda con un letrero donde vendías encajes y pasteles que yo habría besado por encontrar tus manos
(¿no tabaco, cuerdas, fardos de peces secos
entre los que te buscó mi adolescencia?),
a la que llegaban viudas, marineros y recuerdos de otra ciudad donde llovía
y en la noche acogías a un héroe entre tus piernas:
toda la epopeya del amor, tu otra batalla, haciéndose,
y hoy tú a la puerta recordándola, alumna
reprobada en historia que repasa treinta años su lección.
Pero ya es ídolo y monumento el que fue perseguido,
y es como si nunca hubiera andado desnudo por el cuarto,
como si jamás se hubiera mirado en tu cadera,
y quieren limpiar tu vida, frotar por detrás tu espejo,
y tú misma, saliéndote de esas páginas que aprendí de memoria,
te borras haciendo más grande la duda con tu ausencia.
De tanta victoria ¿ya sólo esa taza de tè y melancolía?,
de tanta ráfaga ¿silabas de ternura y deseo que pronuncias bajito
como si todavía él pudiera oírte con el pecho?
Pero mataste tu caballo antes de ese combate,
al que no quisiste acompañarlo, con su muerte.
¿Fue para no volver, terminada la nupcial hazaña,
a tu traje de amazona colgado en el ropero,
fatigada por el heroísmo y su fl or de metal entre los pechos?
(“No hay mapas, dijo él. Le dije: Soñaremos. Y fui su amante,
no la desposada, sólo su bajel, ése
era mi orgullo.”)
Quién si no tú podría atestiguarlo ahora,
quién creerlo frente a tu crecida cintura se señora, ni quién
profetizaría el pasado si no tú, sombra de estatua,
tú misma estatua en un sillón de ruedas,
que jamás imaginó ser descubierta por la hagiografía.
Se te murió el marido (“y qué importa”),
descuartizado en una vereda (“y qué importa”),
asesinado con su amante (“y qué importa,
se habrá ido al cielo donde todo es a la manera inglesa”).
Pero se te murió el otro, ése al que tú le impedías la muerte,
testarudo con prenostalgia de la tumba que tú no le dejabas
y que no podrás resucitar de nuevo,
el que te llevó en la grupa de América.
Desterrada de él, ya no vertiginosa generala ni novia
postergada entre las amapolas: la hamaca te lleva y trae
de ti a ti, ventanas de la misma mujer por donde miras
ayeres, batallas, salones, servidumbre. Algún chismoso
te trajo la noticia de su muerte. Y como no hubo camisa
que ponerle ¿le pusiste un capote de olvido
de la espalda a los pies?
Ex reina de una baraja que pasó intacta entre soldados,
ahora rota, peor, sin uso (sólo el olor oceano
te llega cada tarde en la ola, y de tarde en tarde
la visita importante de un curioso o memorioso):
ex libertadora cuya falda desgarraron las enredaderas de la pólvora,
doña Manuelita que traduce a la misma lengua
los signos de una tarjeta a la vecina: “Querida Josefi na,
he muerto en este puerto de difteria y soltería.”
Tejes, destejes, Penélope de Paita, tu años de trastienda,
de inválida que aguarda sin saber las aves de la fi ebre.
No escaparás, no puedes, sino del pasado y el delirio,
no hay huida para ti, ni siquiera a la tumba, no hay tumba.
Teje, viuda de dios, casi araña, tu tela de guerrara sosegada,
atrapa para siempre ese amor que pasó entre tus sábanas.
La peste no sabe leer, no sabe historia, no sabe que es tu puerta,
la muerte viene, entra como una tonta, da vueltas
sin preguntar a nadie y se equivoca sola
y echa al fuego las ramas de tu caballera
y tus peinetas que un día se quebraron bajo él contra los claveles
y las cartas mil veces leídas con que comprobabas que fue verdad tanto
combate de trinchera y cama,
quiteña irrespetuosa, huésped tranquila de un escándalo
que los demás guardaban con llave y naftalina en los baúles de la biografía
de donde sales a mostrar los pechos orgullosa
como un mascarón de proa en alta mar.
La segunda vez ya no hubo encajes ni ociosidad ni cartas, no estuviste,
lisiada por el recuerdo, amarrada a la puerta: el viento te esparció,
polvo o memoria, por todos los caminos que conozco,
sin esqueleto ni ceniza que recoger y amar, no lámpara enterrada
sino espectro de un amor ajeno, de que dan fe estas páginas.
Jorge Enrique Adoum (Ambato, Ecuador, 1926), pubblica il suo primo libro di poesia, Ecuador amargo nel 1949, da allora la sua opera comprende più di trenta libri di diverso genere, tra cui ventuno di poesia. Conosciuto fino al 1976 fondamentalmente come poeta, sorprese il mondo letterario con il romanzo Entre Marx y una mujer desnuda, considerato uno dei più importanti romanzi sperimentali dell’America Latina. Si è dedicato altresì con successo al teatro, e ha realizzato una notevole opera critica con saggi su Valéry, Rilke, Eliot, Majakovski, García Lorca, Hughes, e Vallejo, raccolti nel volume Poesía del siglo XX.Vincitore dei più prestigiosi premi letterari dell’America Latina, è stato considerato come il più degno erede della poesia di Pablo Neruda, di cui è stato segretario personale. Le sue opere sono state tradotte e pubblicate in molti paesi e inserite in innumerevoli antologie. Importante il suo De cerca y de memoria: Lecturas, autores, lugares, un libro di ricordi su scrittori e artisti dell’America Latina e dell’Europa. Il 3 luglio 2009 si è spento a Quito, in Ecuador. Multimedia Edizioni ha pubblicato in Italia il volume L’amore disinterrato e altre poesie nel 2002, tradotto da Raffaella Marzano.
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